1
STORIA DEL DIRITTO
MODERNO IN EUROPA
(Adriano Cavanna)
“Le fonti e il pensiero giuridico Vol 1-2”
**GennaroAcquario1980**
2
ADRIANO CAVANNA
Volume primo
Storia Del Diritto Medioevale e Moderno
1) Il Sacro Romano Impero.
Con l’incoronazione imperiale di Carlo Magno (nell’800 D.C. per mano del pontefice Leone III) prese vita il “Sacrum Imperium”.
Continuazione dell’Impero Romano, esso volle rappresentare l’unità civile/religiosa di tutte le genti occidentali unite dal
cristianesimo. La Chiesa venne posta al vertice di tale struttura politica universale (insieme all’imperatore, che era prima di tutto il
suo difensore).
2) Le origini medioevali del Diritto Comune.
1) La concezione del Sacrum Imperium trovò sbocco anche nel mondo del diritto.. (Lex communis cioè legge comune verso tutti i
popoli dell’Impero) teorizzato poi nel trattato intitolato Questiones De Iuris Subtilitatibus : Ovvero l’imperatore romano non
tollerava più che le disposizioni promulgate dai re barbarici continuassero ad essere osservate come diritto vigente; in quanto i
singoli regni barbarici erano stati fusi nell’impero, e dunque dall’unità di questo non poteva che discendere l’unità del diritto cioè
quello romano “Unum Ius/Ius Comune”..
…maturando poi nel cd: Rinascimento Giuridico : Fenomeno che prese vita con il sorgere della scuola di diritto a Bologna per
opera dei dottori bolognesi (Glossatori) i quali consideravano la normativa giustinianea come legge comune dell’Impero.
2) Rinascimento Medioevale : Cioè il moltiplicarsi (all’interno/esterno dell’Impero) di ordinamenti giuridici differenziati nei quali
ciascun membro viveva secondo le leggi del proprio popolo d’origine in contrasto con i principi romani (cd: principio di personalità
del diritto).
3) Allo scopo di creare una visione unitaria del diritto romano, si elaborò il concetto di:
Ius Commune : (Ordinamento normativo bifronte = ius civile+canonico) Ovvero gran parte della scienza giuridica interpretò i
testi del diritto romano secondo le regole della Chiesa così da fare del diritto della società a fondamento religioso.
*Né il papa doveva intromettersi nelle questioni imperiali, né l’imperatore in quelle spirituali.
*La prima sistemazione del diritto canonico la ritroviamo nel Decretum di Graziano (12°sec) il quale riorganizzò tutto il
materiale in un numero di testi di provenienza diversa (Auctoritates) raggruppandoli per soggetto con l’aggiunta di un
breve commento (Dictum), qndi: porre un caso, individuare la soluzione, respingere le argomentazioni contrarie.
In questo modo il diritto canonico venne collocato alla stesso livello di quello civile.
3) La Scuola Bolognese dei Glossatori (12°-13°sec).
1) Rinascimento Giuridico : Fenomeno che prese vita con il sorgere della scuola di diritto a Bologna (a sua volta legato al sorgere del
diritto comune).
2) Fondatore della scuola fu IRNERIO (Glossatore) con i suoi discepoli: Bulgaro, Martino, Ugo e Iacopo. Tale scuola divenne il
fulcro dei maestri del diritto e meta di migliaia di studenti provenienti da tutta Europa, in cui le principali caratteristiche del piano
di studi erano:
- Insegnamento del Corpus iuris civilis e ..canonici.
- Programma unico, in quanto tutto era diritto civile o canonico.
3) Tra i principali strumenti tecnici adoperati dai glossatori troviamo:
• GLOSSA : Attività del professore volta a chiarire con una parola/espressione più chiara, un’altra ritenuta più difficile (in base al
contenuto Grammaticale o Interpretativo).
*La Magna Glossa di ACCURSIO : Ovvero gigantesco commentario dei libri giustinianei, che (nonostante le sue
lacune/contraddizioni) venne ritenuto strumento essenziale per interpretare il testo.
• Quaestiones : Metodo attraverso il quale il professore esaminava il problema esponendo prima le ragioni/testi che erano a
favore/contro, per poi arrivare ad una propria conclusione interpretativa (solutio).
Quaestio legittima : un autore cerca di coordinare le leges contraddittorie tra loro.
Quaestio de facto : il maestro arriva all’università, si inventa un caso inesistente e lo fa discutere agli allievi.
Quaestio disputata : gli studenti senza il maestro, discutono il sabato matt di 2 casi pratici inventati.
Quaestio ex facto emergentes : si discutono dei casi provenienti dalla prassi forense (venendosi a creare un primo ponte tra le aule
universitarie e quelle dei tribunali).
• Summae : Ovvero opere in cui venivano riassunti interi libri/testi/argomenti (es: Summa Trecencis).
4) Il primo risultato del loro lavoro fu la “Riscoperta del Codice Giustinianeo” ovvero la ricostruzione del Digesto (considerato
tesoro di sapienza legale) in modo tale che un testo complesso come il Corpus Iuris poteva poi essere facilmente consultato dal
magistrato per rendere più agevole la soluzione da adottare nei casi concreti.
3
Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.
5) Aequitas : Ovvero giustizia naturale che proviene dalla natura delle cose/persone, e che per opera di una “volontà terrena”
(giudice) diviene giustizia concreta operante nella risoluzione delle controversie (da valore morale a comando).
Essa si distingue in:
• Civilis : rudis (generica) costituta (legge scritta).
• Canonica : la condizione necessaria per disciplinare le relazioni sociali.
4) La scuola dei Commentatori.
Successivamente alla scuola dei Glossatori venne formandosi quella dei Commentatori (intesi come continuità dei primi) infatti
Commento : Tecnica di interpretazione del diritto (come sviluppo della glossa) riguardante il diverso modo di leggere e disporre il
testo giustinianeo (i Commentatori chiamavano antichi i Glossatori). Qui la norma veniva scomposta/ricomposta/collegata ai casi
pratici e infine sezionata in una serie di tesi volte a fornire ipotesi/questioni.
5) PRAGMATISMO GIURIDICO : Trattatisti e Consulenti (cd: Bartolismo).
1) Dobbiamo distinguere:
• TRACTATUS : Genere letterario che contemplava (con apposite monografie) settori di diritto e giurisprudenza.
*Autorevole trattatista fu il Cardinale Gianbattista De Luca che scrisse in lingua italiana le dissertazioni del suo enciclopedico di legislazione
civile/canonico sia feudale-municipale (Teatrum veritas et iustitiae).
• CONSILIUM : Che raccoglievano i risultati dell’attività svolta da consulenti della giurisprudenza:
Consilium sapientis iudiciale : parere richiesto al giurista dotto da parte di consoli/potestà i quali non erano esperti di diritto, al
fine di ricevere assistenza circa la stesura delle loro sentenze.
Consilium scritto : parere dato dal giurista alle parti anziché al giudice.
2) Con lo sviluppo dell’attività dottrinale/universitaria, i giuristi si diedero alla consulenza privata per poi (con la scoperta della
stampa) arrivare alla stesura-pubblicazione dei propri pareri legali, spesso richiesti da avvocati/magistrati per rendere più agevole
la soluzione da adottare nei casi concreti.
3) Grandi Commentatori quali Ciro da Pistoia/Baldo degli Ubaldi acquisirono una tale forza/autorità da riuscire a sostituirsi al testo
giustinianeo.. A fronte di ciò si ebbe la cd: Communis Opinio : Cioè consuetudine di verificare (su ogni punto di controversia
giuridica) l’esistenza di una concordanza di opinioni delle massime autorità dottrinali considerandole come “verità presunta” (cmq
ignorata a fronte di un chiaro testo di legge “verità effettiva”).
4) Il trionfo della Communnis Opinio (dunque la crisi dei consilia) iniziò a manifestarsi allorquando i giudici si videro costretti
all’uso di norme/regole che in quanto autorevoli potevano essere prese come modello per le loro sentenze (espresso attraverso il
parere del consulente dell’avvocato a sua volta agevolato da numerose/autorevoli opinioni). In tali casi la Communis Opinio divenne la
“Comune Opinione dei pratici” e la sua inosservanza era equiparata teoricamente all’inosservanza delle legge stessa.
*Fra i grandi tribunali ricordiamo la Sacra Rota (organo supremo in materia civile nello Stato pontificio), il Parlamento di Parigi, o
la Rota Fiorentina..
6) La crisi del Diritto Comune.
1) Il diritto comune iniziò ad entrare in crisi con l’affermarsi dello Stato Moderno, sostituendo il concetto di diritto comune a quello
di “legge dello Stato” (produttore/fonte primaria del diritto). Da ciò si fece strada il concetto di Codificazione : L’idea di un codice
costituito da norme prodotte dallo Stato e sistemate in maniera organica e razionale.
2) Ma ciò incontrò non poche resistenze per volontà dei:
- Magistrati (diffidenti nei confronti di qualsiasi tentativo di unificazione giuridica “codificazione”).
- Ceto dei Pratici (avvocati/notai i quali si arricchivano grazie alla complessità del diritto dunque cercarono il più possibile di evitarne una
semplificazione).
- Opinione pubblica (la quale non si espresse mai in forma decisa).
3) Particolarismo Consuetudinario : L’ordinamento compl. si scomponeva in una pluralità di diritti differenti:
- Diritto principesco (inteso come Lex superior e dunque superiore su tutte le altre fonti).
- Diritto particolare-locale (superiore a quello comune secondo il principio che “il diritto particolare prevale su più diritti generali”).
- Diritto comune (diritto feudale e canonico).
*Un esempio di Particolarismo Cons. è rappresentato dallo LEX MERCATORIA : Cioè l’insieme di norme in materia di diritto
commerciale internaz. prodotta dalla prassi commerciale e considerata come normativa autorevole dei rapporti tra privati (In pratica
essa si applica nei contratti tra privati di stati esteri, i quali si pongono in posizione paritaria rinunciando all’applicazione del loro diritto pubblico
interno).
4) Il Particolarismo Cons. avvenne per effetto della:
• Moltiplicazione su base Oggettiva (a livello locale) : Ovvero le fonti di carattere locale (Ius proprium) erano fonte di
integrazione della legislazione statale, laddove quest’ultima fosse incoerente/lacunosa sotto alcuni aspetti.
4
• Moltiplicazione su base Soggettiva (a livello personale) : Cioè il variare del diritto in relazione allo status sociale del soggetto
(dunque per lo stesso reato, norme diverse applicate a soggetti di condizione sociale diversa).
5) Tra i tentativi di riorganizzare/semplificare il diritto comune troviamo le cd: Leggi delle Citazioni : Provvedimenti che i sovrani di
diversi paesi d’Europa emanarono limitando la facoltà di avvocati/magistrati di avvalersi in giudizio e nelle sentenze delle
opiniones dei dottori del diritto comune (salvo i grandi giuristi come Papiniano, Paolo, Gaio..).
7) L’Antitribonianus.
1) Volumetto scritto/pubblicato a Parigi nel 1603 dall’esponente della scuola culta François Hotman. In esso è contenuta una serie di
accuse demolitrici sia al Corpus iuris civilis (voluto da Giustiniano e realizzato da Triboniano) sia ai metodi interpretativi del
diritto romano adoperati dalla giurisprudenza medievale (soprattutto dai bartolisti).
2) In esso il diritto giustinianeo viene giudicato come un fenomeno meramente storico, inapplicabile alle strutture politiche ed alle
esigenze ormai diverse della presente società francese. Giustiniano e Triboniano vengono accusati di avere arbitrariamente
alterato e confuso l’enorme patrimonio giuridico dell’antica Roma, dando vita (attraverso il Corpus iuris) ad un ammasso di
errori e contraddizioni normative, su cui i giuristi medievali (nella loro stoltezza e barbarie) si sarebbero gettati, considerando le
leggi giustinianee non come scritte da un uomo, bensì cadute dal cielo perseverando così nell’errore.
3) Nell’Antitribonianus, Hotman propone di affidare ad una commissione di giuristi/funzionari statali, il compito di estrapolare dal
diritto romano i principi ancora vivi e validi e sulla base di questi (e delle consuetudini del regno di Francia) dare vita ad un codice
che semplificasse tutto il diritto francese, ponendo fine al caos giurisprudenziale creato nei secoli dagli interpreti del diritto
giustinianeo.
Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.
8) Le Compilazioni (Consolidazioni).
1) Prima ancora delle Codificazioni, in Europa ci furono le Compilazioni : Ovvero grosse compilazioni giuridiche realizzate da
giuristi su delega del sovrano (diverse dalle Codificazioni in quanto le Compilazioni erano incomplete e dunque necessitavano
dell’esistenza del diritto comune/particolare come fonte di integrazione qualora ci fossero delle lacune).
*Codice infatti designa che l’ordinamento normativo da esso realizzato è privo di lacune, dunque fonte di soluzione per ogni caso.
*Le Compilazioni incisero solo parzialmente sul diritto comune, non facendo altro che confermare (cd: Consolidazioni) lo stato
preesistente delle altre fonti.
2) Le Consolidazioni si distinguono:
• Quelle realizzate su iniziativa privata (Consolidazioni-raccolta) : Collezioni di materiale legisl/giurisp realizzate allo scopo di
riordinare/semplificare la pratica di consultazione delle leggi/sentenze.
Italia:
- La raccolta delle sentenze delle corti napoletane.
- Le consolidazioni legislative del Regno di Napoli.
Francia:
- Codice di Enrico III/IV.
- Codice di Marillac.
Germania:
- Codex Augusteus/Austriacus
• Le grandi ordinanze emanate dal re di Francia Luigi 14° : Intento a realizzare l’unificazione del diritto francese con l’aiuto di
Colbert che organizzò i lavori di preparazione/redazione delle ordinanze.
- Ordinanza civile per la riforma della giustizia.
- Ordinanza criminale/commercio/marina.
3) PIEMONTE : Le Costituzioni Piemontesi : Raccolta di leggi organizzata dal re di Sardegna Vittorio Amedeo II, raccolte in 6 libri
(divisi in titoli/paragrafi.. culto cattolico/apparato giudiziario/procedura civile/criminale) in cui si vietava ai giudici/avvocati di ricorrere
alle opinioni dei giuristi del diritto comune.
4) REGNO DI NAPOLI : sotto la guida del re Carlo di Borbone (volto a riorganizzare i tribunali) si assiste ad un totale fallimento del
Codex Legum Napolitanarum : Semplice sintesi del vasto complesso di norme amm/civili/penali/processuali affidato al giurista
Pasquale Cirillo con l’aggiunta di revisori.
5) BAVIERA : Abbiamo i Codex Iuris Bavarici Criminalis/Iudicialis/Civilis seguito poi da un commentario in 5 vol.
5
9) ASSOLUTISMO : Ludovico Antonio Muratori.
1) Intorno al 18° secolo la figura del giurista (giudici/avvocati) fu vista come il principale responsabile del disordine del diritto, da
essi usati come strumento di potere e oppressione.
2) Tale atteggiamento antigiurisprudenziale venne accuratamente interpretato da Ludovico Antonio Muratori nel suo Trattato dei
difetti della Giurisprudenza : In cui descrive la situazione giuridica dei suoi tempi prossima alla paralisi dovuta a difetti di tipo:
• Intrinseco (ineliminabili) : consistevano nella poca chiarezza/incompletezza delle norme ad opera di giuristi/magistrati che nel
dare una loro opinione spesso venivano condizionati dalle debolezze dell’animo umano.
• Estrinseco (eliminabili) : in quanto dipendenti dal comportamento dei giuristi, dovuto alla confusa interpretazione dei testi
giustinianei e nell’arbitraria applicazione giudiziale del diritto.
3) Secondo Muratori il compito del Sovrano era quello di nominare una commissione di esperti con il compito di stillare una raccolta
di soluzioni dei casi pratici più complessi raccolti in un Piccolo Codice (ufficiale/obbligatorio). Comunque al trattato di Muratori
rispose Francesco Rampolla con il suo Difesa della Giurisprudenza.
10) Diritto Naturale e Diritto Positivo.
1) Diritto Naturale : Postulava l’esistenza di “regole di giustizia e valori etico-sociali” che avevano il loro fondamento nella natura
dell’uomo. Tali regole in quanto naturali erano razionali/universali contrapposte alla giustizia scritta. Elementi chiave erano:
- Esistenza di diritti sogg innati nell’uomo.
- Esistenza di uno stato di natura, anteriore alla società politica-civile.
Diritto Positivo : Considerava diritto solo quel complesso di norme contenute nella legge ufficialmente emanata dall’autorità, ogni
regola ad essa esterna era considerata priva di ogni valore giuridico. Elementi chiave erano:
- Assoluto primato delle legge su ogni altra fonte normativa.
- Fiducia nella legge, considerata priva di lacune.
2) GIUSNATURALISMO : Cioè quelle dottrine filosofico/giuridiche che affermano l'esistenza di un diritto naturale (cioè di
un insieme di norme di comportamento dedotte dalla "natura" e conoscibili dall'uomo).
UGO GROZIO padre della scuola del diritto naturale, accenna (nel suo De Iure Belli Ac Pacis) al Presupposto Contrattualistico
“Al sorgere di istinti egoistici in vista di un bene in comune, i soggetti passano dallo stato di natura a quello civile affidando ad un
sovrano (mediante patto) il compito di fare rispettare coattivamente la sfera degli interessi di ciascuno di essi”
HOBBES “Il contratto sociale era caratterizzato dal fatto che era stipulato tra i sudditi (e non con il sovrano) i quali gli
trasferivano tutti i loro diritti naturali in cambio dell’assoluta obbedienza/sottomissione per la pace, potendosi ribellare qualora
ciò non avvenisse”. Quindi “un’azione non è criminosa perché malvagia, ma in quanto esiste una norma dello Stato che la vieta e
la punisce”.
LOCKE si contrappone ad Hobbes (il giusnaturalismo assolve una funzione potenziatrice dello stato, cioè nelle mani di un solo
potere), mentre per lui il giusnaturalismo assolve una funzione potenziatrice dell’individuo nei confronti dello Stato.. Cioè :
“i soggetti devono osservare i precetti giuridici solo se provengono da uno Stato che abbia la configurazione istituzionale da essi
voluta; quindi nessun potere è legittimo se non è consentito”.
3) RAZIONALISMO :
PUFENDORF “La legge (naturale/civile) è un comando impartito da un superiore che impone una serie di doveri in modo
imperativo, in quanto accompagnata da una sanzione”.
Asserzione : Ovvero ragione di dimostrare la validità delle leggi naturali come espressione della volontà divina, e di una possibile
corrispondenza tra le norme positive alla razionalità di quelle naturali.
DOMAT nella sua opera Le leggi civili nel ordine naturale distingue:
• Leggi immutabili : le più importanti derivano dal diritto romano, e il legislatore non può intervenire.
• Leggi arbitrarie : nascono dal capriccio del sovrano (stabilisce/abolisce secondo bisogno.. diritto penale/amm).
THOMASIUS allo scopo di separare il diritto dalle altre sfere dell’azione sociale, individua tre categorie:
• Honestum : comprende la sfera morale dell’uomo.
• Decorum : tutti quegli atteggiamenti capaci di assicurare pace fra gli uomini (carità, generosità).
• Iustum : complesso di azioni per assicurare la pace (nessuno deve fare agli altri ciò che non vuole essere fatto a se).
Robert POTHIER (padre del codice civile Napoleonico) dal 1761 pubblica una lunga serie di trattati in materia di diritto privato
(successioni, obbligazioni) riassumendo in sintesi la doppia esperienza di magistrato e di professore, elaborando/sistemando in
modo unitario materiali del diritto consuetudinario francese.
Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.
6
L’illuminismo Giuridico.
1) Il Tribunale della ragione.
1) Secondo le parole di Filangieri “La legislazione oggi è oggetto comune di coloro che pensano” intendendo le classi colte
(philosophes) che collocano il diritto fra i temi primari della loro speculazione, e poiché questa cultura si presenta al suo livello più
elevato viene definita Illuminismo Giuridico. Invece secondo Kant “è il sapere aude.. ovvero l’uscita dell’uomo da una minorità”.
Ma in realtà “L’illuminismo (lumières) non si identifica in una corrente dottrinale, ma in un modo di ragionare diverso
dall’ordinario”.
La forza di tutto è l’idea di PROGRESSO, cioè la convinzione che l’umanità possa progredire verso forme sempre più elevate di
civiltà/felicità ma per fare ciò occorre riformare l’intero ordinamento in cui si vive. (Esempio è il cambiamento di concezione che il
potere del sovrano non è più fondato sulla volontà divina ma su delega di un contratto sociale del sovrano ai sudditi per assicurare il bene di
questi).
2) Secondo Cattaneo invece l’illuminismo giuridico (influenzato dal giusnaturalismo) è fondato su 2 dottrine:
• Razionalistico (diritto naturale) : costituito da un complesso di principi universali di giustizia.
• Volontaristico (diritto positivo) : costituito dalla manifestazione di volontà del legislatore statale.
3) Secondo Giovanni Tarello occorre distinguere 2 ambienti giuridici illuministi:
• Area germanica : in cui le teorie di un programma illuminato divengono operative attraverso funzionari di corte che ne hanno la
responsabilità/esperienza amministrativa.
• Illuminismo francese :
4) Intanto a Milano un gruppo di intellettuali (seguaci delle idee dei philosopes francesi) fondano in Via Montenapoleone un salotto di
conversazione (Accademia dei pugni di Pietro/Alessandro Verri). Tra questi troviamo Cesare Beccaria il quale con la sua opera “Dei
delitti e delle pene” attira l’attenzione dei sovrani austriaci che (d’accordo sull’idea di “sottomettere ad un'unica legge l’intero
corpo sociale”) consegnano a Beccaria su richiesta, il severo codice penale la Giuseppina in lingua italiana allo scopo di
correggerlo, cd: ASSOLUTISMO ILLUMINATO.
2) Illuminismo giuridico Francese.
I pilastri dell’Illuminismo francese sono 4 : Montesqieu-Voltaire-Rousseau-Beccaria.
MONTESQUIEU :
1) Autore dell’Esprit de Lois (libro giuridico più letto tra il 700/800) afferma che “Le leggi sono regole che determinano i rapporti fra
tutti gli esseri umani secondo una necessità naturale (istinto di pace) ma, una volta formatasi la società civile/politica, le leggi
naturali vengono poi sostituite da quelle positive” e ancora “Le leggi mutano da popolo in popolo in funzione di fattori ambientali
esterni”.
2) Egli distingue diversi tipi di governo: Repubblicano (in cui il potere appartiene al popolo), Monarchico (deriva dal monarca che governa
secondo leggi fisse limitandone l’azione) e Dispotico (ove il potere è esercitato da una sola persona secondo la sua volontà senza leggi fisse: lui è
tutto, gli altri nulla).
3) Libertà Politica (proprio degli stati moderati (Inghilterra) ove il fine è la libertà integrale del cittadino): è il diritto di compiere qualunque
azione non vietata dalla legge in piena tranquillità sulla base del principio della “Separazione dei Poteri” (legislativo, esecutivo, giudiziario
da parte di organi diversi/competenti esclusivamente nel loro ambito, altrimenti si avrebbe tirrannia).
Secondo Montesquieu :
• L’esecutivo deve essere nelle mani di un monarca in quanto è meglio amministrato da uno che da tanti.
• Il potere giudiziario non deve essere esercitato da magistrati professionisti, ma da persone tratte dal popolo.
• Lo stile delle leggi deve essere conciso/semplice..in quanto le leggi sono fatte per essere comprese anche da gente mediocre.
ROSSEAU :
1) Autore del Contratto Sociale “L’uomo è nato libero, ma in qualsiasi luogo esso si trovi è in catene, cioè infelice vittima della
disuguaglianza in cui il più debole è oppresso dal più forte”, egli cerca di dimostrare quale soluzione contrattuale si sarebbe
dovuta adottare per meglio liberare/eguagliare gli uomini tra loro (cioè una forma di associazione che protegga con la forza comune la
persona/beni di ogni associato).
2) Libertà civile : è lo scopo del contratto di dar vita ad un unico corpo politico in cui non esistono più disuguaglianze tra sudditi e
governanti, in quanto tutti unendosi sono il sovrano espresso attraverso la legge (la quale proviene da tutti ed è diretta a tutti). Dunque
libertà significa obbedire alla legge e se qualcuno non voglia, allora.. sarà costretto da tutto il corpo politico ad essere libero.
• Democrazia Referendaria : una volta che il legislatore ha fatto la legge, essa deve essere sottoposta ai liberi voti del popolo.
• Bisogna fare 3 codici (politico-civile-criminale) chiari/brevi/precisi da essere insegnati in tutte le università/collegi.
CESARE BECCARIA :
1) Nato a Milano nel 1738 da famiglia nobile, a 20 anni si laurea in Giurisprudenza all’università di Pavia ove ne esce con un totale
disgusto per l’attività forense. Sposata Teresa Blasco, nonostante l’opposizione del padre, Beccaria (cacciato di casa e al verde)
inizia a frequentare i salotti dell’Accademia dei Pugni dei fratelli Verri ove, spronato, pubblica un libretto sulla giustizia penale in
Lombardia, cd: Dei delitti e delle pene. Tornato a Milano, dopo aver ricevuto gli elogi dei pontefici parigini, rompe i rapporti con
Pietro Verri il quale sente di essere stato abbandonato da un amico.
7
2) La sua vita non è segnata da grandi eventi: divenuto professore di scienza delle finanze e poi funzionario del Supremo Consiglio
d’Europa della Lombardia, morirà tempo dopo a causa di un ictus, una morte senza clamori.
3) “Le leggi sno le condizioni con le quali gli uomini indip/isolati si uniscono in società stanchi di vivere in continuo stato di guerra”.
Ne sono i corollari:
• La somma di tutte le singole porzioni di libertà sacrificate ha dato origine al “deposito della salute pubblica” retto da un
sovrano.
• La sicurezza pubblica deve essere difesa dal sovrano, dal pericolo di aggressione di individui privati.
• I delitti commessi sono punibili con le pene (cd: motivi sensibili, cioè il male di cui l’uomo ha timore) solo però se atti nocivi e
strettamente necessario per la difesa sociale.
4) Il fine della pena è “impedire al reo di far nuovi danni ai suoi cittadini e rimuovere l’idea degli altri dal farne uguali”, quindi il reo
deve essere punito non per ciò che ha commesso (passato) ma perché non ricada nel crimine (futuro).
5) La codificazione è indispensabile per la certezza del diritto (fondamentale per la libertà). Dunque la pena è giusta/utile in quanto i
cittadini possono calcolare esattamente (in anticipo) gli svantaggi che derivano dal delitto.
6) Teoria della prevenzione indiretta : E’ meglio prevenire i delitti che punirli, cn leggi chiare/semplici tale che gli uomini le temano.
*Un altro mezzo è quello di ricompensare la virtù con un diritto premiale/perfezionando l’educazione.
Teoria della giurisprudenza meccanica : Separazione del potere legislativo da quello giudiziario, cioè: la Lex fissa le leggi, e i
giudici hanno compito di esaminare se l’uomo le ha violate o meno.
7) La Pena di Morte:
• Argomento Contrattualistico : La pena di morte è illegittima perché non ha fondamento nel contratto sociale. (“Come mai nel
minimo sacrificio della libertà di ciascuno vi può essere quello del massimo di tutti beni della vita?”).
• Argomento Utilitaristico : La pena di morte non né utile né necessaria. (poiché non è l’intensità della pena che ha effetto, ma
l’estensione di essa (dunque il carcere a vita).
• Argomento Morale : La pena di morte viola la sacralità della vita umana. (è assurdo che “le leggi che puniscano l’omicidio ne
commettono uno loro + per allontanare i cittadini dall’assassinio, loro stessi ordinano un pubblico assassinio”).
8) Il Processo Penale:
• “Un uomo si può definire innocente solo dopo essere stato chiamato reo + non può chiamarsi reo prima della sentenza del
giudice”.
• Nel rito processuale (inquisitorio,scritto,segreto):
- non vi era alcuna comunicazione dei capi d’accusa all’imputato.
- non vi era nessun contraddittorio in fase istruttoria.
- la presunzione di base è che questi era colpevole.
- si ammette l’intervento del difensore solo in tempi strettissimi.
• In mancanza di prove piene per la condanna, l’inquirente cercava di acquisire le “semiprove” (indizi/presunzioni/) che se
incastrate le une con le altre fornivano una prova piena per la pena, in quanto: “ciò che importa è punire, e salvare l’immagine
della Giustizia”.
Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.
8
Paesi di Diritto scritto-consuetudinario e la Redazione delle Consuetudini.
1) Nel V secolo d.C. la Gallia fu considerata la più romana delle province, in qnto i Visigoti si insediarono nella parte sudoccidentale della Francia (dando vita alla Lex romana Wisigothorum), mentre la parte sud-orientale fu occupata dai Burgundi (Lex
romana Burgundionum), poi con l’invasione dei Franchi che cacciarono entrambi i popoli, si formò un unico regno germanico in cui
il diritto romano rimase in vigore come Legge personale delle popolazioni occupate secondo il principio della “personalità del
diritto”.
2) A seguito di ciò si gettarono le basi del cd: Particolarismo Consuetudinario : In mancanza di un diritto comune, si svilupparono
varie consuetudini locali osservate da tutta la popolazione a seconda della influenza subita dal diritto romano o germanico. Da ciò si
distinsero :
• Paesi di diritto scritto : (meridionale) dovuto al diritto romano.
• Paesi di diritto consuetudinario : (settentrionale) diritto germanico.
3) Il processo di evoluzione più importante per la formazione di un Diritto Comune Consuetudinario (diritto francese) è costituito
dalla Redazione delle Consuetudini : Il re Carlo VII emanò un ordinanza con cui dispose che ogni territorio procedesse alla
trasposizione in forma scritta delle consuetudini locali (furono costituite 60 consuetudini generali e 300 particolari) che rimasero in
vigore fino alla promulgazione del codice napoleonico.
*Il promotore fu Charles Dumoulin con il suo Coutume di Parigi (Consuetudine di Parigi) vero punto di riferimento per i giuristi
francesi.
Il Diritto comune in.. Spagna!
1) Il diritto comune (giustinianeo+canonico) iniziò a diffondersi nella penisola Iberica ad opera degli ex-studenti delle Università
italiane e francesi che assunsero posti chiave nell’amministrazione pubblica e apparato giudiziario.
2) Nella Castiglia si ebbe ad opera di Alfonso X la Legge delle 7 parti : Redazione in lingua castigliana di un complesso corpo di
norme (giustiziane+canoniche+opinioni dottriniane). Mentre il suo successore promulgò l’Ordinamento di Alcola : in cui fu fissato
l’ordine gerarchico delle fonti normative vigenti nel regno, cioè:
1° Diritto regio.
2° Diritto dei fueros (raccolte scritte delle consuetudini di ogni singola regione).
3° Legge delle 7 parti.
Il Diritto comune in.. Olanda e Belgio!
1) Nei PAESI BASSI la dominazione romana fu quasi inesistente. Qui la giustizia veniva amministrata da antichi tribunali
(scabinali) composti da 12 membri (scabini) che assistevano il signore feudale nel processo, formulando la sentenza sulla base di
principi di equità.
Poi si ebbero dei mutamenti:
• In molte città furono costituiti tribunali vescovili che introdussero principi del diritto romano.
• Molti laureati fecero ritorno in patria divenendo dei professionisti del diritto, sostituendo i vecchi scabini.
2) In BELGIO si procedette alla raccolta scritta delle consuetudini locali che nella forma/terminologia richiamavano al diritto
comune (quale suppletivo in caso di lacuna del testo consuetudinario).
3) In OLANDA l’ordine di procedere alla raccolta scritta fallì miseramente a seguito della proclamazione dell’Unione di Utrecht che
portò alla dispersione delle consuetudini locali, e il fiorire dello Ius Comune come unico diritto universale necessario alle esigenze di
una nazione che traeva le sue ricchezze dal commercio marittimo internazionale!
Il Diritto Comune in.. Germania!
1) Pur essendo la culla del Sacro Romano Impero, la Germania vide persa ogni possibilità di sviluppo di un diritto tedesco unitario a
seguito dello sgretolamento del territorio in più di 300 ordinamenti territoriali ognuno retto da proprie consuetudini locali. Poi si
assistette alla cd: Prerecezione del Diritto Comune : Cioè il clero portò la tradizione del Corpus Iuris attraverso 2 vie principali:
• Processo Canonico : fondato sul sistema probatorio (onere della prova) e regolato solo da atti scritti.
• Prassi Notarile : erano le curie ecclesiastiche a redigere i documenti secondo formule/schemi romanistici.
2) Un importante contributo lo diedero anche gli studenti delle Università italiane (doctores) che tornati in patria tedesca occuparono
posti di prestigio nella pubblica amministrazione, spesso richiesti anche da vari principi tedeschi per organizzare i propri Stati (cd:
Recezione Pratica).
*Tale recezione culminò con la costituzione del Supremo Tribunale Camerale che doveva giudicare secondo il diritto comune
Imperiale (o secondo i diritti locali tedeschi se essi erano invocati dalle parti).
*L’instaurarsi dello Ius Comune fu osteggiato (non dalla gran parte della società tedesca come creduto) dai contadini, i quali persero
gran parte dei loro privilegi che le antiche consuetudini garantivano loro.
9
3) Recezione Teorica : L’insieme delle dottrine che individuarono nel diritto romano la sola fonte della volontà dell’imperatore
germanico.
Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.
Origini e svolgimento della Common Law.
1) Il diritto inglese (come il diritto comune) si è diffuso in una vastissima area della terra (i paesi del Common law) ed
entrambi si ricollegano al diritto romano (Civil Law = diritto scritto).
2) DIFFERENZE:
• Lo Ius Comune si sviluppò con l’accoglimento del codice giustinianeo come diritto vigente (la Common Law si
sviluppò in opposizione ad esso).
• Lo Ius Comune si sviluppò con l’attività di giuristi preparati con il compito di agevolare i magistrati (la Common
Law si sviluppò come diritto dei giudici delle Corti londinesi).
• Il Diritto comune entrò in crisi di certezza/credibilità, conclusasi nella codificazione (la Common Law rimase
estranea alla codificazione).
3) Common Law : Sistema giuridico Anglo-Americano proprio dell’Inghilterra e di tutti quei paesi del mondo ove essa
lo ha diffuso.
Civil Law : Insieme degli ordinamenti giuridici nel mondo che rinvengono il loro fondamento nella tradizione del
diritto romano e legge scritta.
Equity : Diritto applicato dalla Corte di Cancelleria con rimedi process meno rigorosi di qlli della Common Law.
4) Le 3 Corti londinesi attraverso il quale si sviluppò la Common Law furono :
• Corte delle Udienze comuni : riguardante le controversie comuni tra i privati.
• Bancum Regis : competente per le cause più importanti (civili e penali).
• Curia Regis : il tribunale più prestigioso, con compiti politici/direzione dello Stato/attività giudiziarie.
5) Conflitto tra Common Law ed Equity.
Corte di Cancelleria : Maggior ufficio della Corte inglese! si sostituì alla Curia Regis decidendo direttamente delle
questioni dei sudditi attraverso il Cancelliere (primo funzionario del regno) che agiva/decideva in nome del re.
• Il Cancelliere era un religioso e dnq confessore del re.
• Il Cancelliere ed i componenti del suo tribunale erano ecclesiastici, la procedura seguita dalla Cancelleria
(inquisitoria/scritta/segreta) si basava sul diritto canonico.. mentre il processo del Common Law (orale/pubblico) si
svolgeva dinnanzi ad una giuria!
• Tale fu la potenza del tribunale di Cancelleria, che si creò un conflitto con le tre Corti di Common Law le quali
chiedevano che si ponesse fine alle interferenze della Cancelleria nella loro giurisdizione.
6) Le prime conoscenze del diritto romano furono introdotte in Inghilterra dai Normanni.
• Nel 1139 giunse sull’isola Vacario (noto glossatore civilista) che fondò ad Oxford un centro di studi del diritto
romano/canonico + pubblicò un compendio del Codice/Digesto “Liber Pauperum”.
• Tale fu il successo della sua opera/scuola che il re Stefano I fece chiudere la scuola romanistica e a tale docente fu
proibito di insegnare.
7) In Inghilterra lo Ius Comune non penetrò efficacemente in quanto l’opera di costituzione dell’apparato giudiziario
(che portò alla nascita del Common Law) iniziò giusto qualche decennio prima.
10
La Codificazione del Diritto Penale.
1) La Constitutio Criminalis Theresiana (1771).
1) Nel 1771 la grande sovrana Maria Teresa seppellisce il progetto di codice civile per promulgare una ricompilazione del diritto
penale/processuale penale sotto la guida del giurista Holger (cd: La Constitutio Criminalis Theresiana).
2) Essa si divide in 2 parti: Processuale (del procedimento criminale) e Sostanziale (dei delitti criminali).
Autentica macchina di morte, la Theresiana distingue le pene capitali “benigne” (decapitazione/forca) da quelle “severe”
(rogo/squartamento) mentre invece il criminale meno pericoloso può cavarsela con (troncamento di un membro/frustate/carcere/lavori
forzati/marchio a fuoco).. Il tutto arricchito da un catalogo illustrato delle varie torture!
3) Tale fu la durezza del Codice che il beccarino Sonnenfels pubblicò uno scritto “Sull’abolizione della tortura” che riscosse
l’approvazione di Maria Teresa (che diminuì drasticamente la pena di morte) e del suo futuro imperatore Giuseppe II.
2) La Giuseppina (Giuseppe II 1787).
1) Successore di Maria Teresa, Giuseppe II apportò numerevoli riforme legislative alla codificazione penale (divenuto poi famoso sotto
il nome di Giuseppina) e definito poi dal Tarello “Il primo codice penale veramente moderno”.
2) Esso si basava sui criteri di Tassatività/Tipicità/Determinatezza (legalità/completezza) :
• Nullum Crimen, nulla Poena Sine lege : ovvero è reato solo quel fatto previsto espressamente dalla legge.
• Unicità del soggetto Reo : le pene vengono applicate a tutti i soggetti, indistintamente dal loro ceto sociale.
• Principio della Colpevolezza : il crimine non può essere punito se non è commesso con Dolo (omiss/commiss), quindi si
escludono i reati colposi se non come contravvenzioni (sono cause di esclusione dell’imputabilità: errore/forza magg).
3) Addio Arbitrium Iudicis, ora il giudice deve attenersi a quanto disposto dalla legge, potendo mitigare la pena sulla base di 3 livelli.
• Prigionia/ Prigionia con lavoro pubblico (Temporanea/Lunga/Lunghissima).
• Prigionia con catene (solo Lunghissima ).
4) Essa si suddivide in :
a) Parte Generale : introduzione di 2 capitoli di contenuto generale/definitorio dei delitti-pene.
b) Parte Speciale :
• Dei delitti/pene Criminali : secondo la “natura Ontologica” sono quelle che violano l’immutabile diritto naturale (cioè atti che
ledono dolosamente la persona del sovrano/la sicurezza int-est dello Stato/la vita/la proprietà..).
• Dei delitti/pene Politiche (contravvenzioni) : Offese alla buon costume/trasgressioni d’ordine pubblico/pubblica sicurezza..
5) Se da un lato esso abolisce la pena di morte, dall’altro introduce sanzioni molto più lunghe e sofferenti (perseguire un defunto con
cartelli appesi infamandone il nome, incatenazione fino a 100 anni ove il reo è castigato ogni giorno con bastonate e portare attorno al torace un
cerchio di ferro da renderne penosa la respirazione, e se a questo venga aggiunto il lavoro forzato esso consisterà nel traino controcorrente delle
imbarcazioni sul Danubio).
3) La Leopoldina (119 articoli, Pietro Leopoldo 1786 ).
1) A Vienna la sovrana Maria Teresa allevò un altro cavallo di razza: Pietro Leopoldo. Tornato in Italia (Toscana) e divenuto
Granduca a soli 18 anni, egli intende seguire le orme degli “altri di Vienna” riformando totalmente il codice penale/processuale
penale toscano con la formula “Tutto per il popolo, nulla con il popolo”.
Aiutato da Cercignani/Tosi/Caciotti/Giusti (assieme a dossier sul tasso di criminalità + mezzi di repressione in uso) nel 1786 Leopoldo
riforma la legislazione criminale toscana (la Leopoldina).
2) Esso è estremamente semplice/breve (119 articoli) divisi in 2 codici (fase del processo – applicazione della pena) in cui le norme non sono
lineari e schematizzate bensì lunghe/filosofiche/descrittive.
3) A differenza del precedente codice, qui il giudice esercita un esteso potere arbitrario nell’irrogare le pene (“..rimesso in gran parte
all’arbitrio del giudice”) purché ne spieghi le ragioni motivate. In più giudice potrà ricorrere al vecchia legislazione penale toscana in
caso di lacune del nuovo diritto.
4) Il PROCESSO.
• Esso ha carattere inquisitorio/scritto/segreto per poi dopo, comunicare tutti gli atti istruttori all’imputato il quale avrà diritto di
essere assistito da un avvocato.
• Al contumace condannato, vi è la possibilità della riapertura del processo.
• Viene abolita l’imposizione del giuramento/tortura da parte del giudice (in assenza di prove) al fine di ottenere la confessione.
5) LE PENE.
• Viene abolita la pena di morte (sost con la perenne pena ai lavori pubblici).
• Abolizione delle pene mutilanti (sost con pene pecuniarie/frusta pubblica/esilio).
11
6) I REATI.
• La rivoluzione è avvenuta con l’abolizione del delitto di lesa maestà, ora punito come delitto ordinario nella rispettiva classe.
• Così come i delitti contro la religione (assimilabili a delitti di lesa maestà) sono puniti con lavori pubblici a tempo/vita.
Il Codice Napoleonico.
(3 libri, 2281 articoli, 21 marzo 1804)
1) Nell’Agosto del 1800 Napoleone Bonaparte incarica una commissione di 4 persone: Meleville-Bigot-Portalis (commissario al
consiglio delle Prede) -Tronchet (presidente dell’Ordine degli avvocati di Parigi) di redigere il Codice Civile.
Ultimato un anno dopo, solo il 21 marzo 1804 il Codice Civile (Cod.Napoleonico) entra in vigore!
2) Il suo processo di formazione prevedeva:
• Discussione del testo presso il Consiglio di Stato (sotto al direzione dei consoli).
• Passaggio al Tribunato (composto da 100 membri che si limitano a discuterlo/esprimere un parere).
• Infine il Corpo Legislativo (300 membri che lo approvano/respingono).
*A partire dal seguente Codice, il diritto romano-ordinanze-statuti-regolamenti cessano di avere eff nelle materie che cost oggetto di questo codice.
3) Il Discorso preliminare di Portalis al Code Civil.
a) Giurista francese, è stato uno dei protagonisti della redazione della grande codificazione voluta da Napoleone. Egli cerca di
ricucire le ferite provocate dalla Rivoluzione tentando di conciliare il vecchio/nuovo ordinamento, affermando che: “Napoleone
ha portato la pace così come il codice garantirà la pace/benessere della Francia”.
b) Se prima in assoluto rifiutava la codificazione “è assurdo superare i legislatori/filosofi della Grecia del passato”, ora invece
dice Si al codice ma a condizione di non censurare il diritto romano. Il codice civile si può realizzare solo se esso venga
concepito come uno “strumento aperto dotato di organi respiratori” (diritto naturale/consuetudine) a cui si ricorre solo in caso di
lacune (inevitabili) in quanto “Le leggi rimangono statiche, mentre gli uomini non si fermano mai”.
c) Secondo lui il legislatore è grande in quanto “Non deve perdere di vista le leggi che sono fatte per gli uomini (non gli uomini per le
leggi) e che devono essere adattate al carattere/abitudini del popolo per le quali sono fatte”.
4) Si divide in 3 libri:
• PRIMO LIBRO : MATRIMONIO-Adozione-Tutela (es: i figli naturali “batards” non sono eredi + non hanno diritti rispetto a
quelli legittimi.. il divorzio può essere chiesto solo tra i 2-20 anni di matrimonio e deve essere manifestato 4 volte durante
l’anno + si possono risposare solo dopo 3 anni.. La moglie è proprietà/sottomessa al marito il quale amministra tutti i beni, può
invocare l’adulterio della moglie mentre costei solo se il marito porta la concubina in casa).
• SECONDO LIBRO : PROPRIETA’(544)-Usufrutto-Uso-Abitazione-Servitù (es: il privato può godere/disporre dei suoi beni
nella maniera più assoluta, purché non ne faccia un uso proibito dalle leggi/regolamenti (tranne che nell’espropriazione per pubblica
utilità) la proprietà è l’elemento cost dell’essere umano in quanto è l’anima universale di tutta la legislazione, essa non si ritrova
nel diritto naturale, ma nasce dal lavoro dell’individuo in seno alla società civile organizzata, che è concepita dalla legge).
• TERZO LIBRO : CONTRATTO(1134)-Successioni-Donazioni-Testamento-Obbligazioni (es: con il contratto le parti sono
obbligate per legge ad esso/tutti i suoi effetti - è la loro volontà, non la forza della legge che dà forza vincolante al contratto).
Principio del consenso traslativo : la proprietà può essere trasferita per effetto del solo consenso delle parti legittimamente manifestato.
Translatio Dominii : cioè il contratto è suff a trasferire la proprietà, dunque la vendita è perfetta anche se la cosa non sia stata ancora
consegnata/prezzo non ancora pagato.
Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.
12
Code Criminel.
(4 libri, 5 disp preliminari 484 articoli, 1 gennaio 1811)
1) Corre l’anno 1810 (a seguito dei crimini/briganti/vetture assaltate ogni giorno) il Governo incarica una commissione di giuristi (tra cui
Target) con il compito di redigere un codice criminale tanto severo da intimorire la criminalità (es: introduzione della legge del
taglione, marchio a fuoco, il boia, ergastolo.. il tutto assistito dal popolo e i cadaveri venivano sepolti nel luogo più vicino a quello
dove si era consumato il reato con tanto di cartello scritto).
2) Esso si compone di 4 libri (preceduto da 5 disp preliminari di 484 articoli) ed il 1 gennaio 1811 entra in vigore.
3) Le sanzioni vengono distinte a seconda che il reato commesso sia:
Crimine (morte, deportazione,lavori forzati a vita+marchio/confisca dei beni).
Delitti (prigione 6gg-5 anni, ammenda, sorveglianza della polizia).
Contravvenzioni (prigione 1gg-5gg, ammenda , confisca).
*Al colpevole verrà tagliata la mano destra prima di essere decapitato, verrà condotto nel luogo dell’esecuzione in camicia, piedi nudi e col capo
coperto da un velo nero.
4) Successivamente fu presentato il Codice di Procedura Penale (16 dicembre 1808) che, giunto al Consiglio di Stato, prevedeva
l’introduzione della giuria (più volte osteggiato da Napoleone, e i cui componenti saranno estratti a sorte da una lista di cittadini compilata dal
prefetto, mentre le funzioni svolte prima dal jury d’accusa vengono sostituite da una Chambre de Conseil istituita presso ciascuna corte d’appello e
composta da 3 magistrati togati).
5) Fase istruttoria:
• E’condotta dal giudice istruttore che può interrogare l’imputato/testimoni, mantenendo segreto i fatti di cui è accusato.
• Successivamente si passa alla verbalizzazione delle interrogazioni (principio della scrittura).
• Vi è l’assenza del difensore, il quale è previsto solo nella fase successiva.
Fase Dibattimento:
• L’udienza è orale/pubblica e condotta dal presidente della corte.
• In questa fase l’imputato può beneficiare di un suo difensore.
• Infine i 12 giurati decidono a maggioranza sulla sentenza (principio del libero convincimento).
13
Codice di Procedura Civile.
(1042 articoli, 1 gennaio 1807)
1) Fra tutti i codici di Napoleone, quello di procedura civile è il testo più scarno/ridotto.
2) Se PRIMA il sistema del processo era molto ridotto (solo 2 gradi di giudizio, creazioni di giudici di pace, ci fu l’arbitrato come
mezzo ragionevole per porre fine alle liti, obbligo pubblicità/motivazione della sentenza, istituzione del tribunale di Cassazione)…
ADESSO i costituenti decisero di semplificare/velocizzare il processo ulteriormente (le parti si difendevano da sole + obbligo del
giudice di deliberare/opinare ad alta voce sulla base di un semplice atto contenente una breve indicazione dell’oggetto/motivi della
domanda/giorno/ora del processo, il tutto della durata 1 mese)..fu un totale fallimento.
3) Success il docente/avvocato Pigeau (+ altri 3 magistrati) provvede all’edificazione del codice processuale. Discusso in Consiglio di
Stato viene poi diviso in 6 leggi e in 2 parti : disciplina la procedura innanzi ai tribunali(5libri) + procedimenti speciali(3libri).
4) Esso prevede 3 tipi di procedimento:
1) Proc innanzi ai Giudici di pace: Per le materie che non sono di loro competenza, i giudici hanno l’obbligo di conciliare le
parti/farli giudicare da arbitri/o rimetterli al tribunale civile.
2) Proc innanzi ai Giudici di 1°grado : Improntato sul principio della scrittura o (in assenza di prove) del dibattimento orale. Le
parti possono munirsi di un avvocato o di difendersi da soli (a discrezione del giudice). Le udienze sono pubbliche.
3) Procedimenti speciali : Si accenna solo che in materia di separazione/divorzio si mantiene il tentativo di conciliazione.
Codice del Commercio
(Gorneau, maggio 1807)
1) Il diritto commerciale venne concepito per la prima volta in Senso Oggettivo (favorire il commercio) e non in senso soggettivo
(tutelare i commercianti).
2) Sulla base delle critiche ottenute dalle Corti di giustizia/Tribunali/Consiglio di commercio (+ dopo la discussione del Consiglio di
Stato) fu pubblicata una seconda versione del “Progetto Gorneau” (Consigliere della Corte d’Appello) con numerose soluzioni
legislative:
• Fallimento: il commerciante fallito perdeva la gestione del suo patrimonio + arresto immediato (salva la possibilità di essere poi
rilasciato in caso di errore).
• Cambiale (lettre de change): i Tribunali arrestavano il debitore inadempiente (solo però commercianti).
• Diritto Marittimo:
- Assicurazioni marittime (danni incendio/assicurazione sulla vita).
- Società commerciali (autorizzazione del Governo per la loro costituzione).
14
La Rivoluzione Francese del 1789.
1) La rivoluzione francese è un insieme di eventi/cambiamenti intercorsi tra il 1789 e il 1799 (tra cui l'abolizione della monarchia
assoluta e la proclamazione della repubblica). L’idea alla base è quella di “costruire un uomo nuovo/felice perché restituito alla
natura, reintegrato dalla legge nei suoi diritti naturali (libertà, uguaglianza, proprietà) ed educato infine dallo Stato legislatore ad
esercitare questi diritti come cittadino virtuoso”. Dunque essa segnò la fine dell'assolutismo e diede inizio ad un nuovo regime in cui
la borghesia (le masse popolari) che si convertirono nella forza politica dominante del paese.
2) Nel 1700 la Francia era il paese più popolato di Europa con quasi 28 milioni di persone (tra la campagna e la città). Già da tempo dal
punto di vista economico Francia era in crisi (il pane era il cibo principale per la maggior parte della popolazione) e gli sprechi della
Reggia Di Versailles erano pagati con le tasse dei poveri a cui si sommavano anche le spese per la guerra contro l’Inghilterra.
3) Con lo scopo di trovare un modo per superare tale crisi, viene convocata l'Assemblea Degli Stati Generali a Versailles il 05 Maggio
1789 (il clero - la nobiltà guerriera - il "Terzo Stato" che indicherebbe i lavoratori) in cui il concetto fondamentale era il “desiderio di
libertà” ma al Terzo Stato non era permesso di partecipare, quindi i rappresentanti si riuniscono tra di loro in Assemblea Nazionale e
decidono di far scattare una rivoluzione con lo scopo di dare alla Francia una nuova costituzione.
4) L'inizio della rivoluzione francese si ha il 14 Luglio 1789 con l'assalto alla fortezza Bastiglia (per procurarsi armi e munizioni) la
quale viene smontata pietra dopo pietra essendo così cancellata definitivamente dalla storia. Successivamente si proclama la libertà di
culto/stampa con la conseguente redazione della “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino” (1789).
5) Non accettando le restrizioni imposte dalla rivoluzione, Luigi XVI firma lui stesso la dichiarazione di guerra contro l’Austria
sperando che la Francia (e con essa i suoi rivoluzionari) perdesse. Accusato-processato-giudicato da un tribunale rivoluzionario,
uccidendo il re i rivoluzionari francesi si troverebbero a lottare contro tutte le altre potenze europee perciò per prendere questa
difficile e delicata decisione di una eventuale uccisione del re si vota (360 persone votano per risparmiare la vita al re e 361 persone
votano per la sua morte), e per un solo voto di differenza Luigi XVI è condannato alla ghigliottina il 21 gennaio 1793 (più tardi,
anche la regina Maria Antonietta viene giudicata e condannata a morte con richiesta che la sua decapitazione avvenga nella Piazza
Della Rivoluzione).
6) La psicosi del tradimento portò ad accusare tantissime persone (il tribunale rivoluzionario escludeva dal suo metodo la presunzione
di innocenza fino a prova contraria) tale che circa 20.000 persone vennero decapitate (tra cui Georges Danton, considerato uno dei
"padri" della rivoluzione francese, e il leader giacobino Robespierre). Pian piano la rivoluzione francese inizia a spegnersi e ad
emergere la figura di Napoleone Bonaparte.
Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.
15
ADRIANO CAVANNA
Volume secondo
PARTE PRIMA: DALLA NASCITA AL TRAMONTO DEL DIRITTO
COMUNE
Storia dell’Europa e del diritto: uno sguardo al cammino percorso
CHE COS’E’ L’EUROPA?
Definire cosa sia l’Europa non è una cosa semplice, e richiede una certa riflessione.
L’odierna “Europa”, infatti, non è un a priori etnico-geografico: non esistevano, cioè, fattori di
lingua o di razza, o fattori geografici (come mari, monti e fiumi) in grado di determinare la sua
attuale configurazione territoriale.
Nel mondo antico, dunque, l’europa poteva essere diversa da quella che è oggi perché la geografia
offriva altre possibilità: la cultura romana, ad esempio, la identificava come una identità geografica
incentrata sul mediterraneo, confinane a nord con i fiumi della Germania e a sud con i deserti
dell’Africa.
Ma se l’Europa odierna non è il risultato della etnografia o della geografia, essa è tuttavia un
risultato della storia, e cioè un risultato della volontà e dell’agire umano, nonché dell’intelligenza e
del pensiero dell’uomo: l’Europa è, cioè, un libero prodotto della cultura, un fenomeno culturale.
E’ infatti proprio una certa cultura, la cultura altomedievale (8° e 9° secolo), ad aver disegnato
l’europa come è oggi: quando romanità e germanesimo, cioè, si fondono in un’unica civiltà,
amalgamandosi nell’ambito della spiritualità cristiana.
Se facciamo un passo indietro, infatti, lo scenario che ci troviamo di fronte è quello di un occidente
invaso dai barbari, in cui la società dei latini è regredita a livelli elementari di vita organizzata. Su di
essa incombe la nuova classe dirigente barbarica: una rozza aristocrazia militare, che disprezza le
istituzioni e i valori della romanità, perché questi valori non sono compatibili con la cultura della
forza di cui i barbari sono portatori. Privi del tutto del senso dello stato, possiamo tranquillamente
asserire, dunque, che i barbari avevano distrutto l’orbis romanus, il regno del diritto.
In questo quadro desolato, l’unica ad essere rimasta depositaria del sapere dell’antichità è la chiesa,
semimbarbarita anch’essa (in quanto la sua cultura si riduce poco più che ad un rude latino), ma con
l’incrollabile convinzione che quella tradizione culturale debba essere conservata.
Ha inizio, dunque, l’impresa disperata della conversione dei barbari, una conversione che è
simultaneamente romanizzazione: vangelo e diritto romano, cioè, penetrano insieme nel mondo
barbarico, perché il cristianesimo trova il suo senso profondo nell’uomo, e perché il diritto è la più
alta manifestazione terrena della spiritualità e della razionalità umana.
E’, dunque, attraverso questa combinazione di umanesimo e diritto che la nuova fede viene a poco a
poco accolta dai popoli germanici, e in questa nuova fede, comune a vinti e vincitori, a latini e
germani, avviene l’incontro tra due civiltà diverse e antagoniste: nasce, così, una cultura che non è
più né romana né germanica, ma romanica (e cristiana).
Il nucleo primitivo del concetto di Europa, invece, si forma nell’età carolingia, nel momento in
cui una respublica christiana si contrappone in blocco al mondo islamico: Carlo Magno, imperatore
barbaro divenuto defensor ecclesiae, viene incoronato a Roma nella notte di Natale dell’800. Sotto
la sua autorità, popoli differenti per lingua, per razza, per tradizioni, si ritrovano accomunati dalla
stessa fede religiosa, ed organizzati in un unitario ordinamento istituzionale.
Dunque Carlo Magno, che la chiesa ha scelto come difensore della cristianità, viene esaltato dalla
letteratura e dagli intellettuali del tempo come “padre dell’europa “: il suo impero è sacro e voluto
16
da Dio (e consapevolmente opposto all’islam), e l’appartenenza a questo impero è la sola
cittadinanza che l’uomo dell’occidente senta veramente: nella gerarchia delle sue partecipazioni,
cioè, egli si sente prima un cristiano, poi, per esempio, un italico. Questo stato d’animo, dunque,
conta di gran lunga di più dei vari nazionalismi, peraltro informi.
Tuttavia, a fronte al bilancio politico deludente dell’impero carolingio, sgretolatosi in pochi
decenni, si è giunti a parlare di aborto dell’Europa: quel che dobbiamo ricercare nel periodo
carolingio, però, non è un ordinamento europeo realizzato materialmente, ma la presenza di alcune
caratteristiche fondative del pensiero occidentale: il senso del diritto, l’umanesimo cristiano, il
senso di civiltà universalistica (cioè di una civiltà unitaria ed insieme pluralistica), connoteranno per
sempre la nazionalità europea. Gli europei, infatti, non dimenticheranno più che le loro radici
affondano in quel nucleo romanico-cristiano di partenza.
Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.
IL RINASCIMENTO GIURIDICO DELL’EUROPA MEDIEVALE
Tra le aspirazioni non realizzate nell’ambito dell’impero carolingio, ci fu anche quella dell’unità
del diritto: un solo diritto per tutta la cristianità, un solo diritto che si sostituisse alla molteplicità di
leggi nazionali. Unica la fede, unico il regime politico, unico il diritto. La grandezza dell’età
carolingia, cioè, sta proprio nell’aver sentito il problema del rapporto tra il diritto e lo spirito di una
società accomunata da determinati valori.
Eppure, c’era un diritto già pronto da secoli per fungere da legge comune: un diritto capace di
reggere, secondo principi universali e senza connotati di nazionalità, i popoli più disparati: il corpus
iuris iustinianei (6° sec.), che aveva come scopo quello di tramandare al mondo moderno la
sapienza giuridica antica del diritto romano.
• Ma anche se questo diritto, (che racchiudeva le regole fondamentali della convivenza civile,
del governo dello stato, e del senso di giustizia) era pronto, non era altrettanto pronta ad utilizzarlo
la semplificata società altomedievale, per cui quelle norme erano troppo raffinate e quegli istituti
troppo complessi. Senza possibilità di essere capito, dunque, il corpus iuris giustinianeo, era
destinato a rimanere un immenso capitale della giustizia immobilizzato, perché mitizzato dalla
fantasia altomedievale quale frutto di una lontana età dell’oro del diritto.
Il diritto al quale i barbari a poco a poco si accostarono, fondendosi così alle popolazioni latine,
dunque, non fu quello della compilazione giustinianea, ma quello pregiustinianeo, che essi
conobbero sotto la veste deformata e facilitata di diritto romano volgare.
• Momento di risveglio si ha a Bologna nel 1088, tanto che gli storici del diritto, per descriverlo,
parlano di “rinascimento giuridico”. Nella Bologna della fine dell’undicesimo secolo, infatti, il
corpus iuris ritorna in circolazione. La società di fronte alla quale ci troviamo, è una società
animata da un risveglio intellettuale, politico ed economico, è una società comunale, che nasce
dalle macerie del mondo feudale, e che presto risolleva il rapporto tra diritto e valori. E’ una
società che pensa in grande ed agisce in grande, e che disseppellisce e comprende, finalmente, la
Bibbia del diritto, il libro della giustizia: il corpus iuris di giustiniano.
Il merito di questa grande impennata, di questa grande scoperta, è di IRNERIO, maestro di arti
liberali, dedito ad alfabetizzare in qualche scuola del tempo. Anche se dobbiamo dire che dietro
quest’uomo c’è sicuramente il lavoro preparatorio di un paio di generazioni, la leggenda si è
impadronita di Irnerio, concentrando nella sua persona il grande evento della nascita del diritto
comune in europa e creando il buio alle sue spalle.
Quando Irnerio muore, intorno al 1130, il grande movimento scientifico che si concentra sul
corpus iuris, appare inarrestabilmente avviato: è nata la scuola italiana dei glossatori, che
compie senza sosta in lavoro esegetico, cioè interpretativo, intorno al monumentale testo
romano. Irnerio lascia quattro discepoli celeberrimi, che l’Imperatore Federico I chiamerà a
consulto come supremi sacerdoti del diritto. Questi quattro doctores, a loro volta, generano
17
altri discepoli. Le tecniche interpretative si affinano, il ragionamento giuridico e gli orizzonti
dottrinali si ampliano, la padronanza del testo diventa sbalorditiva:
questo 12° secolo, insomma, oltre ad essere l’età degli esploratori della compilazione
giustinianea, è anche il più giuridico dei secoli.
Ciò che è importante sottolineare, è il fatto che i glossatori si accostano al testo giustinianeo
con estrema riverenza: ne hanno un culto fideistico, lo stesso tipo di culto che i padri della
chiesa sentono di fronte alla Bibbia. Essi sono certi del fatto che il legislatore romano abbia
promulgato questo testo per volontà e per ispirazione di Dio, e dunque lo vivono come un
esempio eterno, come una rivelazione giuridica, come IL diritto, che in virtù della sua
origine nel volere divino deve governare con forza vincolante l’intera cristianità.
Questi giuristi, dominati dal principio di autorità e privi di senso storico, non avvertono il
problema dell’antichità del corpus iuris, né quello delle contraddizioni, delle lacune, delle
disorganicità in esso contenute: ai loro occhi, infatti, la compilazione giustinianea è un
armonioso complesso di regole infallibili ed eternamente valide.
Con inconsapevolezza, dunque, costoro portano avanti il progetto di trasformare il testo
giuridico romano, antico di secoli e secoli, in una legge del presente, regalando all’europa
cristiana del tempo un diritto comune.
Il testo è smisurato e tecnicamente difficile, ma i giuristi lo muniscono di un commentario
interpretativo che lo rende immediatamente applicabile e accessibile ad avvocati, giudici,
notai, perché fornisce, ad esempio, in modo praticamente preconfezionato, la sentenza da
pronunciare. La ragione dell’enorme potere del giurista medievale, dunque, risiede proprio
nel suo essere mediatore tra il testo giustinianeo e la prassi, con le conseguenze che:
l’autorità del testo si trasferisce sull’interprete
l’opinione dell’interprete tende a sostituirsi al testo stesso.
Nella prassi, dunque, sono le parole dell’interprete che vengono prese soprattutto in
considerazione, in quanto queste danno la versione attualizzata della norma antica: in questo
modo, l’opinione dell’interprete viene accolta come legge, perché egli, ispirandosi all’equità,
conferisce alla norma romana i contenuti, i valori, i significati della realtà a lui
contemporanea.
E’, questo, il fenomeno della giurisprudenzialità del diritto, che per tutta l’età che precede le
codificazioni moderne ci si presenta di continuo: è chiaro, infatti, che nell’interpretazione
che il giurista dà della norma antica, c’è quel diritto nuovo del quale la società del tempo ha
bisogno, e solamente col quale la società del tempo può funzionare.
Del resto, questo fenomeno di sostituzione della parola dell’interprete a quella del testo
interpretato si manifesta anche oggi presso ogni società che si regoli con un codice
stagionato, anche se il fenomeno ha proporzioni meno grandiose:
-il quasi bisecolare code civil napoleonico, ad esempio, governa ancora oggi la società
francese, una società tecnologica ed industrializzata, lontanissima dalla Francia agricola del
1804. Laddove, dunque, i contenuti del codice non siano stati direttamente riformati o
integrati da successive leggi, le vecchie norme ottocentesche sopravvivono immutate, anche
se poi, pur nella loro intatta forma originaria, esse hanno assunto significati, valori e
funzioni che la giurisprudenza ha a mano a mano conferito loro.
-vanno ricordati, inoltre, i codici italiani comparsi durante il fascismo, mantenutisi
formalmente immutati, ed oggi interpretati alla luce della successiva costituzione.
• Cinquant’anni dopo, intorno alla metà del Duecento, la compilazione giustinianea è
completamente glossata, norma per norma e quasi parola per parola.
Alla soglia del Trecento, dunque, si avvierà la scuola dei commentatori destinata a consegnare al
mondo moderno il corpus iuris.
18
“UTRUMQUE IUS”
Se i giuristi medievali hanno dimostrato che la compilazione giustinianea poteva reggere il loro
tempo e i tempi a venire, essi hanno anche percepito chiaramente i suoi limiti d’azione.
Il pensiero del medioevo vede l’uomo simultaneamente come spirito e materia, componenti, queste,
che sono unite in un costante rapporto. Così è per l’intera società, al vertice della quale convivono
due supreme potestà, distinte ed insieme coordinate: Chiesa e Impero. Due, dunque, sono anche gli
ordinamenti giuridici che governano gli uomini:
quello che li governa in spiritualibus
quello che li governa in temporalibus
Ci troviamo in una società, dunque, totalmente integrata nella dimensione religiosa, che non
conosce l’idea, prettamente moderna, della laicità della società civile.
Se dunque due sono gli ordinamenti giuridici che governano gli uomini, due sono anche i diritti con
cui essi hanno a che fare: il diritto canonico e il diritto civile.
Tra di essi, non c’è una separazione delle materie e neppure una reciproca irrilevanza, ma piuttosto
un rapporto di alimentazione:
il diritto canonico, infatti, non disciplina solamente gli aspetti propriamente spirituali
dell’essere umano, ma interviene ogni qualvolta un atto, rilevante per lo ius civile, presenti una
implicazione spirituale.
Viceversa, esso accoglie tutte le norme del diritto romano che possono funzionare come lex
saecularis della chiesa.
Questo utrumque ius governa l’uomo del medioevo in un duplice e simultaneo senso.
Intorno al 1140 un umile monaco, GRAZIANO, raccoglie in un testo il ricchissimo patrimonio
normativo della chiesa: con il suo decretum, Graziano giganteggia (insieme ad Irnerio) nella veste
di fondatore. Egli riduce ad un sistema coerente la molteplicità dei canoni, dei passi biblici e delle
norme romane che la chiesa aveva recepito: sforzo colossale, questo, se si pensa
-che il materiale che doveva essere ordinato era pieno di contraddizioni
-che Graziano non poteva mettere in discussione i precetti su cui lavorava, ma poteva soltanto
discuterli
-e che egli doveva costruire un diritto canonico che si distinguesse dalla teologia.
Il decretum, in cui Graziano non raccoglie un diritto venuto meno, come quello romano, ma una
tradizione giuridica della chiesa che dal suo sorgere era giunta viva fino al suo tempo, è il pilastro di
base di quello che prenderà il nome di corpus iuris canonici.
E l’utrumque l’ius, da questo momento in poi, può funzionare al meglio.
UNIVERSITA’ E UNITA’ DELL’ISTRUZIONE GIURIDICA CONTINENTALE
Il corpus iuris torna alla luce a Bologna: ben presto, qui, accorrono frotte di studenti e di aspiranti
giuristi da ogni parte del continente.
E’ a Bologna che, in modo non ufficiale, nasce la prima università (se non la prima della storia,
perché Parigi contende con Bologna il primato, quantomeno la prima in cui il diritto): università
come spontanea, libera e privata organizzazione corporativa degli studenti.
Occorre soffermarsi ora sul perché lo studio scientifico della compilazione giustinianea non poteva
avviarsi se non nell’ambito dell’universitas. Le ragioni sono molteplici, e cioè:
perché la notizia che a Bologna era ricomparso il Digesto e che questo era accessibile, portò a far
concludere che chi fosse entrato in possesso della sua conoscenza si sarebbe automaticamente
assicurato potere, ricchezza e prestigio.
perché la cultura medievale considerava il diritto come centrale per la soluzione di problemi
civili, politici e spirituali
perché il corpus iuris, anche se doveva essere applicato, non poteva essere usato con
immediatezza nella prassi per via della sua complessità: occorreva dunque la mediazione tecnica di
un gruppo di dotti che predisponesse il testo per un suo uso pratico.
19
Poiché, però, occorreva anche garantire che il sapere giuridico si trasmettesse di generazione in
generazione all’interno di una classe di dotti, questa esigenza naturale porta al sorgere e allo
svilupparsi dell’università, intesa come professionalizzazione e tecnicizzazione dell’attività del
giurista. Questo spiega perché l’università medievale non aveva lo scopo di formare gli studenti per
la prassi, bensì quello di formare nuovi docenti e nuovi interpreti del testo antico: non dei pratici,
insomma, ma delle guide per i pratici.
Dunque per la prima volta diventa chiaro che il diritto è un affare dei giuristi, e che per conoscerlo è
necessario un lungo studio (in quanto si doveva giungere a dominare sia il corpus iuris civilis, che il
corpus iuris canonici).
Quello che avviene nella piccola Bologna dell’11° secolo è qualcosa di straordinario, perché in quel
microcosmo limitato ai problemi locali, si incunea all’improvviso qualcosa di smisuratamente più
grande come l’università, che per sua natura è non locale, ma internazionale e, addirittura,
universale. I circa duemila studenti che affolleranno Bologna saranno i portatori e i destinatari di
una sapere che trascende ogni confine politico all’interno del mondo cristiano. E’, questo, un sapere
che è destinato ad irradiarsi per tutto il continente europeo perché, una volta doctores, coloro che
sono andati a studiare a Bologna
tornano nei loro paesi di origine portandosi come inestimabile bagaglio, oltre alla licenza per
insegnare, anche le tecniche del ragionamento giuridico, le formule di governo dello stato e gli
schemi di amministrazione della giustizia
vanno ad occupare livelli di vertice nell’ambito della classe dirigente
Sul modello di Bologna sorgono come funghi, in Italia ed in Europa, nuovi centri di studio, o
perché voluti ufficialmente da un Papa, da un imperatore o da un re, o perché sorti ancora una volta
liberamente, laddove un professore famoso ha deciso di fermarsi ad insegnare il corpus iuris. Il
vento di questa cultura spira ovunque, perché il corpus iuris non racchiude un diritto che si adatti
agli italiani piuttosto che ai tedeschi, ai francesi o ai polacchi: esso racchiude un diritto per gli
uomini.
Intorno al 1400, di centri universitari di studi giuridici se ne trovano nell’intero continente
(Cracovia, Buda, Orleans, Lisbona, Praga, Siena, Perugina, Napoli ecc ecc), e vengono organizzate
secondo il modello bolognese. Piano di studio, metodo di insegnamento, contenuti didattici e lingua
latina: tutto è identico.
L’europa medievale è l’area di diffusione di un sapere libero, insegnato nelle università.
Dunque si ha:
unità nella istruzione giuridica continentale
unicità della figura del giurista, che diventa un professionista del diritto e dell’amministrazione
pubblica, condividente con altri giuristi cultura, tecniche, lingua, mentalità e, naturalmente, il
diritto.
Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.
DALLA RECEZIONE AL TRAMONTO DEL DIRITTO COMUNE
Quando il diritto del corpus iuris inizia a diffondersi nel continente, la potenza universale che agisce
come sua grande alleata è non tanto l’impero, quanto la Chiesa.
Il corpus iuris, diritto imperiale, è norma vincolante nei territori, appunto, imperiali (Italia e paesi
germanici), ma incontra ostacoli di natura politica nei regni indipendenti dell’impero, in quanto in
questi luoghi il recepimento del diritto romano potrebbe apparire come il segno della accettazione di
una soggezione nei confronti dell’impero. In questi paesi, allora, esso viene accolto ad altro titolo:
quale consuetudine, come diritto regio, o come ratio scripta.
La Chiesa, invece, ha organizzato in tutti i paesi cristiani delle corti giudiziarie, ove si celebra il
rigoroso processo canonico che più tardi sarà fatto proprio anche dai tribunali laici, divenendo così
processo europeo.
20
Il diritto romano, dunque, viene accolto ovunque e diventa così, con il suo risvolto canonistico, il
diritto comune di tutti i paesi dell’europa continentale. La ragione posta alla base di questa
recezione da parte di così tanti paesi risiede nel fatto che nessuno di questi possedeva un proprio
diritto nazionale unitario che potesse essere amministrato da un ceto di giuristi. Essi, al contrario,
pullulavano o di primitivi e lacunosi diritti consuetudinari locali configgenti tra loro, o si trovavano
addirittura allo stadio della tradizione orale. La vita sociale, dunque, era impoverita perché mancava
un diritto di grande respiro, nonché organizzazione, certezza dei rapporti giuridici e giustizia.
Ma in ciascuno di questi ambienti
-ad un certo momento compaiono i giuristi: specialisti del corpus iuris, in possesso di razionali
tecniche operative
-entra in funzione l’equo, rigoroso e logico processo canonico, che sotto il profilo spirituale
scandaglia l’uomo nella sua coscienza, e sotto il profilo temporale lo affida al diritto romano, un
diritto assimilabile da ogni comunità che lo voglia accogliere, perché in grado di fornire ovunque le
norme indispensabili ad una società avanzata. Esso non ha la pretesa di soppiantare il diritti locali,
ma semplicemente di colmarli laddove essi siano muti: l’universalismo del diritto romano, cioè, non
nega il pluralismo: è l’età della pluralità degli ordinamenti, e il diritto del corpus iuris si pone come
diritto universale volto a coordinare i diritti particolari.
Così avviene il fatto della recezione: in ogni comunità politica lo ius comune assicura l’unità e la
completezza del diritto. Poiché questo ius comune acquista una specifica configurazione locale,
conferitagli dal suo combinarsi con le leggi e le consuetudini del paese che lo accoglie, ecco
spiegato come i diritti nazionali dell’europa continentale si sono formati tutti in chiave romanistica,
nell’ambito di una giurisprudenza caratterizzata dall’uso universale del corpus iuris.
Un solo paese si sottrae alla sorta che unifica le società europee nel diritto: l’Inghilterra, che matura
invece l’automa e tutta isolana esperienza della common law, diritto prodotto dai giudici, che lo
fabbricavano empiricamente attraverso un metodo casistico. Quando infatti il diritto del corpus iuris
approda sul territorio inglese, in Inghilterra si era già formato un primo rudimentale nucleo della
common law, fissato da un altrettanto rudimentale ceto di giuristi. L’Inghilterra, cioè, era già dotata
di un diritto artigianale valido ed unitario, tale da non richiedere di essere abbandonato a favore del
corpus iuris. Rimanendo estranei, dunque, al diritto del corpus iuris, i paesi di common law sono
rimasti estranei anche all’esperienza che ha concluso la crisi post-medievale del diritto comune: la
codificazione.
Mentre l’Inghilterra, dunque, conserva ancora oggi il proprio diritto di origine medievale,
scorgendo la prova della sua validità nella continuità con cui esso è stato applicato, nel continente
gli stati post-medievali si avviano alla crisi del diritto comune: all’antica concezione del diritto
come rivelazione manifestata nel corpus iuris si sostituisce a poco a poco quella
-della statualità del diritto
-e del primato della legge positiva, manifestazione della volontà di un sovrano nazionale.
Il nuovo dogma, il nuovo principio indiscutibile, ora, è quello della sovranità:
non più universalismo e pluralismo, ma nazionalismo
non più corpus iuris, ma il semplice diritto della ragione, codificato in norma positiva dalla
insindacabile volontà del monarca.
La storia giuridica moderna è la storia di una crisi lunga e grande:
lunga, perché lo stato assoluto nasce senza un proprio diritto, e dunque per tre secoli è
costretto ad amministrare con l’ormai ingombrante ius commune ereditato dal medioevo.
grande, perché si passa da una visione del mondo retto da un ordine divino-rivelato, all’idea
di una natura pienamente dominabile dall’uomo attraverso la scienza e la tecnologia. Si passa, cioè,
da una concezione teocentrica dell’esistenza, ad una concezione antropocentrica.
Per giungere ai codici giusnaturalistici, illuministici e borghesi che si sostituiranno al corpus iuris,
ci sarà bisogno di una rivoluzione della società, del diritto e dello stato.
21
Eppure i primi tre grandi codici civili comparsi in europa (e cioè i c.d. codici giusnaturalistici: il
code Napoleon, il codice austriaco e il Landrecht prussiano) ci rivelano che il diritto della ragione
aveva ancora una volta trovato fondamento nelle norme romane, e cioè nei diritti naturali
dell’uomo, anche se ripensati e risistemati. E’ il caratteristico fenomeno del travaso del diritto
romano-comune nei codici nazionali, codici che formalmente frantumano l’antica unità giuridica
europea ed iniziano l’età del positivismo giuridico.
Oggi gli inglesi contrappongono la famiglia della common law, alla quale essi appartengono, a
quella della civil law, cui apparteniamo noi: per loro, i paesi della civil law sono quelli vissuti
accomunati per secoli nella tradizione romanistica, e che alla fine si sono dati un codice
sull’esempio del corpus iuris giustinianeo.
IL DIRITTO NELL’EUROPA DELL’AVVENIRE
Gli Europei, oggi, sono tornati a parlare della loro unità e a fissarne la data del raggiungimento. Le
forze diplomatiche, politiche ed economiche operano in tal senso, ed è intuibile che la comunità
europea non sarà veramente tale se non avrà a che fare con un diritto accolto da tutti i paesi che la
compongono.
Ma è anche vero che spetterà alla cultura, prima che alla diplomazia, alla politica e all’economia,
ricostruire le basi di questa unità: l’unità europea presupporrà un ritorno dell’europa alla coscienza
che l’ha generata, anche se alcuni nostri governi si distinguono per politiche di affossamento dello
studio del latino e della storia antica. La cultura, cioè, mostra che l’europa dovrà difendere con tutta
se stessa il patrimonio di saggezza giuridica accumulato: gli europei dovranno tornare ad investire
la propria civiltà nel diritto, e più precisamente nella antica combinazione cristiana di umanesimo e
diritto.
Ricostruzione culturale, questa, che significherà ricostruzione morale, in quanto nei paesi in cui
umanesimo e diritto regneranno davvero insieme, barbarie quali il terrorismo, il razzismo, le guerre
di sterminio, le pulizie etniche (ecc ecc…) non esisteranno.
Le origini dell’idea di codificazione: un inquadramento generale
CODIFICAZIONE DEL DIRITTO: UN CONCETTO DALLE ORIGINI RECENTI
Il tipico modello adottato dagli attuali regimi giuridici continentali è il modello del diritto positivo
codificato.
Questo modello non costituisce da sempre l’unico schema organizzativo di una esperienza giuridica
evoluta:
• basti pensare a come si sono organizzati nel passato o a come appaiono organizzati nel presente
altri ordinamenti con un elevato livello di strutturazione, come ad esempio la Roma classica o
l’Inghilterra medievale e moderna: in questi due modelli di case law non scritta, la norma nasce
dalla soluzione del caso, e non la soluzione del caso da una norma già esistente. L’esperienza
romana e quella dei paesi di common law costituiscono modi molto diversi rispetto alla
codificazione di produrre ed utilizzare il diritto. Quando infatti un diritto affida il proprio sviluppo
all’opera di un ceto di giuristi delegati a produrre via via le norme che occorrono, piuttosto che ad
un legislatore statuale, allora si è lontani dall’idea di diritto codificato.
• La situazione non cambia neanche quando la casistica viene raccolta in un testo scritto, come ad
esempio nel caso del digesto giustinianeo: per dar vita ad un codice non basta che si imponga di
osservare come legge un repertorio di casi dottrinalmente risolti.
In realtà il sistema normativo dei codici, al quale metà della terra affida oggi l’amministrazione
della giustizia, ha una origine recente, seppur radicata nella millenaria tradizione giuridica
occidentale:
22
l’idea di codice, infatti, è l’ultima creazione della cultura giuridica europea: il sistema del diritto
codificato ha appena i due secoli di vita, e alle spalle una esperienza giuridica ben differente. Esso è
il frutto del pensiero critico occidentale di ridurre il diritto in principi, di compendiarlo in un testo
dal rigore geometrico, di affidarlo ad un sistema privo di lacune e contraddizioni, sistema creato da
un legislatore sovrano e sottratto, cioè, ad ogni arbitrio dei giudici.
Divenuta una scelta tecnico-politica consapevole, la codificazione ha costituito un traguardo
difficile da raggiungere: in Francia, ad esempio, essa è stata il prodotto della rivoluzione, e ha
segnato la fine di una tradizione di diritto comune, fondata sull’uso del corpus iuris giustinianeo.
ESTRANEITA’ DELL’IDEA DI CODICE ALLA CULTURA GIURIDICA MEDIEVALE
Il concetto di codificazione è completamente estraneo al medioevo: nel pensiero dell’uomo
medievale non c’è posto né per il concetto di unità né per quello di statualità del diritto, né, ancora,
per quello di sovranità, da cui consegua che unico produttore del diritto sia lo stato.
L’esperienza medievale è caratterizzata dall’universalismo e, insieme, dal pluralismo giuridico:
da un lato troviamo il diritto romano comune del corpus iuris, un diritto immutabile costituito
dalla volontà divina, consegnato dalla tradizione ed accettato dagli uomini del medioevo come una
certezza rivelata. L’imperatore è il depositario (e non l’artefice!) di questo capitale di leggi, e la
visione universalistica della compilazione giustinianea ne fa una norma per un’unica ed
indifferenziata repubblica cristiana
dall’altro lato, si pongono i molteplici e frammentari diritti territoriali, cioè i c.d. iura propria:
• le consuetudini del luogo
• i fueros
• i Landrechte
• gli usi feudali
• gli statuti dei comuni
• i diritti delle corporazioni
• i diritti speciali dei ceti (ceti in cui questa società è tradizionalmente stratificata)
Gli iura propria, dunque, esprimono l’autonomia degli ordinamenti giuridici popolanti il mondo
medievale nei confronti di un ordine superiore, governato dallo ius comune, in cui tuttavia essi sono
inseriti. L’uomo del medioevo conosce il diritto della cristianità e insieme quello della sua terra:
così i diritti particolari, che nascono dal basso, si coordinano con il diritto comune che li integra
quando essi tacciono.
In una situazione come questa, fondamentale è il ruolo che svolgono i giuristi: la loro produzione
dottrinale è il motore dell’intera vita giuridica, imperniata molto più sull’interpretazione che sulla
legislazione: il contenuto del testo romano è incessantemente interpretato e reinterpretato da questi
doctores iuris. Quella dei giuristi medioevali, dunque, è una élite di professionisti del corpus iuris,
ideologicamente compatta e presente su scala europea, che tiene in vita un diritto ereditato
attraverso l’uso di un metodo invariato nei secoli: la continuità formale di questo diritto assicura la
continuità del ceto, e la continuità del ceto il riprodursi del diritto stesso.
Il sovrano medievale, dunque, è stretto tra tre componenti giuridiche: il diritto romano, il diritto
canonico e gli iura propria: può effettuare interventi legislativi che cambino qualche elemento del
sistema giuridico, può promulgare una propria compilazione legislativa, ma il controllo
dell’ordinamento nel suo complesso gli sfugge: sarebbe impensabile che egli potesse sostituirlo in
toto con un corpo di norme esprimenti la sua volontà.
Egli è sovrastato da un diritto divino-naturale: non ha, cioè, l’esclusiva nella produzione del diritto.
LA SITUAZIONE D’ANCIEN RÉGIME E LA CRISI DEL DIRITTO COMUNE
Il medioevo consegna allo Stato dei secoli che vanno dal sedicesimo al diciottesimo un regime delle
fonti giuridiche in cui il diritto romano
23
-è ancora la norma comune e superiore che colma una miriade di ordinamenti interni allo stato
-assicura, in mancanza di un organico diritto nazionale, quell’unità giuridica che il sovrano
moderno non è in grado di istaurare neppure ora che lo vorrebbe.
Questo fenomeno di sopravvivenza, si spiega se pensiamo all’ambiente politico, sociale ed
economico che fa da sfondo al potere assoluto nell’età dell’antico regime: permane la struttura
giuridica e sociale ereditata dal medioevo basata su una gerarchia della classi, su prerogative
feudali, e su poteri particolaristici che intralciano l’autorità sovrana, dissolvendo l’autorità dello
stato: non c’è nessuna legge uniforme che regola l’insieme dei territori, in quanto l’autorità del
monarca si estende sì in tutte le regioni, ma in ognuna di esse assume aspetti diversi, rispettando le
tradizioni locali. Un mondo che vive di proprie leggi, insomma, si pone sì sotto la legge del
monarca, ma limita comunque la sua onnipotenza, a causa dei propri particolarismi.
Anzi, il diritto comune post-medievale è potenziato dalla comparsa di nuovi protagonisti nella vita
giuridica: i tribunali supremi statuali, collegi creati dai monarchi nell’intento di unificare il diritto
del proprio stato attraverso un potenziamento della giurisdizione.
I magistrati delle corti centrali, con il grande potere di discrezionalità lasciato loro, orientano la
prassi delle corti minori e, vicinissimi alla potestà regale, perché istituiti come esecutori della
giustizia del re, rispecchiano qualcosa della sovranità: essi possono giudicare secondo coscienza,
avvalendosi di quello straordinario strumento di potere che è l’arbitrio equitativo.
Questo potenziamento della giurisdizione, tuttavia, ha generato una forza dell’attività giudiziale
sconosciuta all’esperienza giuridica medievale, esponendo le corti a tentazioni di indipendenza
quali, prima fra tutte, quella di perseguire non il primato della volontà del sovrano, ma quello di una
propria politica del diritto.
E in effetti la giurisprudenza che si svilupperà nei secoli diciassettesimo e diciottesimo deriva solo
in parte da fonti quali il diritto romano, la legislazione del sovrano e le normative particolari: quello
che conta è invece, soprattutto, la prassi giurisprudenziale, vale a dire l’applicazione concreta che i
tribunali fanno liberamente di quelle fonti. Essi non si basano tanto sul dettato della norma antica,
ormai desueta: ciò che per i magistrati ha davvero importanza sono soprattutto le opinioni che i
grandi giuristi medievali e postmedievali hanno dato di quella norma, corredandola di un significato
moderno. Dietro i tribunali di giudici vivi, dunque, vediamo ergersi un tribunale di morti, occupato
dalle ombri dei grandi giuristi del tempo passato, la cui dottrina, citata in aula, è legge.
Tuttavia, se nei secoli dell’età moderna il regime medioevale di diritto comune sopravvive, ciò non
impedisce che in quegli stessi secoli si delineino i segni di una crisi del sistema:
con il progressivo svilupparsi di monarchie e principati in senso assolutistico, infatti, prendono vita
anche dottrine dirette a legittimare i governi autocratici (=assolutistici, tirannici), dottrine, queste,
necessariamente configgenti con la tradizione della pluralità delle fonti e con la loro gestione
giurisprudenziale, poiché fanno emergere il concetto di diritto come legge dello stato e di stato
come unica fonte del diritto.
L’idea di fondo, dunque, non è più quella della natura universalmente cristiana degli stati, ma quella
del primato laico dell’organizzazione, che si concretizza anche nella autosufficienza di ciascuno
stato nella produzione del proprio diritto: universalismo e pluralismo medioevali, dunque, vengono
sgretolati dal nazionalismo moderno.
La politica assolutistica, che mira al pieno controllo dell’ordinamento, genera però il problema della
unificazione delle fonti giuridiche, in quanto la concentrazione del potere nelle mani di uno solo
deve per forza passare attraverso la concentrazione del diritto. La strada obbligata da percorrere,
dunque, diventa quella di riformulare il diritto vigente in modo innovativo, concentrandolo in un
corpo unitario di precetti, che siano
-l’univoca espressione della volontà del re
-l’unica legge nazionale per il suoi sudditi.
Abbiamo a che fare, in pratica, con la formula della sovranità: A Deo Rex, a Rege lex.
24
Dunque
se da una parte l’accettazione espressa del principe è la condizione necessaria perché il diritto
comune sia valido all’interno dello stato
dall’altra questo diritto ha, comunque, tutti i caratteri che il plurisecolare lavorio degli interpreti
gli ha impresso, caratteri notevolmente in contrasto con la politica assolutistica: il corpus iuris,
infatti, è stato solo la base originaria di partenza: sopra di esso si sono generate centinaia di opere
dottrinali, che hanno trasformato il diritto comune in un diritto voluminoso, più opinabile,
antinomico e controverso, in quanto per la soluzione dei casi ci sono opinioni dottrinali contrastanti.
Il carattere opinabile delle regole, dunque, sembra condannare all’incertezza l’intero sistema, che
funziona solamente grazie all’arbitrio equitativo dei tribunali supremi.
La norma, dunque, anziché essere statuita all’istante da una autorità ufficiale, si forma lentamente
come risultato di dibattiti dottrinali, creando di continuo problemi per quanto riguarda la certezza.
Occorre, dunque, un testo legislativo compendioso e perentorio, talmente chiaro da escludere il
monopolio interpretativo della dottrina e della giurisprudenza.
E’ in questo modo che a poco a poco l’atteggiamento degli ambienti di governo diviene
antigiurisprudenziale: l’autorità mediatrice del ceto giuridico perde di credibilità e le opinioni
dottrinali, da autoritativo parametro di certezza che erano, si trasformano in null’altro che opinioni
private. Il diritto comune inizia ad assumere le parvenze di un diritto inattuale e impraticabile,
idoneo solo a fomentare la litigiosità della gente. Se
-Muratori, aveva polemizzato contro lo spregiudicato uso del diritto romano da parte di giudici ed
avvocati
-Cesare Beccaria, nella pagina iniziale della sua opera “Dei delitti e delle pene”, compie tutta una
riflessione antigiurisprudenziale: egli trova assurdo, infatti, il fatto che le norme di diritto comune,
“avvolte in farraginosi volumi di oscuri interpreti”, costituiscano la legge. Da sostenitore
intransigente della codificazione, Beccaria contesta il fatto che i giudici possano far considerare
come legge la propria opinione interpretativa.
In realtà ci troviamo di fronte non soltanto ad un regime giuridico che si avvia al tramonto, ma
all’intera società di impianto medievale che entra in crisi: soggetti inquadrati per status, sistema dei
privilegi e concezione per cui la società non è composta di individui ma di corpi giuridici
differenziati non corrispondono al programma di livellamento che lo stato assoluto si propone.
E’ in questa società che si sta sgretolando a poco a poco che si fa strada lentamente e faticosamente
l’idea della codificazione: i codici, con le loro norme generali e astratte, conterranno un diritto
uguale per tutti, e saranno destinati ad un unico e socialmente indifferenziato destinatario. Essi:
-presupporranno una parità giuridica dei consociati
-si sostituiranno in blocco al diritto comune, per sua natura non funzionante se non in relazione ad
una molteplicità di normative particolari: non più tanti diritti per altrettanti ceti sociali, ma
unificazione e statalizzazione del diritto in senso egualitario
-scioglieranno i raggruppamenti comunitari e solidaristici in cui gli individui hanno sempre trovato
identità sociale e protezione: scomparirà, insomma, la struttura associazionistica creata dal
medioevo, e rimarranno gli individui ciascuno da solo: parificati l’un l’altro, ma separati l’uno
dall’altro per la scomparsa delle rispettive comunità di appartenenza e di tutela.
DAL DIRITTO COMUNE AI CODICI: LE PRIME TAPPE DI UN TRAPASSO PROBLEMATICO
La transizione dal regime di diritto comune a quello dei codici si è svolta con molta lentezza, poichè
le forze legate al particolarismo sono riuscite a contrastare per molto tempo gli sforzi accentratori.
Questi sforzi si palesano tra la fine del 16° e quella del 18° secolo: si va dagli isolati provvedimenti
antigiurisprudenziali, ai primi tentativi di riordinamento o di produzione giurisprudenziale nei
singoli stati.
Queste misure, tuttavia, sono volte non tanto a superare il regime di diritto comune, in quanto i
secoli 17° e 18° rappresentano piuttosto l’epoca delle consolidazioni, e cioè di quelle compilazioni
25
giuridiche o realizzate privatamente dai giuristi, o volute personalmente dal sovrano, volte a
raccogliere il disperso materiale legislativo già esistente.
Via via su questa strada, per iniziativa di alcuni sovrani, vengono messe a punto diverse
compilazioni raccoglienti una parte della normativa vigente e una parte di precetti nuovi: corpi
legislativi, questi, che comportano
-l’abrogazione di tutte le norme preesistenti in materia e
-l’ammodernamento di vaste aree del diritto, con la conseguente riduzione dello spazio occupato dal
diritto romano e dai diritti particolari.
Un esempio è dato dalle Ordonnances di Luigi14 (1681), che rappresentano una
ristrutturazione della materia e delle procedure commerciali in base alla politica
centralizzatrice dell’assolutismo francese.
Si ricordino, altrimenti, le costituzioni piemontesi del 1723, ‘29 e ’70, volte a porre al centro
del sistema delle fonti sabaude le norme regie.
O ancora, i codici settecenteschi della Baviera e le costituzioni modenesi, volti a sostituire al
regime giurisprudenziale del diritto comune la più grande quantità possibile di norme
sovrane.
Queste consolidazioni, pur rappresentando un passo in avanti verso la codificazione,
concettualmente si collocano pur sempre in una teoria delle fonti tradizionale: pur se messe a punto
con un intento riformatore, esse finiscono per riconfermare il sistema giuridico preesistente, che
risulta sì semplificato, ma non sostituito in blocco!
Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.
I CARATTERI INNOVATIVI OVVERO I REQUISITI TECNICI DELLA CODIFICAZIONE:
LE DUE CONDIZIONI DELLA SUA REALIZZAZIONE STORICA
Ciò che contraddistingue il codice (inteso nel senso tecnico del termine acquisito tra la fine del ‘700
e gli inizi dell’800, quando cioè viene promulgato il codice Napoleone) , rispetto a qualunque altro
testo legislativo è un duplice postulato:
1. La sua unicità come fonte del diritto
2. La unicità tipologica del soggetto giuridico che vi è visualizzato.
Esso rompe definitivamente con il regime di diritto comune, che cessa di essere il sistema di diritto
positivo, in quanto tutto il diritto previgente viene abrogato. Ad esso si sostituisce…
-il compendio di norme codificate come unica fonte di cognizione
-lo stato come unica fonte di produzione
L’elemento di unicità della fonte del diritto (che ha comportato l’emarginazione della consuetudine
e della giurisprudenza) e quello dell’unicità del soggetto di diritto (che ha comportato la scomparsa
dei legami di appartenenza cetuale) sono le due condizioni che hanno reso realizzabile il progetto
dei primo codice civile, progetto che si sostanziava nell’equazione:
“UNIFICAZIONE DEL DIRITTO=UNIFICAZIONE DELLA SOCIETA’”.
D’altronde la volontà di modificare in modo rapido e radicale la struttura della società attraverso il
diritto, non poteva attuarsi se non riconoscendo alla legge la supremazia assoluta di strumento
ordinante. Paolo Grossi, storico del diritto, ha parlato a tal proposito di assolutismo giuridico: né la
consuetudine, né il diritto giurisprudenziale, infatti, avrebbero potuto rivoluzionare l’assetto sociale,
in quanto questi si evolvono lentamente attraverso progressivi aggiustamenti della prassi.
Il codice, dunque, si presenta come un sistema non eterointegrabile (cioè non colmabile nelle sue
lacune normative mediante l’applicazione di leggi appartenenti ad un altro ordinamento giuridico)
di norme generali e astratte, dirette ad un destinatario unico e non qualificato socialmente.
Il principio della completezza del codice implica che in esso si identifichi l’intero diritto positivo: si
viene a parlare, in questo modo, di codicocentrismo. Completezza non significa, ovviamente, che il
codice contenga una previsione per ogni singolo caso, ma piuttosto che esso sia provvisto dei
meccanismi logici per il suo completamento (meccanismi quali, ad esempio, l’analogia).
Completezza, dunque, intesa nel senso di completabilità: si presume, cioè, che la soluzione di ogni
26
controversia possa essere reperita all’interno di un sistema di norme non incompatibili tra loro,
perché contenente un’altra serie di norme implicite, ma esplicitabili sfruttando meccanismi di
estensione.
UNA PARENTESI: A PROPOSITO DI UNA ODIERNA TENDENZA STORIOGRAFICA IN
MERITO A “COMPLETEZZA” E CODIFICAZIONE
Alcuni storici del diritto danno, oggi, una interpretazione insolita del fenomeno della lentezza e
della lunga durata del processo di transizione dal regime di diritto comune a quello dei codici.
Secondo costoro, infatti:
-il concetto di codice inteso come testo completo di norme uguali per tutti, si sarebbe venuto a
delineare non solo molto tardi (ossia nel 19°secolo), ma anche per via di concezioni successive
rispetto a quella, prevista in partenza dagli autori delle prime codificazioni, del totale soppianto del
diritto romano
-molti paesi europei approdati alla codificazione, inoltre, spiegavano le norme del codice attraverso
il ricorso ai principi del diritto romano comune, seppure questo fosse stato abrogato.
Tutto ciò suggerirebbe che la tradizionale immagine della codificazione vista come definitivo
superamento del regime di diritto comune andrebbe revisionata, perché secondo costoro…
da un lato, il concetto di codice come compendio non eterointegrabile era estraneo alla cultura
illuminista, che invece aveva concepito programmi più “possibilisti”, più “di compromesso” per
quanto riguarda la codificazione del diritto
dall’altro, la codificazione sarebbe una manifestazione della continuità del diritto comune, e non
la sua soluzione.
Queste audaci ricostruzioni storiografiche hanno il merito di aver evidenziato il fatto che la
tradizione del diritto comune, alla quale larga parte del ceto forense europeo era legata, ha opposto
resistenza ovunque ai progetti di codificazione: questa persistente fedeltà al diritto dell’ancien
regime, infatti, ha reso problematico dapprima il cammino verso la codificazione e poi, avvenuta la
promulgazione dei primi codici, ne ha complicato l’applicazione. Questo perché i giuristi che
vissero l’esperienza del trapasso dal diritto di antico regime a quello dei codici, continuarono a
ragionare secondo gli scemi mentali della tradizione nella quale si erano formato, cosa che generò la
tendenza ad interpretare estensivamente i nuovi testi, alla luce dell’abrogato diritto comune.
Tuttavia queste moderne interpretazioni possono essere obiettabili secondo due punti di vista:
• 1. Perché esse non provano sufficientemente che la cultura giuridica del settecento sia
estranea alla moderna idea della completezza del codice:
Nel campo del diritto penale…
le codificazioni realizzate alla fine del 18° secolo presupposero pienamente la codificazione,
accogliendo rigorosamente il principio di legalità. Queste codificazioni furono portate a termine
sotto l’influenza dell’illuminismo penale, assolutamente intransigente in proposito. Basti pensare al
codice fisso di leggi che debbono essere osservate alla lettera, di cui parlava Cesare Beccaria
anche quando qualche esponente dell’illuminismo ritenne impossibile la creazione immediata di
un codice penale completo, egli ne auspicò il completamento in pochi anni: si pensi ad Alessandro
Verri, che si lamentava del fatto che a Milano il diritto non consisteva in un codice, ma in una
voluminosa tradizione giurisprudenziale. Egli sostenne
-che per realizzare la certezza del diritto, si doveva abrogare tutto ciò che era stato mal costruito, e
realizzare, in parte con gli stessi materiali, un nuovo edificio, servendosi delle dovute regole
d’architettura.
-che se non era possibile descrivere in un unico codice tutte le azioni che commettono gli uomini,
era comunque vero che i delitti si riducono tutti in classi, e che dunque occorreva fare i dovuti
accostamenti per comprendere i casi simili.
27
Anche nell’ambito del diritto civile, l’ipotesi di un codice completo profetizzata da Leibniz
ha trovato sostenitori nel pensiero giuridico di fine ‘700:
E’ vero che molti giuristi, che non concepivano come ragionevole neppure l’abrogazione in toto
del diritto comune, hanno ritenuto la codificazione impensabile…
ma altri loro colleghi no!
Il problema, dunque, si è posto e si è dibattuto fino a quando il testo napoleonico del 1804 è entrato
in vigore con la pretesa di assenze di lacune.
Il creatore del termine “codificazione”, Jeremy Bentham, indica che il primo requisito che
un codice deve avere è quello della completezza: esso, cioè, deve essere una redazione completa di
norme, con la conseguenza che tutto ciò che non si trova nel codice (tutto ciò che è extra codicem),
non sarà considerato legge.
Le pagine dell’Introduction di Bentham vengono tradotte in francese, e vanno a ruba tra gli uomini
di legge.
o E’ ovvio che la dottrina del codice completo incontra anche degli oppositori: nella
vecchia scuola di legislazione, che sta lavorando al code civil, non tutti l’approvano:
proprio per questo motivo, fino alla vigilia della promulgazione del codice i giuristi
napoleonici discuteranno se abrogare in blocco o meno il diritto romano,
pronunciandosi, infine, per una totale abrogazione. Tutto il diritto previgente cessa di
avere forza di legge, e diventa solamente un deposito di massime di equità.
Tutti questi dati, dunque, non depongono di certo, come si è invece sostenuto,
-in favore di una totale estraneità delle dottrine del settecento alla questione della completezza
nell’ambito della codificazione,
-né tantomeno in favore di una continuità tra il regime del diritto comune e quello dei codici.
Se continuando a ragionare di completezza, infine, si vuole davvero controllare l’intero
contesto storico relativo alla nascita dei codici, è necessario non limitarsi alle teorie dottrinali, ma
considerare anche la figura del legislatore:
è vero, infatti, che per quanto riguarda la loro struttura, i codici sono prima di tutto il risultato di un
lavorio dottrinale, ma è anche vero che, terminata la fase tecnica della loro formazione, essi
vengono promulgati come prodotto della volontà di un legislatore sovrano, il quale aspira a renderli
completi ed immuni dalla concorrenza di altre fonti.
Il codice Giuseppino del 1787 venne pubblicato dall’intransigente imperatore austriaco Giuseppe
II, che stabilì non solo, come era naturale, che tutte le leggi fino ad allora in vigore erano da
considerarsi abrogate, ma anche che non ci si poteva rifare ad esse per nessun motivo.
Anche Napoleone nutriva la stessa aspirazione alla non eterointegrabilità del suo codice, e questo
deve aver in qualche modo influito nella sua compilazione, tanto che, ancora una volta, vengono
considerate leggi solo quelle contenute nel codice, e nulle tutte le altre.
• 2. Perché le tesi storiografiche continuiste tendono a ridimensionare l’immagine della
codificazione così come essa è intesa tradizionalmente, e cioè come momento di cesura e svolta
definitiva nella tradizione giuridica europea:
anche se è vero che il vecchio diritto comune, a dispetto di ogni abrogazione, continuò ad essere
considerato come punto di riferimento per l’interpretazione dei codici ottocenteschi, in quanto di
certo non poteva bastare la volontà di un legislatore per interrompere di punto in bianco una
tradizione plurisecolare…
ciò non toglie che con la comparsa in scena del codice voluto da Napoleone siano state poste
tutte le premesse per l’irreversibile affermarsi di un universo giuridico assolutamente nuovo:
l’universo giuridico del diritto codificato, concepito secondo i principi della completezza e
dell’unicità.
28
Se non considerassimo come rilevante questa soluzione di frattura, si rischierebbe di dimenticare
che proprio da essa ha preso avvio il fenomeno dell’assolutismo giuridico (che contraddistingue
ancora il nostro tempo), assolutismo giuridico caratterizzato da:
• il monopolio esercitato dal legislatore statuale
• l’esclusione di dottrina e giurisprudenza dal novero delle fonti (e cioè la scomparsa del
pluralismo giuridico
• la sottrazione alla giurisprudenza di una interpretatio che fa legge
Oggi sono sotto gli occhi di tutti i problemi generati da quella che chiamiamo “decodificazione”: le
legislazioni speciali hanno in parte distrutto l’unità del diritto privato, sgretolando la speculare
immagine dell’unità della società civile. C’è da sottolineare, inoltre, che molti sono stati i mali
prodotti da un uso incoerente del monopolio statuale del potere legislativo, che emana di continuo
una miriade di microleggi. L’odierno legislatore, figura incompetente tanto da risultare quasi una
caricatura dei primi grandi codificatori, è incapace di risolvere le questioni poste dalla società postindustriale, e reagisce ad esse moltiplicando i decreti.
In questi anni, tuttavia, una parte della giurisprudenza è divenuta consapevole dei problemi
generatisi dalla caotica legislazione speciale. Poiché ogni progetto di ritorno ad un passato
precodificatorio sarebbe impensabile, si parla allora di una “battaglia per il codice civile” (Irti) o di
una “ricodificazione” (Castronovo), alludendo all’ipotesi di una ricostruzione del diritto privato.
Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.
IL GIUSNATURALISMO, RETROTERRA CULTURALE DELL’IDEA DI CODICE E
FONDAMENTO TEORICO DELL’UNIFICAZIONE STATUALE DEL DIRITTO
Il processo di codificazione incontrò enormi difficoltà tecniche e politiche connesse al problema di
dover sostituire al vecchio regime del pluralismo giuridico, accreditato da una tradizione centenaria,
un unitario sistema di diritto statuale: difficoltà ancora più difficili da superare, in quanto il
pluralismo giuridico era appoggiato dal ceto forense e da quegli ordini privilegiati di ecclesti e
nobili, ai quali una unificazione del diritto avrebbe fatto perdere potere. Tuttavia, c’è da dire, che
anche i contadini restavano aggrappati ai loro privilegi feudali, guardando con sospetto ogni tipo di
cambiamento.
Si può comprendere, dunque, come la codificazione riuscì a superare la forza della tradizione solo
se la si guarda come prodotto di una società in trasformazione e come frutto della profonda crisi del
razionalismo cristiano del 17-18° secolo. Per spiegare cosa abbia spinto la società europea alla
codificazione, cioè, dobbiamo tener conto dei fondamenti filosofico-culturali sui quali il codice si
basa, in quanto se considerassimo soltanto i motivi tecnici avremmo una visione d’insieme
insoddisfacente: non si può pensare, cioè, che la codificazione sia stata solo la risposta ad un
bisogno di semplificazione del diritto.
L’idea di codice, dunque, potè acquistare forza solo sulla base di radici prettamente teoriche e
filosofiche: queste radici si svilupparono nell’ambito della dottrina del giusnaturalismo, dottrina
successivamente in parte assimilata e propagandata dall’illuminismo di fine ‘700.
Ciò vuol dire che i presupposti del giusnaturalismo spinsero aristocratici illuminati, funzionari
del governo, professori universitari (ecc ecc…) a chiedere riforme modernizzatici dell’ordine
giuridico.
In Inghilterra, invece, si ebbe un paradosso: anche se tanti fondamentali contributi alle teorie
giusnaturalistiche (come quelle di Hobbes e Locke), infatti, partirono da questo paese ed andarono,
poi, ad influenzare la cultura continentale, esse poi abbandonarono il loro luogo di nascita. Il motivo
di tutto ciò risiede nel fatto che queste teorie non potevano concretizzarsi se non attraverso la
legislazione, mentre l’Inghilterra era il regno del diritto non scritto e della giurisprudenza, una
giurisprudenza sulla quale il potere del sovrano non poteva prevalere.
Così il mondo dei giudici di common law continuò a risolvere i problemi di diritto con i metodi di
sempre.
Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.
29
Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.
Le dottrine giusnaturalistiche furono caratterizzate dal pensiero dominante del razionalismo
giuridico. Esse:
-fecero emergere l’ipotesi di una ristrutturazione scientifica del diritto del tutto indipendente dal
tradizionale ordine giustinianeo
-influenzarono alcune grandi monarchie del continente
-portarono a considerare fattibile la riunione, in un unico testo legislativo, di un diritto chiaro e
semplice, rapportato alla natura dell’uomo.
Il giusnaturalismo lega la sua fortuna soprattutto…
-alla diffusione delle opere di GROZIO (De iure belli ac pacis)
In Inghilterra:
-alle teorie assolutistiche di HOBBES
-e alle teorie liberali di LOCKE
In Germania:
-al razionalismo giuridico di VON PUFENDORF e THOMASIUS, da un lato
-e a quello di LEIBNIZ e WOLFF dall’altro,
che elaborarono costruzioni logico-matematiche del diritto, dalle quale dipesero le codificazioni
civilistiche prussiana e austriaca
In Francia:
-alle sistemazioni scientifiche di DOMAT e POTHIER, i cui schemi di unificazione organica delle
norme costituirono le premesse alla codificazione civile napoleonica.
Anche se questi indirizzi speculativi (riflessivi, teoretici) sono ben differenziati tra loro, le varie
versioni del giusnaturalismo sono accomunate:
-da un identico atteggiamento critico nei confronti degli ordinamenti vigenti, reputati incerti e
confusi
-dalla stimolazione di un intervento che fosse innovativo nell’ambito del diritto
Le idee che, seppur accolte con notevoli varianti, furono alla base del giusnaturalismo sono queste:
1) La presupposizione di un primitivo stato di natura e di convivenza spontanea precedente alla
società civile, in cui l’uomo gode, pacificamente ma rischiosamente, perché senza la protezione di
una autorità pubblica, di alcune fondamentali libertà. Libertà, queste, tanto illimitate, da tradursi in
violenza di tutti contro tutti (Hobbes)
2) L’ipotesi che, per garantire al meglio i propri diritti, gli individui abbiano stipulato un contratto
sociale (Hobbes)
-fondando lo Stato, e cioè una istituzione organizzata secondo leggi positive e
-legittimando il potere politico di un sovrano
3) che le leggi positive debbano riprodurre il diritto di natura, un diritto costruibile
matematicamente come un sistema scientifico rigoroso di diritti soggettivi naturali in capo all’uomo
(Domat, Wolff)
Di questa idea non è partecipe Hobbes, secondo cui, invece, con il contratto sociale tutto il diritto
viene a ridursi a diritto positivo, e cioè alla volontà imperativa del sovrano, ed i diritti dei sudditi
saranno solo quelli che la legge vorrà riconoscere loro.
o Questo filone viene sviluppato in modo differente da Pufendorf, secondo cui le leggi
naturali (poste dalla volontà di Dio), e le leggi positive (poste dalla volontà del sovrano)
sono comandi che prescrivono doveri, doveri al di fuori dei quali si apre l’ambito delle
libertà dell’uomo.
Dunque, è evidente che, seppur nella loro diversa combinazione all’interno dei vari indirizzi
filosofici, tali concezioni indicavano tutte la medesima esigenza di definitivo rioridinamento
razionale del diritto positivo.
Fatte proprie dall’illuminismo, esse verranno utilizzate proprio per raggiungere questo traguardo.
30
GIUSNATURALISMO E POSITIVISMO GIURIDICO
Occorre, inoltre, riflettere sulla connessione, costituitasi come conseguenza della codificazione, tra
giusnaturalismo e positivismo giuridico, due concezioni del diritto che oggi vengono spesso
considerate inconciliabili.
le dottrine giusnaturalistiche si esplicavano in una concezione dualistica del diritto: ponevano alla
loro base la presenza della coppia diritto naturale-diritto positivo, assegnando al diritto naturale una
superiorità sul diritto positivo e presupponendo una correzione delle norme positive attraverso il
ricorso ai principi naturali di equità.
Solo Hobbes annullava questi dualismo, sentenziando che lo Stato, creato con il contratto
sociale, fosse l’unica fonte del diritto.
Tuttavia, con l’avvio del processo di codificazione, con l’entrata in vigore, cioè, dei primi codici,
presero vita delle dottrine basate tutte su una concezione monistica e non dualistica del diritto:
unico diritto è quello positivo. Sorge spontaneo, dunque, chiedersi come possa essere stata, allora,
la filosofia del diritto naturale a suggerire l’idea di codificazione.
Il legame tra le prime grandi codificazioni ed il diritto naturale è molto evidente: le scelte normative
e l’impianto sistematico e razionalistico dei codici civili prussiano, napoleonico e austriaco (che
Wieacker ha chiamato “codici giusnaturalistici”), sono debitori del pensiero di Wolff, di Domat, di
Pothier e in particolare della tripartizione giustinianea tra personae, res e actiones. Il legame con
costoro, d’altra parte, è stato talvolta dichiarato anche dagli stessi autori della codificazione.
Eppure il positivismo giuridico (basato su una concezione monistica del diritto), sorse proprio sul
terreno preparato dal giusnaturalismo (basato, invece, su una concezione dualistica del diritto), e in
continuità, piuttosto che in contrapposizione, con esso.
Il passaggio si ebbe con il codice napoleonico, che Napoleone volle promulgare come un testo in
cui il legislatore era riuscito a racchiudere le regole della ragione naturale. Una volta proclamato,
dunque, che tali regole erano positivizzate nel codice, questo fu presentato come diritto esclusivo,
sottratto ad ogni possibile interpretazione, perché già completo.
Fu in questo modo che naque il positivismo giuridico, e cioè quando:
-il potere politico pretese di aver realizzato un diritto eticamente e razionalmente valido, e
legalmente certo. Si ebbe cioè, una positivizzazione della giustizia naturale ed il conferimento del
primato esclusivo alla (completa) legge statuale.
Il positivismo aveva divorato il proprio padre: il giusnaturalismo.
GIUSNATURALISMO E DIRITTO ROMANO
Ci si potrebbe chiedere, poi, se il diritto naturale (giusnaturalismo), elaborato dai grandi esponenti
del razionalismo in “norme di ragione”, abbia finito per soppiantare o comunque per privare della
sua tradizionale preminenza il diritto romano: ci si potrebbe chiedere, cioè, se nei primi codici civili
le regole elaborate dal razionalismo giuridico avessero sostituito i contenuti dell’antico corpus iuris.
In effetti il diritto naturale era nato come l’alternativa razionale al regime di diritto comune,
divenuto ingombrante, incerto e disperso. Tuttavia, questo antagonismo con esso, si trasformò per
molti aspetti in alleanza: gli esponenti del razionalismo giuridico, infatti, accolsero l’idea di una
concordanza di fondo tra diritto naturale e diritto romano: depurato dalla norme e dagli istituti
ormai superati, il diritto romano, molto spesso, si rivelava ai loro occhi come ragione scritta (ratio
scripta).
Fu così che:
-il diritto naturale operò un vaglio critico del diritto romano
-il diritto romano fornì al diritto naturale materiali abbondanti per la sua costruzione.
Questo spiega
sia la grande quantità di diritto romano nei codici europei,
31
sia il fenomeno delle categorie romanistiche, rimodellate secondo lo spirito del razionalismo
moderno.
GIUSNATURALISMO E ASSOLUTISMO POLITICO, OVVERO CONTRATTUALISMO E
STATUALISMO
Dunque fu proprio il giusnaturalismo, fatto circolare dall’illuminismo, la forza culturale che spianò
la strada all’idea di codificazione, in quanto la forza politica del sovrani assoluti da sola non sarebbe
stata sufficiente al compimento di un’opera di unificazione giuridica nazionale di tali proporzioni.
Non era, infatti, un’impresa da poco sopprimere e poi sostituire il diritto comune, che da secoli
trovava la propria disciplina nel corpus iuris e nelle centinaia di volumi di dottrina e giurisprudenza
ad esso collegati.
E neppure appariva facile una riforma che livellasse lo statuto giuridico di terre, corporazioni e
categorie sociali: infatti proprio i privilegi dei ceti conservatori come clero, nobiltà, classi togate,
rappresentavano le tradizionali garanzie di stabilità del potere politico:
Se consideriamo l’atteggiamento conservatore dei togati e dei forensi, ci accorgeremo che
dietro la difesa, ad opera di costoro, del regime di diritto comune, risiedevano in realtà
-sia ragioni di potere e di interessi corporativi
-sia ragioni tecniche, collegate al fatto che il giurista professionista è, per mentalità, legato al
diritto esistente, e dunque non sarà mai un riformatore o un rivoluzionario perché diffida da
ogni diritto nuovo.
E’ dunque impensabile credere che egli volesse sbarazzarsi del proprio strumentario consueto,
ed imparare da capo un diritto sconosciuto: il fatto che il corpus iuris fosse così idealizzato,
rendeva arduo ogni tentativo di progettare una alternativa al sistema tradizionale.
Fu dunque in questo senso che il giusnaturalismo sbloccò la situazione, offrendo un sostegno ai
governi assoluti: i sovrani si sentirono spiegare perché fossero legittimati ad intervenire con
riforme radicali e come dovessero intervenire.
Secondo il giusnaturalismo, il contratto sociale era stato un atto di sottomissione al monarca, ed
un riconoscimento della superiorità delle ragioni dello stato rispetto agli interessi degli individui
e dei ceti. Era proprio questo patto, stipulato per il bene della società, ciò che giustificava
l’esigenza di unificare ogni potere, a cominciare da quello legislativo, nelle mani di una autorità
suprema.
A compiere questo intervento legislativo, però, non doveva essere un legislatore qualunque,
bensì un legislatore illuminato: siamo nello stadio in cui giusnaturalismo entra nella fase
illuministica della sua evoluzione, mettendo a punto ciò che i sovrani avrebbero dovuto fare o
non fare, in cambio della delega loro concessa. Le teorie giusnaturalistiche erano state accolte e
rielaborate in vario modo da molti intellettuali illuministi d’europa, che si erano proposti come
interlocutori e consiglieri dei monarchi: in questo modo, essi, accentuavano gli aspetti non solo
utilitaristici delle dottrine sul contratto sociale, ma anche quelli liberali:
questo era in sintonia con le attese di quella minoritaria borghesia d’ancien regime, interessata
alla libertà di opinione e di iniziativa economica: costoro scorgevano nel diritto della ragione più
che un complesso di regole intese in senso oggettivo, un insieme di diritti soggettivi dei quali
l’individuo gode in vista del proprio utile (quali la libertà di possedere, la libertà di contrattare, la
libertà di professare le proprie convinzioni religiose..) In questa prospettiva, la codificazione
diventava una positivizzazione di questi diritti, e cioè uno strumento per organizzare in modo
razionale una società fondata sugli interessi naturali individuali.
Si poteva però persuadere in questo senso il potere assoluto?
Sicuramente, in quanto la certezza del diritto apportata dalla codificazione avrebbe rafforzato il
potere che l’avesse garantita: la codificazione, dunque, avrebbe significato acquisizione del
controllo dell’ordinamento positivo, che sarebbe stato sottratto una volta per tutte al monopolio
dei giuristi.
32
Anche se dunque, per lungo tempo, i sovrani assoluti avevano esitato a muoversi contro i ceti
loro alleati da sempre, ora le argomentazioni di queste élites culturali, che..
-evocavano un contratto sociale come matrice del dello stato
-e che offrivano la loro alleanza al potere politico,
apparivano convincenti.
Gli illuministi mostravano di sapere ciò che avrebbe potenziato lo stato assolutistico:
sapevano che, proclamando la libertà di culto per tutti, e l’uguale condizione di suddito
prescindendo dalla confessione religiosa, lo stato avrebbe ridimensionato il potere della chiesa,
che alla lunga, avrebbe al contrario esteso la propria ingerenza.
sapevano che, concedendo una generale libertà economica, e abolendo dogane interne e
monopoli commerciali, il sovrano avrebbe liquidato il potere delle corporazioni professionali.
In cambio di tutto ciò, si offriva agli illuministi e all’intera società l’effetto garantistico della
certezza del diritto: quando, cioè, si è governati da un codice fisso di leggi che si devono
osservare alla lettera, anche se una di esse può essere illiberale, essa darà comunque ai suoi
destinatari la libertà di compiere tranquillamente ciò che non vieta, permettendo loro di
acquistare sicurezza.
Dunque anche i privati avrebbero sperato, oltre che nella certezza delle nuove leggi, anche nella
loro bontà, perché poste da un despota obbediente ai principi di natura, da parte sua, il sovrano
avrebbe stabilito lui, insindacabilmente, quale fosse il bene dei suoi sudditi.
L’ASSOLUTISMO ILLUMINATO: CENNI ANTICIPATI
Tutto ciò ci agevola nel comprendere, nel complicato clima del ‘700 avanzato, la temporanea
alleanza tra alcuni sovrani assoluti europei e i riformisti cresciuti nell’ambito del giusnaturalismo.
Questa alleanza fu, cioè, un’intesa tra le due opposte forze dello statualismo autocratico
(=assolutistico) e dell’individualismo garantistico, volte entrambe a sostenere l’idea di
codificazione. Poiché di questa alleanza furono mediatrici alcune correnti dell’illuminismo, la
formula politica per definirla prese il nome di assolutismo illuminato, secondo una espressione
inventata dagli storici tedeschi di metà ‘800.
Anche se essa, dunque, era corrente ambigua, rappresentava, però, anche l’etica politica del buon
governo, che si contraddistingueva
-per la forte carica riformistica
-per il fatto di essere lo schema mentale operativo dei burocrati di corte
-per il dinamismo che trasfuse nei disegni politici dei despoti che si servirono di alcune dottrine
illuministiche.
Fu in questo modo che l’assolutismo illuminato cambiò per sempre il volto dello stato e del diritto
in alcune zone d’Europa, aprendo la strada al moderno stato di diritto: le tecniche di governo e i
moduli di razionalizzazione amministrativa creati dall’illuminismo, infatti, sopravvissero anche alla
sua fine, continuando a funzionare nel tempo anche nell’ambito di ordinamenti a struttura liberale.
E’ proprio in questa atmosfera culturale caratterizzata da opposte ideologie che il concetto di codice
prende corpo, concretandosi in monumenti legislativi, rispetto ai quali i sovrani illuminati dissero di
aver voluto tradurre il diritto di natura in norme positive. Il fenomeno della codificazione, punto di
svolta nella millenaria tradizione giuridica occidentale, ebbe inizio nei decenni dell’assolutismo
illuminato, costituendo il filo conduttore della politica del diritto dei sovrani che si erano appropriati
delle teorie dei lumi.
I codici avrebbero dovuto formalizzare il nuovo assetto della società, governata interamente dal
“paterno despota”: questo grandioso disegno volto a liquidare di colpo secoli e secoli di tradizione
giuridica in nome della ragione, però, nell’assolutismo settecentesco non riuscì che in parte, sia per
via di difficoltà tecniche intrinseche, sia per la resistenza della tradizione stessa.
Attorno al 1780, la monarchia asburgica riuscì a realizzare la codificazione del diritto penale e
processuale, nonché una parziale e provvisoria codificazione del diritto civile (il noto codice civile
33
Giuseppino). La lunghissima opera di progettazione del codice civile austriaco, iniziata per volontà
dell’imperatrice Maria Teresa nel 1753, si sarebbe conclusa solo nel 1811, secondo schemi tecnici e
presupposti politici lontani da quelli originari.
Per quanto riguarda la monarchia prussiana, invece, essa riuscì a terminare la codificazione del
processo civile, promulgando un celebre testo legislativo abbracciante il diritto civile, il diritto
penale, e alcune parti del diritto pubblico: l’Allgemeines Landrecht del 1794. Si trattava di un
capolavoro di tecnica giuridica, che però rimaneva legata, sotto molti aspetti, al particolarismo
giuridico-sociale d’antico regime.
Se, dunque, teniamo conto dei pochi codici entrati in vigore, il bilancio della codificazione
settecentesca appare piuttosto scarno. Tuttavia, il fatto che essa si fosse realizzata, fu il fenomeno
che costituì la base per la storia giuridica dell’ottocento europeo.
LA MAPPA DELLA CODIFICAZIONE ASSOLUTISTICA: LA GRANDE ASSENTE
I paesi europei interessati alle codificazioni promosse dall’assolutismo illuminato, dunque, furono
essenzialmente dell’aria germanica.
Aggiungiamo a questi il Regno di Napoli e gli Stati italiani soggetti agli Asburgo (e cioè
Lombardia e Granducato di Toscana), investiti dal riformismo legislativo avviatosi nell’impero
austriaco.
Teniamo conto anche degli echi dell’illuminismo registratisi in Russia e in Polonia, in cui i
rispettivi sovrani abbozzarono un qualche programma di riforma legislativa.
Resta, però, completamente fuori dal campo dell’assolutismo illuminato la FRANCIA, culla
culturale dell’illuminismo, che poi si era diffuso in tutta l’europa. Essa…
-pur vantando la legislazione accentratrice di Luigi 14
-pur essendo il paese di Pothier, le père du code civil
-pur essendo la patria dell’enciclopedia e la terra da cui si erano irradiate le teorie di Montesquieu,
Voltaire, e Rousseau
non conobbe codici dell’assolutismo.
Questo mancato appuntamento con la storia è tanto più singolare, quanto pensiamo che, già nella
Francia del 17° secolo, il Re Sole, Luigi 14, era divenuto famoso per la formula l’état c’est moi.
Dunque, non è cosa semplice spiegare i motivi dell’assenza della monarchia francese
all’appuntamento con la codificazione, spiegazione che appare ancora più difficile se guardiamo al
comportamento di due sovrani come Luigi 15 e Luigi 16
-che rivendicano un potere supremo affidato loro da Dio,
-e che sono entrambi grandi riformatori e modernizzatori
Ma le pur radicali innovazioni introdotte dalla monarchia francese, risultarono comunque
disorganiche, disordinate ed incomplete: non inserite, cioè, in un progetto globale di riforma.
In particolare Luigi 16 si trovò a dover affrontare una crisi finanziaria di tipo esplosivo: alla
gravissima depressione economica che impoveriva il popolo, si accompagnava il malcontento
del Terzo Stato, e cioè il malcontento di quella larga fascia di sudditi che a differenza dei due
ordini privilegiati, sopportava pressoché interamente gli oneri di una irrazionale ed ingiustamente
distribuita imposizione fiscale. Fu così che:
-frustrato dagli instabili interventi di riforma economica e legislativa
-ostacolato dalla sistematica contestazione delle corti di giustizia che, da custodi delle leggi,
pretendevano di rappresentare la nazione
-danneggiato nell’immagine da numerosi scritti diffamatori, volti a screditarlo
-abbandonato, in ultimo, anche dal clero e dalla nobiltà (forze, queste, che diedero il via alla
rivoluzione)
il potere monarchico si trovò in una situazione disastrata. A proposito di questa situazione di
decomposizione del regno e di dissolvimento del carisma monarchico, si è perfino parlato di “prerivoluzione francese” e di “dispotismo della debolezza”. Ecco il motivo per cui in Francia
34
l’assolutismo illuminato non ha potuto trasformarsi in una forma politica compiuta e le teorie dei
lumi sono in gran parte rimaste enunciazioni astratte.
Fallita dunque il Francia la formula dell’assolutismo illuminato, perché la codificazione si avviasse
ci volle, invece, una rivoluzione. Rivoluzione che, al suo culmine, avrebbe liquidato l’assolutismo,
proclamando la legge, e non il re, sovrana della nazione: la loi, espressione della volontà generale, e
non le roi.
In Francia, il primo assolutismo che possiamo chiamare, approssimativamente, “illuminato”,
sarebbe stato quello di Napoleone Bonaparte.
Dunque, il filone francese del processo di codificazione del diritto in Europa, non passò attraverso
nessuna corte illuminata, ma ricevette forza dalla rivoluzione, e, finita questa, sfociò nel grande
code civil del 1804. Esso appare tanto più importante in quanto gli si affiancò, cosa che non
avvenne nell’area germanica, un simultaneo processo di costituzionalizzazione: il primo processo
di codificazione costituzionale, questo, avviatosi sul continente europeo.
C’è un collegamento tra le costituzioni rivoluzionarie e il codice civile, che mette la parola fine alla
rivoluzione in età napoleonica: Mentre infatti…
nelle costituzioni rivoluzionarie, ritroviamo come principale elemento dello stato liberale
ottocentesco il principio della divisione dei poteri
il codice civile è ispirato ai principi dell’uguaglianza e della pari capacità giuridica dei soggetti.
Esauritisi i filoni dell’assolutismo illuminato e quello rivoluzionario e poi napoleonico, il solo
legame che rimane col passato è da scorgersi nella basilare ispirazione romanistica delle
codificazioni sette-ottocentesche, che per questo loro carattere possono essere qualificate come
romanistico-borghesi.
Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.
35
PARTE SECONDA:
DIRITTO E POLITICA NELLA CULTURA DELL’EUROPA DEI LUMI
GennaroAcquario1980
SEZIONE I:
L’ILLUMINISMO GIURIDICO
Il tribunale della ragione
ILLUMINISMO IN GENERALE E “ILLUMINISMO GIURIDICO”
Le parole di Gaetano Filangeri, illuminista napoletano di fine ‘700, che disse che “la legislazione
era l’oggetto comune di coloro che pensano” ci suggeriscono cosa sia stato l’illuminismo giuridico.
Mentre l’illuminismo, e cioè quella corrente della storia giuridica europea che occupa la seconda
metà del ‘700, infatti, era caratterizzato dal diritto (“la legislazione”), e dallo spirito raziocinante
delle élites culturali (“coloro che pensano”),
l’illuminismo giuridico non è caratterizzato da questi due elementi considerati singolarmente,
ma dal fatto che essi costituiscano una coppia: coloro che pensano (le classi colte), collocano il
diritto tra i temi primari delle loro riflessioni.
Non è cosa semplice dare una definizione sintetica dell’illuminismo, movimento di pensiero il cui
nome corrisponde:
-al tedesco: aufklarung
-al francese: lumières
-e all’inglese: enlightenment
L’illuminismo, più che una dottrina con un unico ed eterogeneo significato, è un atteggiamento
mentale. Di solito ci si riferisce alla formula in cui Kant, rispondendo al quesito su cosa fosse,
appunto, l’illuminismo, disse: “sapere aude!” (“Abbi il coraggio di servirti della tua personale
intelligenza!”).
Kant intende l’illuminismo come l’uscita dell’uomo da uno stato che non è mancanza di ragione,
ma mancanza di coraggio di servirsene.
Se, tuttavia, intendiamo quel “sapere aude!” come coraggio di pensare da sé, come invito, cioè, a
ricercare una verità non dogmaticamente precostituita da autorità esterne, allora questa formula può
benissimo rappresentare un illuminismo che si esprime in un progetto emancipatorio dell’umanità:
la conquista dell’autonomia intellettuale dell’uomo e la libertà da ogni autorità che voglia imporgli
e rivelargli la verità.
Questa idea di Kant dell’illuminismo come coraggio di servirsi della propria personale intelligenza,
però, contiene delle inquietanti possibilità di sviluppo:
In quanto progetto liberatorio esclusivamente umano (perché privo di ogni legittimazione divinorivelata), l’illuminismo possiede capacità nichiliste.
Se l’uomo è l’unico padrone del proprio pensiero…
allora egli lo è anche dei propri giudizi:
La morale che egli può darsi, cioè, può identificarsi
-o in un umanesimo di stampo cristiano, ma secolarizzato (come avviene proprio con Kant)
-o nella morale dell’assenza di ogni morale (come avviene, ad esempio, con Sade).
spetta ad una elite di filosofi il compito di guidare filantropicamente l’umanità verso la
liberazione:
36
questo elitismo pedagogico, però, può capovolgersi negativamente, risolvendosi nella pretesa di
educare le masse dall’alto, attraverso tecniche di manipolazione.
L’illuminismo, dunque, ha due volti:
-uno umanisticamente nobile
-l’altro pericolosamente oscuro
Tuttavia, questo straordinario fenomeno culturale non può essere spaccato in due, perché frutto
dell’inestricabile pensiero occidentale.
Secondo gran parte degli illuministi, le capacità della ragione umana
sono contenute entro i limiti dell’esperienza: ogni ipotesi metafisica che trascende il mondo
sensibile direttamente osservabile, è al di fuori dalle possibilità di conoscenza e di dominio
dell’uomo e dunque, appartenendo al mito, l’uomo deve rinunciarvi.
ma sono grandi entro i limiti dello studio sperimentale: l’uomo deve liberarsi dalla
soggezione ai dogmi e alle credenze che non hanno fondamento nella ragione, bensì nella
tradizione o nella rivelazione. Dunque nell’ambito di una (pur se problematica) ricerca della
verità, la ragione ha il primato sulla tradizione e sulla rivelazione.
Di solito si imputa all’illuminismo anche un radicale antistoricismo, e cioè un rifiuto del passato,
da considerarsi come una realtà che deve essere superata del tutto.
In realtà, però, il vero bersaglio della critica illuminista non è tanto la storia, concepita come un
progresso ininterrotto delle facoltà umane, ma la tradizione, e cioè quel bagaglio di regole ed
opinioni ricevute dal passato senza un controllo critico della ragione.
Alla volontà di porre il sapere proveniente dalla tradizione al vaglio della ragione, si collega il
tipico atteggiamento pragmatico dell’illuminismo: la cultura illuministica, infatti, è più pratica che
speculativa (riflessiva).
L’illuminismo, progetta una nuove immagine del mondo, antropocentrica e desacralizzata.
Questa corrente vuole,
-attraverso il potere illuminante della ragione
-attraverso il sapere tecnologico
-e attraverso la sua attitudine sperimentale
trasformare attivamente il mondo e
rigenerare l’uomo, creatura perfettibile.
o Mentre a volte, però, questa rigenerazione è intesa negativamente, quale, cioè,
manipolazione dell’uomo stesso, concepito come oggetto passivo di trattamenti
pedagogici.
o Secondo altre correnti, il concetto di rigenerazione degli individui si ispira ad ideali
umanitari, nel senso che l’uomo deve essere illuminato dai detentori del sapere
-sulla propria libertà e
-sulla propria autonoma capacità di crearsi una identità
In ogni caso, l’illuminismo si concreta in un dibattito avviato da un variegato gruppo di intellettuali,
(i philosophes), che considerano le loro idee e i loro scritti come un’arma
-per il rinnovamento della società e
-per il potenziamento delle facoltà dell’uomo.
La forza del movimento illuminista, è l’idea di progresso [o come la chiama Condorcet, “la marcia
dello spirito umano”]. Per progresso si intende la convinzione che l’umanità possa essere fatta
progredire verso forme di benessere e di incivilimento via via sempre più elevate. In una parola, la
convinzione che l’umanità possa essere fatta progredire verso la felicità.
Questo progresso, naturalmente, non è affidato ad una insindacabile provvidenza soprannaturale ma
ad un progetto razionale…
-controllato dall’uomo e
37
-ispirato al principio di utilità: la morale illuministica è fortemente utilitaristica: l’agire umano è da
ritenersi tanto più giusto quanto più esso sia diretto al perseguimento della felicità. In questa ottica,
bene e male coincidono con ciò che è utile o nocivo alla società, intesa come una società
pienamente realizzata. E’ dunque interesse dell’uomo essere virtuoso, perché la virtù, che si
acquisisce attraverso l’uso della ragione, è la sola cosa che ci permette di vivere la nostra vita meno
male.
E’, questa, una utopistica matematizzazione della morale.
Uno spiccato spirito di riforma mette l’illuminista nell’ottica di poter fabbricare un nuovo tipo
morale e civile di uomo, attraverso una educazione programmata.: occorre riformare, secondo i
principi dettati dalla natura, il complesso delle istituzioni che disciplinano l’esistenza associata,
MA, POICHE’ OGNI RIFORMA COSTA UN PREZZO, E NON SONO IMMAGINABILI TRASFORMAZIONI
INDOLORI…
non si può aspirare a riformare il sapere tradizionale, senza che questo comporti il sovvertimento
delle basi secolari su cui si poggia
non si possono progettare nuovi modelli di società improntati all’utilità e alla felicità, senza
mettere in conto una riprogettazione che coinvolga anche l’ordinamento in cui si vive.
Ecco perché, nei discorsi degli illuministi, la parte progettuale è sempre bilanciata da una parte
distruttiva, da una polemica contro i valori medievali che sostengono l’assetto sociale di antico
regime, caratterizzato dalla tradizionale alleanza di trono e altare, di stato e chiesa. Riformare
questo assetto, significa cambiarlo radicalmente.
• E’ in questa ottica che va inquadrata l’idea illuministica di laicizzazione e
razionalizzazione dello stato, e cioè:
-al sovrano viene negata la legittimazione sacrale che la tradizione da sempre gli aveva
conferito
-va proclamata, invece, la natura giuridica dello stato, vale a dire la sua specifica natura di
strumento giuridico per realizzare il bene comune.
Con l’illuminismo, cioè, si configura un assolutismo di nuovo stampo: il potere del sovrano
non è più fondato sulla volontà divina, ma è fondato sul contratto sociale, e cioè sulla delega
che i consociati hanno conferito al monarca, affinché questi assicuri il bene dei suoi sudditi.
Il re, insomma, non viene che ad essere un servitore dello stato.
• In questa luce si colloca anche l’idea di riduzione del potere ecclesiastico e
razionalizzazione della religione. A seconda delle correnti, l’illuminismo ha un diverso
rapporto con la religione:
l’illuminismo francese tende a privare la religione dell’autorità di sapere rivelato,
mirando a ridurla
-o a strumento utile ad assolvere una funzione di disciplinamento sociale
-o a mero fanatismo
l’illuminismo delle aree spagnola e germanica, invece, non assume mai i caratteri di
campagna apertamente antireligiosa:
-nella Germania protestante e cattolica, l’obiettivo è quello di purificare e semplificare la
religione, insistendo dunque sulla dissociazione tra scienza e fede
-nei territori del cattolico impero austriaco, invece, ove l’ingerenze dello stato sulle
questioni ecclesiastiche è sempre più forte, il deismo o l’ateismo francesi sono respinti
come moralmente pericolosi.
• Diversificato nelle sue differenze nazionali e nelle opinioni dei singoli esponenti,
l’illuminismo non si identifica in un coerente sistema filosofico dottrinale, ma è piuttosto
una mentalità, il modo di ragionare tipico della intellettualità settecentesca europea, e frutto
dei ragionamenti di moda presso questa stessa intellettualità.
E poiché l’illuminismo sottopone in primis il diritto al vaglio della ragione, ecco che nelle
accademie, nei salotti di conversazione, nei circoli culturali prendono a circolare quelle
38
teorie relative al diritto che noi chiamiamo illuminismo giuridico: diritto come “oggetto
comune di coloro che pensano”.
Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.
L’ILLUMINISMO GIURIDICO: CARATTERI COMUNI E DIFFERENZIAZIONI INTERNE
NEL GIUDIZIO DELLA STORIOGRAFIA
Come non è possibile dare una definizione esauriente dell’illuminismo in generale, così non è
possibile trovare una formula unitaria che indichi i caratteri essenziali dell’illuminismo giuridico.
Se dunque non si vuole rinunciare all’uso di questa espressione, occorre accogliere l’idea che questi
philosophes abbiano condiviso un determinato patrimonio di concetti generali relativi al diritto.
Nonostante ciò, tuttavia, appare difficile accertare se questo complesso di idee comuni ha generato
una dottrina provvista di una propria unità di fondo.
A) Mario Cattaneo è lo studioso che è riuscito ad approfondire di più questo studio.
Egli è partito dalla constatazione che l’illuminismo ha ricevuto profonde influenze dal
giusnaturalismo, e in base a ciò ha individuato due presupposti fondamentali dell’illuminismo
giuridico:
-il postulato (=presupposto) razionalistico, che ispirerebbe la concezione illuministica del diritto
naturale
-il postulato volontaristico, che ispirerebbe la concezione illuministica del diritto positivo
• POSTULATO RAZIONALISTICO:
In base al primo postulato, l’illuminismo affermerebbe l’esistenza di un diritto naturale-razionale,
costituito da un complesso di principi universali di giustizia:
più che ad un diritto naturale, gli illuministi penserebbero ad una serie di diritti naturali della
persona umana (concezione soggettivistica del diritto naturale). Solo la ragione può insegnarci cosa
sia la giustizia, giustizia che a sua volta si traduce nel riconoscimento all’individuo dei diritti
naturali che ineriscono alla sua persona: diritto alla vita, diritto alla sicurezza, alla proprietà.. ecc...
• POSTULATO VOLONTARISTICO:
Il postulato volontaristico si collegherebbe, invece, alla nozione illuministica di diritto positivo: il
diritto positivo non è altro che la traduzione storica dei diritti naturali individuali, e consiste nella
manifestazione della volontà del legislatore statuale, volontà non arbitraria ma ispirata dalla
ragione.
Cattaneo ha osservato che la coppia diritto naturale-diritto positivo non dà luogo ad un contrasto,
ma ad un rapporto di equilibrio, lontano dall’odierna antitesi tra giusnaturalismo e positivismo
giuridico.
Questo rapporto è la sintesi fra giustizia e legalità:
da un lato si ha il primato della giustizia naturale, in quanto la legge è intesa come manifestazione
della razionalità giuridica
dall’altro si ha il primato della legislazione, in quanto la legge viene esaltata come unica fonte
dell’ordinamento positivo.
Siamo agli antefatti del positivismo giuridico che vedrà, poi, la sua nascita con la codificazione
napoleonica: comparso il codice civile napoleonico, si pretenderà prima che esso racchiuda la
giustizia naturale, ma poi che a quegli stessi principi venga negata una essenza giuridica. A questo
punto, quando sarà “diritto” unicamente la norma positiva, l’illuminismo giuridico avrà terminato il
proprio cammino.
39
-Cattaneo concepisce in termini di omogeneità l’illuminismo giuridico, dando importanza alle
sollecitazioni umanitarie e legalitarie che hanno finito per influenzare i diritti dell’uomo, dando il
via allo stato di diritto.
-Inoltre, la sua tesi ha il merito di mostrare che nel contesto delle varie teorie giuridiche
illuministiche, almeno due concetti, e cioè quello di razionalismo e quello di volontarismo, sono più
generalizzati degli altri.
B) Vi sono poi altri studiosi (come Giovanni Tarello), che considerano l’espressione “illuminismo
giuridico” come plurivalente (con più significati), e anziché dare rilievo ai caratteri di omogeneità,
sottolineano le differenze tra le molteplici dottrine illuministiche, che si sarebbero variamente
atteggiate a seconda delle specifiche realtà nazionali:
Secondo Tarello, la locuzione “illuminismo giuridico” è ingannevole, in quanto presupponendo
una lista di idee comune a tutti gli illuministi e a tutti gli ambienti politici europei, tende a suggerire
uno schema applicabile indistintamente a tutti costoro.
Questa lista di idee comuni, comprendente
-l’esistenza di diritti naturali dell’individuo che sono imprescrittibili
-la loro evidenza secondo il metro della ragione
-e la loro traducibilità in una legge chiara e certa
è invece il frutto di una razionalizzazione operata dal tardo illuminismo francese.
Secondo lui, dunque, occorre distinguere all’origine almeno due illuminismi giuridici:
quello di area germanica, in cui le teorie dei lumi ispirano un programma di governo definito
assolutismo illuminato, e divengono operative attraverso uomini con esperienza amministrativa
quello francese, costituito da un complesso di idee non ascoltate o comunque non tradotte in
pronti e risoluti interventi: in Francia le idee illuministiche non generano un assolutismo illuminato,
e perciò si prestano di più alla formulazione astratta, piuttosto che al realismo operativo. Prive di
influenza concreta, esse danno luogo non a dottrine di sostegno, ma a dottrine di opposizione
all’assolutismo.
Dunque queste due interpretazioni storiografiche (l’una che fa capo a Cattaneo, l’altra che fa capo a
Tarello), differiscono per il modo in cui si pongono, in quanto
-una, sottolinea le idee più ricorrenti nelle diverse dottrine giuridiche illuministiche
-l’altra, invece, sottolinea le differenze tra queste stesse idee, a seconda dell’ambiente in cui esse si
sviluppano (a seconda, cioè, che rimangano enunciazioni di una elite di intellettuali, o vengano
utilizzate dal potere politico).
Le due prospettive, dunque, si compensano l’una con l’altra.
DUE MODI DI PENSARE LE STESSE IDEE: IL CASO ESEMPLARE DELLA LOMBARDIA
AUSTRIACA, TERRA DI ILLUMINISMO E DI ASSOLUTISMO ILLUMINATO
La Lombardia austriaca del secondo settecento, costituisce un esempio significativo di come le due
prospettive (quella che tende a comporsi entro gli schemi del razionalismo, e quella che invece si
carica di una diversa valenza ideologica a seconda di dove opera) si compensino tra loro: infatti….
vi nasce una sorta di “summa” delle idee più diffuse fra gli illuministi francesi
di queste idee piene di potenzialità liberali, tuttavia, si impadronisce il potere assoluto, che le
rende poi funzionali alla propria politica del diritto.
A Milano, un gruppo di patrizi intellettuali accoglie e propaganda le idee riformistiche dei
philosophes francesi:
• Pietro e Alessandro Verri, danno vita ad un salotto di conversazione (l’Accademia dei
pugni) e ad un giornale satirico e battagliero (Il caffè): sono giovani, questi, che si concepiscono
come una elite pensante, capace di formare l’opinione pubblica sulle nozioni di giustizia e di
bene comune.
40
• Uno di questi illuministi, Cesare Beccaria, rielabora le teorie giusnaturalistiche e
utilitaristiche sintetizzandole così bene che il suo libro, Dei delitti e delle pene, diviene un po’ il
manifesto in cui tutto l’illuminismo europeo, per un verso o per l’altro, si riconosce. Le sue
teorie giuridiche, influenzano anche i sovrani austriaci, concordi sulla necessità di sottomettere
ad un’unica legge e ad un’unica giurisdizione l’intera società, eliminando il sistema dei
privilegi: questo farà venire meno le prerogative del ceto togato, delle chiesa, degli ecclesiastici,
della nobiltà feudale sulle masse contadine…
Dunque queste idee dei lumi, importate prima in Lombardia, e poi diffusesi a Vienna,
trasformano il tradizionale dispotismo austriaco in un assolutismo illuminato, diventando il
credo politico di Casa d’Austria.
Queste nuove idee, tuttavia, sono accolte dalla corte di Vienna per quanto erano utili
all’assolutismo: venne cioè depotenziata la loro valenza individualistica, in favore di quella
statualistica.
Così, le riforme varate da Giuseppe II, appaiono concepite secondo uno schema pianificato
esclusivamente dal sovrano, che determina lui stesso contenuti e limiti delle libertà dei sudditi,
risultando dunque delle riforme estranee a coloro che le avevano invocate:
gli intellettuali milanesi, ai quali pareva possibile l’alleanza con un potere politico da loro
illuminato, avevano chiesto, in base a quanto detto da Beccaria, un codice fisso di leggi da
osservarsi alla lettera, che garantisse la sicurezza dei cittadini. Si pensava, cioè, ad un legislatore,
che in vista del bene dei propri sudditi, codificasse quelle libertà che lo stato era tenuto a tutelare:
queste dottrine dell’illuminismo lombardo, cioè, autorizzavano sì il sovrano ad esercitare una piena
autorità, ma solo subordinatamente a premesse liberali.
Tuttavia, sia i codici effettivamente promulgati in Lombardia, sia quelli che il sovrano austriaco
programmò di porre in vigore, furono elaborati ispirandosi ad un illuminismo germanicizzato,
accolto, cioè, in funzione del potere accentrato e soffocante del despota.
Eppure erano proprio i punti fermi del liberalismo dei Verri e Beccaria (primato della legge,
certezza del diritto, subordinazione del giudice alla legge) i principi che stavano alla base di questi
testi legislativi, anche se poi era esclusivamente la volontà del sovrano a fissare i diritti dei sudditi e
la misura del loro esercizio.
Il monarca assoluto, cioè, non aveva avuto bisogno dei philosophes come autori di una propaganda:
Cesare Beccaria, luminare della scienza dei delitti e delle pene, si vide consegnare il severissimo
codice penale Giuseppino a lavoro finito, già tradotto in italiano. Era questo l’assolutismo
illuminato!!!!
ALLE RADICI COMUNI DI ILLUMINISMO E ASSOLUTISMO ILLUMINATO: IL
CONTRATTUALISMO
Proprio per via della sua particolarità dunque, il caso della Lombardia austriaca permette di fare
qualche osservazione sull’entità dell’illuminismo giuridico.
L’etica politica dell’assolutismo illuminato prussiano e austriaco e l’etica di molti illuministi
d’ambiente o ispirazione francese, hanno una base comune, perché entrambe le culture si nutrono
del pensiero giusnaturalistico: questa teoria politica comune si può individuare nella dottrina
sull’origine contrattuale dello stato. L’idea di fondo è che l’individuo sia il perno della società: i
singoli uomini, unitisi, hanno creato, attraverso il contratto sociale, l’ordinamento politico, ponendo
fine allo stato di natura. Dunque lo stato ha ricevuto il potere che esercita non per diritto divino, ma
grazie al consenso degli individui, potere, questo, necessario a provvedere alla sicurezza e al
pacifico godimento dei diritti dei membri che lo compongono.
In questa concezione dei rapporti individuo-stato, si ritrovano…
-sia le premesse della teoria liberale dello stato di diritto
-sia le premesse di una moderna e razionale esaltazione dell’assolutismo.
41
Dunque individualismo e statualismo, due termini agli antipodi, si ritrovano ad essere strettamente
congiunti. E’ proprio a partire da questo nodo, che l’illuminismo giuridico si scinde in correnti
differenziate:
da una parte i vari filosofi e accademici, che sognano di far coincidere volontà del legislatore e
principi di natura
dall’altra i programmi operativi dell’assolutismo riformatore. Sono, questi, programmi basati
sulla logica del servizio:
-se gli individui (e cioè il popolo), hanno delegato al sovrano il compito di assicurare il bene
comune e i diritti di ciascuno, al sovrano spetta un potere incondizionato per adempiere il compito
che gli è stato affidato.
-a questo potere, tuttavia, corrisponde un obbligo altrettanto ferreo: quello di emanare leggi certe
per quanto riguarda i diritti dei singoli e il bene della società civile, leggi che, una volta promulgate,
debbono essere rispettate non solo dal giudice, ma anche dal sovrano stesso.
E’, cioè, il sovrano, l’unico incontrollato interprete del bene dei sudditi: egli, dunque, si postula al
servizio dello stato, e non gli basta concedere ai suoi sudditi la libertà necessaria a che ciascuno di
essi cerchi la propria felicità personale, ma ha il dovere di dire come devono essere felici: così, il
bene dei sudditi diventa ciò che il sovrano vuole che il popolo voglia.
L’esito paradossale dell’etica del servizio risiede nel fatto che tutto è nelle mani del suo “servitore”.
Non avrebbero, altrimenti, altro significato le definizioni che tanti sovrani danno di se stessi:
Giuseppe II d’Austria, “primo impiegato dello stato”.
Leopoldo II (suo successore), “il sovrano non è che un delegato e un impiegato del popolo”.
Federico II di Prussia, “domestico dello stato”.
Antropologia e diritto nell’illuminismo
LA NOSTRA LETTURA DELL’ILLUMINISMO GIURIDICO IN PROSPETTIVA
ANTROPOLOGICA: DIRITTO E PROBLEMA DELLA LIBERTA’ DELL’UOMO NELLA CULTURA
DEL TARDO SETTECENTO
Se Cattaneo ha individuato i due postulati più comuni, ritrovabili generalmente a fondamento
delle dottrine illuministiche, e cioè
-quello razionalistico (diritto naturale)
-e quello volontaristico (diritto positivo)
e Tarello ha invece sottolineato il diverso atteggiarsi di queste dottrine, in funzione dei vari
programmi e delle varie politiche del diritto…
noi, invece, porremo sotto osservazione le anime dell’illuminismo utilizzando una ulteriore
chiave di lettura: cercheremo, cioè, di spiegare attraverso quali percorsi gli illuministi si siano
accostati al “fenomeno diritto”, individuandolo come una problematica di fondamentale interesse.
1. POLITICA E VALORI
La politica è la sede principale in cui si realizza il valore della giustizia: la giustizia si concretizza
nel momento in cui realizza la maggiore felicità pubblica possibile (secondo la formula
dell’illuminista irlandese Francis Hutcheson “The greatest happiness for the greatest number”).
E’ proprio l’accoglimento di questa formula il primo grande punto dell’illuminismo giuridico.
Tuttavia, ci si trova di fronte ad un serio interrogativo, e cioè quello dato dal chiedersi se ciò che è
utile ai più sia automaticamente anche sempre giusto.
Anche se ne parleremo successivamente, ci saranno…
coloro che ripudiano la formula giusto=utile comune= bene
e coloro che, invece, manterranno ferma quella formula
42
Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.
2. DIRITTO E ARTE DELLA LEGISLAZIONE
La politica deve realizzare l’obiettivo del bene comune attraverso il diritto, termine che designa il
modo di organizzare razionalmente l’esistenza associata (in quanto tra gli uomini non ci può essere
giustizia senza diritto).
Il nesso tra diritto e massima felicità dei cittadini (ossia l’equazione diritto buono=felicità=giustizia)
è un dogma del pensiero settecentesco.
Quella del sovrano legislatore/benefattore/artefice, insomma, è una immagine centrale
dell’illuminismo. Tanto che Helvétius, uno dei padri dell’illuminismo francese, chiama…
-capolavoro delle leggi, la felicità pubblica e
-arte della legislazione, la capacità del legislatore di far convergere nelle legge il piacere egoistico
degli individui.
3. BASILARITA’ DELL’OPINIONE PUBBLICA
Ciò che “costruisce” il potere e gli dà il monopolio del diritto, tuttavia, è l’opinione pubblica che, a
sua volta, deve costruirsi ed organizzarsi: infatti, è proprio l’opinione pubblica ciò che procura al
legislatore il consenso ad agire da parte del popolo, legittimatore supremo delle scelte politiche.
4. ELITISMO PEDAGOGICO
E’ dalla premessa dell’opinione pubblica, che deriva l’idea della aristocrazia della cultura e del
ruolo primario degli intellettuali nella società. Gli intellettuali, infatti, sono i costruttori
dell’opinione collettiva e i mediatori delle decisioni dell’autorità per il bene comune.
Costoro, cioè, sono contemporaneamente:
-gli elaboratori delle ideologie di sostegno al potere
-i programmatori della gestione del diritto
Il cuore dell’illuminismo, infatti, è proprio questa congiunzione di sapere e potere attraverso il
diritto.
La Frase di Filangeri “La legislazione è l’oggetto comune di coloro che pensano” esprime al meglio
l’idea degli illuministi secondo i quali esiste una ristretta minoranza pensante, da loro costituita, che
svolge una funzione pedagogica nei confronti di un duplice interlocutore:
nei confronti del sovrano, a cui essi indicano gli obiettivi e i mezzi giuridici ottimali per
raggiungerli
nei confronti del popolo, che deve essere educato a capire l’essenza della felicità perseguita dalla
legge.
Questa idea, dunque, del controllo dei processi educativi come compito esclusivo di una minoranza
colta prende il nome di elitismo pedagogico.
5. L’INFANTILIZZAZIONE DELLE MASSE
E’ chiaro che l’elitismo pedagogico sia in grado di conferire potere ad una oligarchia di intellettuali
e di politici legittimati a decidere per tutti. Secondo lo storico francese Martin, ciò si traduce in una
infantilizzazione delle masse, considerate come incapaci di compiere, da sole, scelte razionali.
Altro luogo comune della cultura illuministica, è il compatimento per le masse che non sanno e che
dunque debbono essere abituate alla libertà da coloro che pensano:
secondo Voltaire, il popolo francese sarà sempre un popolo debole ed ignorante, bisognoso di
essere guidato dal piccolo numero degli illuminati.
43
Federico II di Prussica, si ritrova perfettamente d’accordo con quanto detto da Voltaire, tanto che
sostiene che il popolo deve essere trattato come un bambino ammalato.
6. PEDAGOGIA E PERFETTIBILITA’ DEL GENERE UMANO
Si parla di perfettibilità del genere umano, e della sua progressiva elevazione morale come frutto
di un opportuno trattamento pedagogico, quando ci si riferisce all’idea del progresso umano come
opera della ragione. In questo concetto rientra:
-il fatto che un gruppo elitario di pensatori possa modellare con i propri scritti l’opinione pubblica,
guadagnando il potere politico di cui ha bisogno attraverso una opportuna propaganda.
-la pretesa di illuminare il potere politico sul bene collettivo da perseguire con le leggi
-la certezza che il popolo, immaturo e mosso da spinte puramente sensibili, debba essere innalzato
alla virtù, e cioè a comprendere come si possano raggiungere libertà e felicità.
Dunque, riassumendo, abbiamo a che fare:
con l’idea di una elite che pensa per conto della massa, stabilendo ciò che per questa è utile,
buono e giusto
con l’immagine del legislatore illuminato, che fa funzionare al meglio una società di sudditi
virtuosi
con il concetto di perfettibilità
con l’ottimismo sul progresso dell’umanità attraverso l’educazione.
7. IL PROBLEMA DELLA LIBERTA’ DELL’UOMO: ANTROPOLOGIE RIDUTTIVE
Se l’uomo, tuttavia, è totalmente modificabile attraverso tecniche educative mirate a perfezionarlo,
qual è allora la sua natura originale? E’ egli un essere pre-morale, passivo e manipolabile, che può
essere fatto oggetto di una omologazione forzosa?
Molti illuministi, specialmente quelli francesi, risolvono il problema della libertà dell’uomo in
termini riduttivi:
secondo gli illuministi francesi, infatti, nella natura dell’uomo di innato non c’è la libertà, ma una
predisposizione ad essere educato alla felicità, predisposizione che, tuttavia, deve essere attivata
attraverso l’intervento benefico dello stato, creatore di giustizia.
l’illuminismo d’area germanica, invece, accoglie la dottrina del contratto sociale, collegandovi
l’idea della necessaria libertà degli individui, identificata in un ideale stato di natura: si spiega in
questo modo il perché sia necessaria una concreta azione di governo per condurre i sudditi ad essere
liberamente felici in una giusta società.
Certo, vi sono delle ECCEZIONI anche in ambiente francese:
la più importante è quella costituita dal pensiero di Jean Jaques Rousseau, che crede
nella originale libertà dell’uomo, inteso non come un essere passivo, ma come un essere
attivo ed intelligente. .
Risulta inquietante, tuttavia, il fatto che Rousseau conceda talvolta poteri di manipolazione
psicologica
-al precettore, che deve educare il fanciullo ad esercitare la sua libertà
-al legislatore, autorizzato ad obbligare i singoli individui a conformare la loro volontà alla
ragione.
Contraddizioni a parte, tuttavia, Rousseau resta un pensatore importante dell’ambito del
paesaggio dei lumi francesi.
Concezione antropologica decisamente meno ottimista di quella di Rousseau è quella di
Voltaire, che risolve in modo negativo il problema dell’immortalità dell’anima, postulando
che l’uomo dipenda da un “dio orologiaio” che lo ha creato esattamente come un
meccanismo, e lo ha abbandonato poi a se stesso: anche se dunque è vero che Voltaire si
interroga spesso sul problema della libertà dell’uomo, è comunque evidente il suo
complessivo scivolamento verso un determinismo privo di speranze.
44
“Siamo delle macchine fatte per andare per un po’ e come piace a Dio” dice Voltaire.
Altri giganti dell’illuminismo francese si spingono poco più in là:
Per Diderot la parola libertà è un termine privo di senso
Per D’Holbach, esponente dell’illuminismo materialista, invece, la libertà è una
chimera (=utopia), e l’uomo non è mai libero in nessun momento della sua vita,
perché è sempre guidato dai vantaggi reali o presunti che egli pensa potrebbe trarre
dalle scelte che compie.
Anche per Helvétius l’uomo è un essere puramente fisico: secondo lui, dunque, le
idee che esso ha e le azioni che compie non hanno altri moventi che l’interesse
personale e l’amore di sé. Secondo lui, dunque, a prevalere è il lato fisico, tanto che
uomini e animali sono accomunati per quanto riguarda, invece, il lato morale:
-se si potessero fornire mani ai cavalli, questi avrebbero capacità umane
-e, al contrario, se l’uomo fosse stato dotato di zoccoli, sarebbe un animale.
Ci troviamo dunque di fronte al primato delle pulsioni, e alla concezione che la
ragione sia solamente uno strumento accessorio e servente rispetto alla volontà: è
così che, sommando i vari scopi particolari, si possono individuare gli scopi generali.
Questo filone c.d. sensistico dell’illuminismo, si sostanzia in un materialismo
meccanicista, che nega il libero arbitrio all’uomo, riducendolo a un fascio di
sensazioni, e dunque ad una macchina manovrata da chi ne conosce bene le pulsioni
animali, e sa quindi sfruttarne positivamente gli istinti egoistici: una macchina
manovrata, insomma, da “coloro che pensano”.
Agendo sull’uomo in base ad un calcolo delle sue reazioni meccaniche, costoro
-sono in grado di educarlo fino a fargli credere di essere libero,
-e possono condizionarlo a sua insaputa inducendolo a comportarsi in un determinato
modo.
E’ da sottolineare il fatto, però, che “coloro che pensano” sono sottratti alle
condizioni proprie dell’uomo comune di passività e di programmazione
all’obbedienza:
semmai costoro rivendicano per sé (e non per tutti!) la libertà di fronte al potere,
privando così l’illuminismo di una delle principali caratteristiche che generalmente
lo connotano: la caratteristica individualistica, intendendo per “individualismo” la
rivendicazione, da parte dell’uomo, della libertà e della possibilità di
autodeterminarsi in quanto supremo diritto naturale che gli è proprio.
8. LE DOTTRINE ISPIRATE A UN UMANESIMO POSITIVO
Nonostante il filone sensistico, nell’illuminismo troviamo anche alcune dottrine antropologiche
meno riduttive quali, ad esempio, l’illuminismo lombardo di Pietro ed Alessandro Verri e di
Cesare Beccaria: anche costoro che in un primo momento ammirano i philosophes, infatti, si
muovono in bilico sul filo del sensismo, non percorrendo, però, questa strada fino in fondo.
9. LA GRANDE ILLUSIONE DELL’ILLUMINISMO
Se è vero che la concezione dei Verri e di Beccaria si distacca dal sensismo grazie alla
dissociazione tra la sfera morale e quella fisica, e tra quella della giustizia e quella dell’utile, è
altrettanto vero che la concezione dell’elitismo pedagogico resta presente anche nell’ambiente
illuminista milanese. L’elitismo pedagogico, infatti, è da considerarsi un mito. La più grande
illusione dell’illuminismo, cioè, è proprio il credere in una pedagogia giuridica della felicità, nel
perfezionamento delle virtù umane attraverso la legge, legge praticata da una elite di direttori di
coscienza dei monarchi e di costruttori dell’opinione pubblica.
L’illuminismo, in altre parole, non si è mai arreso
-a prendere atto dell’impossibilità di guidare la storia addomesticando il potere,
45
-né al fatto che il potere ha delle ragioni tutte sue, che sono spesso le ragioni della forza che, il più
delle volte, fagocitano le filosofie politiche che gli si accostano troppo.
L’esempio è quello di Voltaire, che intrattiene un ultraquarantennale rapporto con Federico II di
Prussia, di cui diviene commensale e consigliere letterario, e che si illude di poter influenzare,
esercitando su di lui il proprio fascino, e adulandolo. Caduto in disgrazia, riceve in cambio
solamente penose mortificazioni, e ne esce con l’ego distrutto. Agli intellettuali che lo
corteggeranno in nome della ragione, Federico II risponderà sempre: “ragionate quanto volete, e su
tutto ciò che volete, ma obbedite”.
Gli altri colossi dell’assolutismo illuminato, d’altronde, si muovono sulla stessa linea:
Alla intelligente, cinica e spietata Caterina di Russia ancora Voltaire si rivolge come all’eroina
nata per cambiare la faccia del mondo, professandosi sacerdote del suo tempio. Egli si ritroverà a
confessare, alcuni anni dopo, di essere stato preso in trappola dalla zarina, grande giocatrice al
tavolo della politica.
Stessa cosa vale per Giuseppe II d’Austria, sovrano discepolo della ragione, che per lungo tempo
medita sulle lezioni di efficientismo burocratico impartitegli dai consiglieri illuminati. Quando però
Pietro Verri, adulandolo, invoca fiduciosamente da lui la riforma volta a cambiare le mal
funzionanti istituzioni lombarde, egli si ritrova non solo deluso nelle sue speranze, ma anche
silurato da Giuseppe II che, da despota che si rispetti, ha sì ascoltato Verri e Beccaria, ma poi ha
agito secondo i propri piani autoritari, in vista del bene dello stato.
A dispetto di ciò, l’utopia del dialogo tra cultura e potere non è mai scomparsa dal pensiero
politico dell’occidente tanto che, nonostante tutto, si può scorgere in questa idea un nocciolo
positivo: il credere, infatti, che il potere possa considerarsi legittimo solo attraverso un sapere che lo
renda simile ad un ordine naturale-razionale, significa, in fondo, credere in una ideale armonia tra
etica e politica.
Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.
GRANDEZZA DEL LEGISLATORE, RELIGIONE DELLA LEGGE E CONOSCENZA DELLA
NATURA UMANA: IL PUNTO DI SNODO DELLE CORRENTI GIURIDICHE
ILLUMINISTICHE
Nel pensiero dell’illuminismo, abbiamo detto, la legge può funzionare come strumento di
rigenerazione sociale a condizione che il sovrano legislatore conosca esattamente i bisogni e la
natura dell’uomo, rapportando, appunto, ad esso le norme, in modo da perfezionarlo in vista del
bene comune.
Il punto di incrocio tra i configgenti itinerari della cultura illuministica, dunque, è proprio
l’antropologia che il legislatore deve presupporre, in quanto è in questo ambito che entra in gioco
la questione relativa all’esistenza o meno di diritti naturali umani.
Occorre dunque chiedersi, ora, quale sia la natura dell’uomo.
SENSISTI E MATERIALISTI
La natura dell’uomo è la condizione di un essere non libero, che meccanicamente è portato a
ricercare il piacere attraverso le proprie sensazioni.
Secondo i rappresentanti sensisti e materialisti dell’illuminismo, dunque, il legislatore deve
trasformare le pulsioni dei singoli in qualcosa di socialmente utile, in modo che gli uomini,
facilmente influenzabili, saranno portati a collaborare a loro insaputa alla realizzazione del bene
comune.
L’ILLUMINISMO LOMBARDO
La natura dell’uomo è quella di un essere non libero, ma capace di libertà grazie alla virtù innata
della perfettibilità:
spetta al legislatore-educatore, dunque, il compito di elevarlo alla libertà, garantendogliene
l’esercizio per contratto, in quanto..
46
in una comunità di uomini liberi, cioè che è socialmente utile, sarà anche socialmente giusto.
E’, questa, l’opinione di illuministi come Pietro Verri o come Cesare Beccaria, che dunque
percepiscono l’attività legislativa come perfezionamento del fondamentale diritto dell’uomo della
vocazione alla libertà.
LA CORRENTE WOLFFIANA
La natura dell’uomo, essere votato alla perfezione, è composta da un sistema di libertà e di obblighi
innati che egli ha, che corrispondono a inderogabili leggi naturali.
E’, questo, il credo degli illuministi d’area germanica, che si raccolgono sotto l’ala del razionalismo
wolffiano, a sua volta ispirato al pensiero di Leibniz.
Del razionalismo wolffiano occorre mettere in risalto alcuni punti chiave:
• attraverso una serie di sillogismi, è possibile dimostrare che tutti i diritti dell’uomo derivano
dalla sua natura
• non c’è contraddizione tra leggi naturali e cristianesimo
• il metodo dimostrativo che viene utilizzato nel diritto naturale deve essere reimpiegato nel
campo del diritto positivo, con la conseguente costruzione di un sistema di norme di diritto civile
perfettamente razionali.
• la trasformazione delle leggi che regolano la natura dell’uomo in leggi dello stato deve
avvenire per mezzo di un sovrano, che ha il compito di guidare tutti i sudditi a quella felicità
materiale e spirituale che spetta loro per natura.
I FISIOCRATICI
Il postulato “conoscenza della natura umanalegislazione conseguente a tale conoscenza” viene
accolto anche dal filone economico-giuridico dei fisiocratici.
Costoro asseriscono che le leggi di produzione e di circolazione della ricchezza di uno stato devono
obbedire ad un razionale ordine della natura: quella dei fisiocratici è una concezione del diritto
naturale incentrata sui diritto di proprietà e carica di potenzialità liberali (libero sviluppo della
produzione agricola, libertà di commercio ecc ecc…), MA
-l’asserire che una buona legislazione non sia altro che la riproduzione di un immutabile ordine
naturale, non fa altro che richiamare la prospettiva wolffiana.
IL FILONE ANGLO-SCOZZESE
Il filone anglo-scozzese sviluppa in modo ottimista le dottrine di Hobbes.
L’uomo è una creatura che si muove sotto la spinta delle sue passioni fondamentali, passioni, però,
che devono essere bilanciate con i fini sociali: un legislatore saggio, infatti, può conciliare queste
passioni con l’interesse pubblico, senza pretendere di rendere l’uomo virtuoso.
Se per Mandeville, la prosperità sociale dipende dal modo con cui chi governa sa indirizzare le
passioni umane attraverso regole di ordinata convivenza,
A.Smith, invece, parte dal fatto che il dato costitutivo dell’uomo sia l’egoismo: esso, tuttavia, è
indotto a partecipare alle passioni, alle gioie e alle sofferenze altrui immaginandole come proprie.
L’uomo di Smith, dunque, è un uomo centrato su se stesso, ma simpatetico con le passioni altrui,
con la conseguenza che
• le relazioni sociali non sono altro che rapporti tra soggetti attori e soggetti spettatori, con un
alternarsi dei ruoli.
• poiché gli attori hanno bisogno della approvazione degli spettatori, questo bisogno favorisce
le passioni socialmente approvabili e scoraggia quelle riprovevoli, con il risultato che l’intera
società nel suo complesso viene ad essere munita di un potere di autoequilibrio e di
autodisciplina.
47
MORELLY
Nel famoso “codice della natura”, Morelly vuole far ritornare l’uomo alla sue felicità originaria…
sopprimendo l’istituzione artificiale della proprietà
e istituendo un’organizzazione della società civile radicalmente egualitaria.
VOLTAIRE
La concezione volterriana dell’uomo oscilla verso un pessimismo negatore o riduttore della
libertà.
Dobbiamo tuttavia tener conto anche degli scritti di Voltaire studiatamente riservati al
grande pubblico, scritti che hanno dato vita ad un messaggio “patinato” che sopravvive
ancora ad oggi: in queste pagine, infatti, Voltaire mostra di accogliere l’idea di un diritto
naturale immutabile ed universale: affidato dalla natura a tale diritto, l’uomo nasce libero e
provvisto della capacità di distinguere il bene dal male e il giusto dall’ingiusto.
Chiamiamo “leggi naturali” quelle leggi che la natura rivela in tutti i tempi a tutti gli uomini,
e che sono volte a conservare la giustizia che essa ha impresso nei nostri cuori.
Voltaire condanna in blocco il diritto positivo, visto come la pura riformulazione di quello
naturale: esso non è altro che un caos di leggi contraddittorie e illiberali, fatte da legislatori
dominati dall’interesse politico. Occorre dunque che un nuovo legislatore promulghi un
diritto diverso, chiaro e semplice, come semplice è il diritto naturale.
Ancora una volta, dunque, troviamo il concetto che nessuna legislazione può essere buona se
il legislatore non la adegua alla conoscenza della natura dell’uomo.
ROUSSEAU
Rousseau, illuminista anomalo, non condivide affatto la concezione dell’assolutismo illuminato, in
quanto egli professa una (originale) dottrina politica, carica al contempo di valenze e democratiche
e totalitarie.
Per ciò che, tuttavia, riguarda l’onnipotenza costruttiva del legislatore, Rousseau si muove nella
direzione di tutti gli altri illuministi. Così come dice nelle pagine del contratto sociale…
l’uomo allo stato di natura è un bruto, un essere dotato di bontà congenita, ma guidato dal solo
istinto.
Ecco dunque
intervenire la stipulazione del contratto sociale, che dà inizio
-al comportamento razionale degli individui,
-allo stato
-e alla sovranità
profilarsi la figura del legislatore-meccanico, che ha il compito di inventare la macchina
dello Stato, e cioè il grande Tutto, composto da tutti gli individui associati.
apparire di nuovo il ritornello illuministico: chi è preposto all’organizzazione normativa
dello Stato, deve conoscere la natura originale dell’uomo, per cambiarla. Ciò che Rousseau
affida al legislatore, cioè, è la trasformazione dell’uomo da libero selvaggio in libero
cittadino.
CONDORCET
Il pensiero di Condorcet, uomo politico della Rivoluzione, radicalmente ateo e anticlericale, è in
senso cronologico ed ideologico, l’ultimo dei grandi illuministi.
48
Il suo credo è un po’ la summa dei moduli mentali ricorrenti nei diversi filoni dell’illuminismo, e
ciò spiega come nel suo “saggio di un quadro storico dei progressi dello spirito umano” si sia soliti
ravvisare un po’ il testamento dell’intero secolo dei lumi.
Ancora una volta torna l’assioma secondo cui la conoscenza della natura dell’uomo è condizione
fondamentale per una benefica legislazione:
egli è certo che…
-la conoscenza della dignità che appartiene ad ogni uomo
-e una educazione basata sulla conoscenza approfondita della nostra struttura morale
…renderanno i principi della giustizia comuni a tutti gli uomini.
Condorcet non enfatizza la figura del legislatore come quella di un impotente ed infallibile direttore
della condotta dei cittadini, in quanto egli proclama che “un redattore di leggi non è altro che un
uomo”.
UNA SINTESI: L’ESITO CONCLUSIVO DEL DIBATTITO ILLUMINISTICO SULL’UOMO,
LA SOCIETA’ E LA GIUSTIZIA
A partire dalla metà del 18° secolo, nasce una elite di intellettuali, “coloro che pensano”, che
ritroviamo in tutta Europa. Costoro si trovano particolarmente addensati nella città di Parigi, in cui
approdano anche influenze culturali germaniche, inglesi e italiane.
Questi philosophes hanno l’ambizione di illuminare il potere politico circa le riforme sociali,
economiche ed istituzionali da intraprendersi per il perseguimento del bene comune.
Se MOLTI di costoro predicano la dottrina del contratto sociale quale atto di cessazione dello
stato di natura e di fondazione dello stato, per mezzo della delega del potere politico al sovrano…
…TUTTI ritengono che lo strumento fondamentale per realizzare il bene degli uomini
nell’ambito della società sia il diritto.
Poiché si pensa che la gestione del diritto sia stata affidata esclusivamente al sovrano, si ritiene
che il diritto positivo sia la diretta manifestazione della volontà del sovrano stesso, e venga ad
identificarsi con la legge dello stato.
Tutto ciò si risolve in una gigantizzazione della figura del legislatore e in una sorta di religione della
legge: sono, questi due parametri, i denominatori dell’intero illuminismo.
A prescindere dalla diversità del loro pensiero, tutti gli illuministi si orientano secondo queste
prospettive:
• occorre porre in atto una riforma giuridica della società
• l’obiettivo è quello del bene comune
• la legge è il fondamentale strumento per il raggiungimento di questo obiettivo (religione
della legge)
• per realizzare il meglio del bene comune, la legge deve fondarsi su determinati presupposti
antropologici (deve fondarsi, cioè, sulla conoscenza della natura umana).
A questo punto, però, c’è una divaricazione di correnti:
• secondo alcuni, la legge deve adeguarsi alla natura umana (Wolff, Condorcet)
• secondo altri, la legge deve cambiare la natura umana
49
• una grande differenziazione si ha anche riguardo ai contenuti sostanziali della legge:
coloro che sono mossi dall’etilismo pedaogico, si illudono che i contenuti della legge
siano quelli della libertà individuale e della giustizia
i despoti illuminati, invece, si presentano come unici interpreti e servitori del bene
comune, nozione da loro accolta e trasformata in quella di “bene dello stato”: i contenuti
della legge si atteggiano in funzione di questa formula.
• La forza portante che ha mosso le varie correnti illuministiche verso un’unica direzione, e cioè
quella della discussione attorno al diritto, è stata la formulazione del concetto di codificazione e,
conseguentemente ad esso, il concreto avvio del processo operativo che ha condotto ai codici.
L’apparizione dei codici ha comportato:
-l’evoluzione dello stato ad unica fonte del diritto
-la subordinazione di dottrina e giurisprudenza alla legge
50
SEZIONE II:
I PILASTRI FRANCESI DELL’ILLUMINISMO GIURIDICO
Montesquieu
MONTESQUIEU: LA NOZIONE DI DIRITTO
Se è vero che l’origine di quasi tutte le teorie filosofiche dell’illuminismo francese si ritrova nel
pensiero inglese (principalmente in Hobbes, Locke e Hume)
è altrettanto vero che è in Francia che le massime illuministiche si sono sviluppate, diffondendosi
poi in Europa attraverso l’Enciclopedia e giornali di propaganda.
In Francia, dunque…
-non solo si trova la fonte di irradiazione dell’illuminismo in generale,
-ma si trova anche la culla dell’illuminismo giuridico.
Se immaginassimo l’illuminismo come un edificio ideologico, allora dovremmo prendere atto del
fatto che tre dei suoi quattro principali pilastri si trovano in Francia, e sono Montesquieu, Voltaire e
Rousseau. Il quarto pilastro è Beccaria.
Di MONTESQUIEU si può dire che egli interpreta il diritto, vale a dire che lo analizza e ne
classifica i meccanismi vitali: pressoché tutte le teorie giuridiche dei lumi hanno qualche radice
nella sua celebre opera “L’esprit des lois”, un capolavoro destinato a diventare la base del pensiero
giuridico europeo.
“Le leggi, dice Montesquieu, sono i rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose”: le
leggi, cioè, sono le regole che determinano i rapporti tra tutti gli esseri umani, secondo una logica
della natura. Queste leggi sono, ad esempio,
-l’istinto della pace,
-la ricerca del proprio sostentamento,
-l’attrazione sessuale,
-la disposizione alla socievolezza.
Come si può notare, dunque, si tratta di tendenze derivanti dalla conformazione biologica e
psicologica dell’uomo, e non da norme “di ragione”. Quello di Montesquieu, dunque, è un
giusnaturalismo di tipo non razionalistico, ma empirico: l’idea che esistano leggi universali di
giustizia dettate dalla ragione è esclusa.
Una volta che la società civile si è formata, le leggi naturali vengono sostituite da quelle positive.
Anche queste sono “i rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose”, in quanto è in esse
che si traducono le relazioni naturali e necessarie che si stabiliscono tra gli uomini.
Queste relazioni sono naturali e necessarie perché il loro contenuto è sempre necessariamente
determinato, in ogni società, da delle variabili empirico-naturalistiche:
-il clima del paese,
-la morfologia del territorio
-la religione
-la forma di governo (ecc ecc)
Dunque, secondo Montesquieu, le leggi sono sempre in un rapporto di imprescindibile dipendenza
con fattori geografici, sociali e culturali che le influenzano profondamente: esse, dunque, mutano da
popolo a popolo e da paese a paese in funzione di questi fattori ambientali.
Lo spirito di una legge, dunque, è il rapporto tra la legge e le variabili di cui si è detto.
MONTESQUIEU: LE FORME DI GOVERNO
51
In ogni società, la variabile principale con la quale le leggi entrano in contatto è la forma di
governo.
In ragione della sua struttura, ogni governo richiede certe leggi e non altre: ad esempio le leggi sul
diritto di voto sarebbero impensabili in uno stato autocratico, mentre sono necessarie in un governo
democratico.
La non corrispondenza delle leggi alla forma di governo comporterebbe il declino dello stato e la
decadenza della popolazione.
Montesquieu individua tre tipi essenziali di governo:
1. il governo repubblicano, in cui il potere appartiene
-a tutto il popolo (democrazia)
-o a parte del popolo (aristocrazia)
Il valore sociale fondamentale è la virtù, intesa come amore per la patria e per le leggi. Queste:
creano condizioni di uguaglianza giuridica ed economica tra i cittadini
comminano pene proporzionate ai delitti
sono applicabili alla lettera per mezzo di tribunali popolari
2. nel governo monarchico, fondato sul sentimento della fedeltà al proprio rango e al sovrano, ogni
potere deriva dal monarca, che governa, però, secondo leggi fisse in grado di limitarne l’azione.
Esse si rivelano tanto più consone a questa forma di governo quanto più favoriscono
l’ineguaglianza dei ceti sociali.
3. nel governo dispotico il potere è esercitato da una persona sola secondo la sua volontà e i suoi
capricci: mancano, cioè, delle leggi fisse.
In questo tipo di governo, un uomo solo è tutto, è gli altri sono nulla.
Il sentimento dominante nella collettività è la paura.
Qui le pene sono durissime e spietate, e gli uomini obbediscono ad un altro uomo “che vuole”.
MONTESQUIEU: LA NOZIONE DI LIBERTA’
Tutte le forme di governo, e dunque tutti gli stati, hanno lo stesso fine, e cioè quello di conservarsi.
A questo punto, tuttavia, Montesquieu opera una distinzione tra stati moderati e stati non moderati,
asserendo che “moderati” sono quehli stati che realizzano un certo grado di libertà (cosa che si
verifica nelle forme di governo repubblicano e monarchica).
Alla domanda che cosa sia la libertà, dunque, Montesquieu risponde dicendo che la libertà politica
non consiste nel fare ciò che si vuole MA
nel diritto di fare tutto ciò che le leggi permettono. E’, questo, il diritto di compiere, in piena
tranquillità, qualunque azione che non sia vietata dalla legge. L’individuo, cioè, è libero di agire nei
tanti modi leciti possibili, perché egli ha la garanzia che nessun altro cittadino potrà disturbarlo o
opprimerlo.
MONTESQUIEU: LE CONDIZIONI POLITICHE DELLA LIBERTA’ E IL PRINCIPIO DI
SEPARAZIONE DEI POTERI
Secondo Montesquieu la libertà è resa possibile da due requisiti:
un certo tipo di legge penale
un certo tipo di costituzione.
52
Per ciò che attiene a questo requisito, inerentemente allo stato moderato, capace di garantire la
libertà e di rendere impossibile l’abuso di potere, famosa è la teoria della separazione dei poteri,
poteri che in ogni stato sono invariabilmente tre: legislativo, esecutivo, giudiziario.
La libertà del cittadino dipende dalla dislocazione dei tre poteri presso organi diversi e separati.
Il fatto che queste tre potestà vengano attribuite in esclusiva ciascuna ad un organo determinato, e
il fatto che questo organo deve limitarsi all’esercizio delle attività rientranti nel suo ambito senza
invadere l’ambito altrui, assicura, per una sorta di meccanismo di reciproco controllo, che il
potere sia sempre limitato dal potere.
MONTESQUIEU: LA COLLOCAZIONE DEI TRE POTERI
POTERE LEGISLATIVO
Secondo Montesquieu, il potere legislativo dovrebbe essere nelle mani di tutto il popolo per intero.
Poiché, tuttavia, tutto ciò si dimostra impossibile sia nei grandi stati, che nei piccoli, allora occorre
che il popolo eserciti questo potere per mezzo dei suoi rappresentati, conferendo una delega a
costoro.
Inoltre, sostiene Montesquieu, sarebbe bene affidare il potere legislativo anche ai nobili,
permettendo loro delle assemblee e delle deliberazioni a parte, con il diritto di arrestare le
deliberazioni del popolo, come il popolo avrebbe il diritto di arrestare le loro (diritto di veto).
Montesquieu giustifica tutto ciò asserendo che se i nobili venissero confusi con il popolo, essi non
avrebbero interesse a difendere la libertà comune, in quanto la maggior parte delle deliberazioni
sarebbe contro di loro.
POTERE ESECUTIVO
Affidato ad un monarca, il potere esecutivo deve essere in grado di bloccare le iniziative del
legislativo, regolando la convocazione e la durata delle assemblee rappresentative. Questo perché,
altrimenti, il potere legislativo diventerebbe un potere dispotico, capace di annientare tutti gli altri
poteri.
Al contrario, invece, il potere legislativo
-non deve avere la facoltà di bloccare il potere esecutivo, in quanto avendo l’esecuzione dei limiti
per la sua stessa natura, limitarla sarebbe inutile, MA
-deve avere il potee di esaminare in quale modo siano state eseguite le leggi che esso stesso ha fatto
POTERE GIUDIZIARIO
Quanto al potere giudiziario, le osservazioni di Montesquieu si sostanziano nella famosissima teoria
della giurisprudenza meccanica, e nella integrale sottoposizione del giudice alla legge.
Il potere giudiziario, ad avviso di Montesquieu, non deve essere affidato ad un corpo permanente di
magistrati professionisti, ma deve essere affidato a persone del popolo che formino un tribunale che
duri solo quanto lo richiede la necessità.
In questo modo, non essendo il potere giudiziario legato ad un ceto, esso diventa, per così dire,
invisibile, tanto che si finisce col temere la magistratura e non i magistrati.
Dunque temporaneità e non professionalità della funzione giudiziaria.
La carica di giudice deve essere temporanea e non connessa a nessuna professione perché solo in
questo modo il magistrato è passivo di fronte alla legge, e perché solo così è possibile la garanzia
della libertà del cittadino. In caso contrario, infatti, i magistrati costituirebbero un ceto di funzionari
in grado di intervenire nella sfera del potere legislativo, fissando arbitrariamente regole giuridiche al
posto di questo.
MONTESQUIEU: LO STILE DELLE LEGGI
L’integrale sottoposizione del magistrato alla legge
53
e l’interpretazione come una meccanica attività dichiarativa,
dipendono interamente dalla preesistenza al giudizio di un diritto tassativo semplice, chiaro anche ai
non specialisti.
Un libro dell’esprit des lois, non a caso, è dedicato al modo di comporre le leggi:
nelle istruzione per la tecnica della legislazione, una importanza fondamentale è rivestita dalla
formulazione chiara dei precetti:
• Lo stile deve essere coinciso e semplice
• Nelle norme non devono comparire dettagli inutili o espressioni vaghe
• Essendo fatte per gente di mediocre intendimento, esse non devono essere troppo elaborate,
ma dovrebbero parlare come parla un padre di famiglia.
Riassumendo:
separazione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario
non professionalità del giudice
certezza della norma, chiara e precostituita al giudizio
natura meccanica dell’interpretazione.
MONTESQUIEU: LA CONCEZIONE DEL DIRITTO PENALE
L’altro requisito che Montesquieu considera necessario per ottenere la libertà è la bontà delle leggi
penali.
Ciò che deve interessare noi, tuttavia, non è tanto l’esatta interpretazione del pensiero penalistico di
Montesquieu, quanto la concorde interpretazione che i riformatori del diritto penale hanno dato
delle sue teorie, rifacendosi ad esse come ad un Vangelo di diritto penale.
Dalla bontà del diritto penale dipende la libertà del cittadino:
se da un lato, infatti, la posta in gioco è altissima, perché le norme interessano la vita stessa delle
persone
dall’altra, la libertà dei cittadini consiste nel poter fare senza paura tutto ciò che le norme non
vietano.
Occorre, dunque, che i comportamenti vietati e le norme che li puniscono siano tassativamente e
anticipatamente indicati: il postulato della certezza del diritto assume, in questo caso, particolare
vigore.
Tuttavia Montesquieu afferma che le leggi penali debbono essere non solo certe, ma anche buone, e
cioè non tiranniche.
♣ Tiranniche sono…
le leggi inutili, e cioè quelle leggi che, reprimendo comportamenti penalmente irrilevanti,
restringono l’area della libertà individuale senza che questa restrizione sia però necessaria.
le leggi che comminano pene crudeli, obbedendo ad una politica criminale di terrorismo
intimidatorio.
La severità delle pene, osserva Montesquieu, è più propria del governo dispotico, dominato dal
principio del terrore, che di quello monarchico o repubblicano, in quanto in queste ultime due forme
di governo ci si dedica di più a prevenire i reati piuttosto che a punirli.
le leggi che comminano pene non proporzionate al delitto.
Buone, invece, sono quelle leggi che istituiscono un rapporto razionale tra gravità del delitto e
severità della pena
54
♣ L’ossequio al principio proporzionalistico, porta Montesquieu a pensare che i delitti contro
la religione debbano essere repressi con sanzioni meramente religiose, e cioè con pene canoniche:
in questo campo tutto si passa tra l’uomo e Dio, il solo che sa la misura e il tempo della sua
vendetta.
Dunque ci troviamo di fronte all’idea della laicità del diritto penale, e della punibilità delle sole
azioni esterne.
♣ Per ciò che riguarda il rapporto tra libertà e processo penale, e cioè per ciò che riguarda il
problema delle garanzie processuali, Montesquieu ritiene che le formalità processuali in campo
penale costituiscano (al contrario del campo civile, in cui è auspicabile una procedura snella) una
protezione per i diritti individuali:
più sono complesse le regole di acquisizione e valutazione delle prove, più i diritti della difesa della
persona sono al riparo dai soprusi.
MONTESQUIEU: ALCUNI SPUNTI ANTICIPATORI DEL CONCETTO OTTOCENTESCO DI
“STATO DI DIRITTO”
Le pagine liberali dell’esprit des lois hanno contribuito alla focalizzazione del concetto di stato di
diritto.
I meccanismi garantistici dello stato di diritto consistono nell’insieme delle tecniche di controllo
del potere, applicate nei confronti del potere dello stato, in vista della libertà del cittadino.
Il liberalismo classico parte dal postulato della limitazione delle funzioni dello stato: il miglior
paradigma dello stato è quello di “stato minimo”, il peggiore è quello di “stato massimo”. Occorre
dunque che il potere statuale sia esercitato secondo regole giuridiche che:
lo dividano: principio della separazione dei poteri
ne rendano l’azione prevedibile
lo spersonalizzino: in quanto il modello opposto dello stato di diritto, è quello dello stato
personale, in cui la personalizzazione del potere fa venir meno l’imparzialità.
In quanto modello teorico, dunque, la formula dello stato di diritto si riassume nell’idea della
protezione del cittadino, assicurata dal diritto, nei confronti del potere statuale.
A questo punto, dunque, possiamo vedere sia ciò che è presente, che ciò che è mancante nello “stato
di diritto” di Montesquieu.
È presente l’idea di bilanciamento del potere
E’ assente l’idea strettamente liberale di libertà, in quanto quella concepita da Montesquieu
è la libertà garantita dalla legge non contro lo stato, ma contro gli altri cittadini: lo stato non
è ravvisato come potenziale nemico della libertà dei singoli e perciò come necessitante di
ridimensionamento, ma come il protettore della libertà stessa.
MONTESQUIEU E L’IDEA DI CODIFICAZIONE: ACCOGLIMENTO E CRITICA
DELL’ESPRIT DES LOIS DA PARTE DELL’ILLUMINISMO
Occorre ora valutare l’influenza esercitata dall’opera di Montesquieu sul processo di codificazione
del diritto.
Montesquieu…
da un lato parte storico del liberalismo, per via della sua ispirazione anti-assolutistica
dall’altro palesemente conservatore, in quanto solidale con l’immagine di una società
geratchizzata e cetuale..
aveva espressamente escluso la scelta della codificazione, in ossequio all’idea di relatività e
variabilità del diritto: codificazione avrebbe significato unificazione giuridica.
La duplice valenza del libro di Montesquieu è straordinaria:
55
• da un lato, teorizzazione dei presupposti dell’idea di codificazione
• dall’altro, ostacolo all’affermarsi di tale idea.
Nel momento in cui l’idea di codificazione doveva essere tradotta in fatti, Montesquieu venne
accusato di conservatorismo: egli apparve a molti innovatori come un difensore dei privilegi del suo
ceto, sostenitore dell’ormai superato sistema giuridico esistente.
L’ ”enciclopedia”
L’ “ENCICLOPEDIA”
L’enciclopedia o Dizionario ragionato della scienza, arti e mestieri, viene pubblicata tra il 1751 e il
1777, ed è il più noto e celebre dizionario del sapere occidentale.
Questa impresa spettacolare è stata concepita e diretta da DIDEROT e da D’ALEMBERT.
In questa opera collettiva sono state convogliate tutte le energie degli intellettuali del momento.
Secondo quanto detto da D’Alembert nel primo volume, l’enciclopedia aveva il compito di:
fare il punto dei progressi conseguiti dal pensiero umano
compendiare le conoscenze tecniche, scientifiche e filosofiche in un corpus universale
mettere queste conoscenze a disposizione di un pubblico mediamente colto.
L’enciclopedia è un’opera-simbolo, una sorta di Bibbia della scienza. Essa è lo strumento di lotta e
di propaganda dell’illuminismo, in quanto “coloro che pensano” vi hanno contribuito con i loro
scritti al fine di illuminare una umanità prigioniera dell’ignoranza e della superstizione.
Nonostante
divulghi ideologie politiche non completamente sovvertitrici
e nonostante la sua strategia, innegabilmente acattolica e antiecclesiastica, non si traduca mai in
una aggressione ai dogmi..
…. nel 1759, l’Enciclopedia viene condannata dal Parlamento di Parigi ad essere bruciata per mano
del boia.
LE VOCI GIURIDICHE
Nell’enciclopedia ritroviamo anche voci giuridiche.
Le più rappresentative si devono a JACOURT, un medico (!), che non disdegna le nozioni di
teologia e di matematica e, naturalmente, neppure quelle di diritto. Eccettuato Diderot, Jacourt è il
più produttivo degli illuministi.
Se leggiamo alcune voci impegnative redatte da lui, noteremo come Jacourt cerchi di combinare
-le idee di Montesquieu sulla natura meccanica dell’attività giudiziale
-con quelle di Voltaire sulla semplicità e la chiarezza delle norme
-e con quelle di Rousseau sull’impersonalità della legge.
Voltaire
VOLTAIRE: LA POLEMICA PER LA LIBERTA’
Voltaire è ritratto dalla storiografia come la figura più rappresentativa dell’illuminismo in generale.
In effetti egli rappresenta la migliore incarnazione del clima intellettuale dei lumi.
• primato della ragione sulla tradizione
• sottoposizione alla ragione di ogni dogma rivelato
• dissacrazione di miti, pregiudizi e superstizioni a base teologico-autoritativa
• diffusione del sapere scientifico a beneficio dell’educazione dell’umanità,
Voltaire, all’unisono con il pensiero dei lumi, è tutto questo ed altro ancora.
• In lui si manifesta al meglio la tipica concezione elitistica della cultura, e cioè l’idea della
supremazia dei pochi che pensano
56
Voltaire è un polemista nato, un maestro della critica attraverso la satira. E il tema unico della
critica volterriana è la libertà:
libertà da tutte le leggi e le istituzioni che si frappongono alla libertà intellettuale, culturale e
religiosa.
VOLTAIRE: LO “STILE” DELLA POLEMICA
Lo stile impiegato da Voltaire è lo stile giornalistico, caricaturale, informale e irrispettoso dei
pamphlet: la prosa leggera, scorrevole e limpida fanno si che il ragionare ironico dell’autore abbia
effetti micidiali.
Con le sue parodie, Voltaire vuole demolire, e non semplicemente scalfire, il suo bersaglio, sia
questo una persona, una dottrina o una istituzione. Questa passione dissacratoria, si manifesta in una
irriverenza nei confronti di tutte le cose, irriverenza apparentemente alleggerita dalla bonarietà.
Litigioso, spudorato e mentitore, ma capace di farsi leggere dalla gente, che è indulgente nei suoi
confronti.
E’ proprio grazie al suo stile accattivante che Voltaire è riuscito ad esercitare una grande influenza
sull’opinione pubblica del suo tempo.
Occorre ricordare, infine, che se la velenosità dei suoi giudizi gli ha portato popolarità, essa gli ha
procurato anche…
-nemici potenti
-censure
-carcerazioni alla bastiglia
VOLTAIRE: IL TEMA DELLA TOLLERANZA RELIGIOSA
Il valore di fondo per il quale Voltaire combatte, dunque, è la libertà.
Questa passione per la libertà, tuttavia, appare molto singolare se si considera che le opere e le
lettere di Voltaire mostrano come per tutta la vita egli abbia dubitato della capacità di libera
autodeterminazione dell’uomo.
Non è la nostra volontà ad essere libera, ma la nostra azione: noi, secondo Voltaire, saremmo liberi
di agire quando ne abbiamo il potere.
Voltaire reclama il potere di agire per sé e per gli altri intellettuali come facoltà di denunciare
-gli abusi e le imposture del clero
-i pregiudizi della chiesa, visti come ostacolo al progresso del genere umano.
Scorgendo nella chiesa, e nel controllo della cultura di cui questa dispone, un grosso ostacolo,
Voltaire critica un po’ tutte le articolazioni del diritto ecclesiastico:
Il diritto canonico, che sottrae allo stato l’importantissima disciplina del matrimonio
I privilegi del clero, che sono innaturali
Le istituzioni monastiche, che sono organismi parassitari ecc ecc..
Le pratiche e i rituali religiosi, dietro i quali si cela un sistema dogmatico, che dunque,
proprio perché dogmatico, è da considerarsi irragionevole.
Ma è la questione della tolleranza religiosa, il tema centrale della polemica di Voltaire in
nome della libertà. Secondo lui, infatti…
la religione è socialmente utile, e la credulità delle masse è comprensibile
il fanatismo del clero, persecutorio e inquisitoriale, invece, è assurdo e barbaro.
Con il suo stile brillante e corrosivo, Voltaire si batte in favore della tolleranza religiosa e del
riconoscimento a ciascuno del diritto di professare le proprie convinzioni.
VOLTAIRE: IL TEMA DELL’EGUAGLIANZA (OVVERO: L’OSCURAMENTO DEI LUMI E LA
VITTORIA DEL PREGIUDIZIO)
Esiste da sempre una diffusa, ma inconsistente, tradizione storiografica, che associa alla battaglia
condotta da Voltaire per la libertà religiosa, un suo corrispondente impegno civile a favorire
l’uguaglianza. Tuttavia si tratta di uno dei tanti miti costruito intorno alla sua figura.
57
Quando Voltaire invocò un codice penale che ponesse fine al pluralismo delle fonti, egli non potè
non annettere all’evento della codificazione la sua automatica conseguenza, e cioè la parità
giuridica dei soggetti a cui il codice sarebbe stato destinato.
Ma questo postulato dell’uguaglianza giuridica dei consociati Voltaire lo lasciò, per così dire, in
disparte, mentre si preoccupò di argomentare al meglio quattro idee antiegualitarie:
Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.
LA DISPARITA’ DELLA CONDIZIONE ECONOMICA DEGLI INDIVIDUI
Per quanto riguarda la disuguaglianza delle fortune, Voltaire non ha dubbi:
nel mondo ci sarà sempre una gran parte di uomini che già al loro nascere partono in una posizione
di svantaggio e di subordinazione rispetto agli altri.
LA DIVERSITA’ GENETICA E INTELLETTIVA DELLE RAZZE UMANE
Quanto alle convinzioni razziste di Voltaire, questo è un grosso rospo da inghiottire per coloro che
fanno di tutto l’illuminismo un momento di battaglia per l’emancipazione dell’umanità.
Voltaire parla dell’inferiorità dei neri e della loro naturale destinazione a servire i bianchi: gli
europei, infatti, non fanno altro che trarre conseguenze pratica dalla congenita attitudine dei neri a
vendersi e subordinarsi.
L’INFERIORITA’ DEL POPOLO EBREO
Anche l’antisemitismo di Voltaire viene considerato un tabù imbarazzante da parte di quella
storiografia volta a glorificare illuminismo come il movimento per i diritti dell’uomo.
In una prospettiva capovolta, Voltaire esibisce il proprio disprezzo per gli ebrei, come un
sentimento di pena che la persona tollerante prova per il popolo più intollerante del mondo
L’IMMATURITA’ E L’ABBRUTIMENTO DELLE MASSE POPOLARI
Riguardo, infine, al Voltaire spregiatore delle masse e convinto antidemocratico, occorre precisare
che quello di Voltaire è un iper-elitismo che non si può neppure definire pedagogico:
secondo lui è opportuno che il popolo sia guidato e non che sia istruito, in quanto esso non è
degno di esserlo.
VOLTAIRE: IL DIRITTO E IL PROBLEMA DELLA GIUSTIZIA
Le pagine di Voltaire, che si tengono ben lontane da aspetti troppo tecnici del diritto, divulgano una
dottrina facilmente assimilabile dai vari strati dell’opinione pubblica interessata ad una unificazione
e certificazione del regime vigente.
1. La critica di Voltaire all’ordinamento giuridico vigente, parte dalla convinzione che esista
una giustizia naturale, razionale ed universale, e cioè un evidente sentimento del giusto e
dell’ingiusto che si contrappongono alle leggi positive.
Questa giustizia rivelata dalla natura, è fatta di pochi divieti essenziali, con la conseguenza che
laddove essa tace, regna la libertà.
Le leggi umane, però, finiscono sempre per allontanarsi da questa superiore intuizione del giusto e
dell’ingiusto: “non c’è un buon codice in nessun paese del mondo”, asserisce Voltaire. Per questo
motivo, le leggi e le consuetudini locali appaiono confuse, mal fatte e contradditorie.
Sono dunque la frammentazione del diritto e la diversità delle giurisprudenze che colpiscono
Voltaire, il quale, da buon polemista, esagera gli aspetti assurdi della situazione sostenendo che
-la Francia abbia più leggi di tutta l’europa messa insieme
-nei dodici grandi tribunali di Francia ci siano dodici giurisprudenze diverse
-occorrerebbe chiedersi se una stessa persona abbia ragione in uno stato e torto in un altro.
58
2. La critica di Voltaire è seguita dall’indicazione di una soluzione simultaneamente costruttiva
e distruttiva: fare tabula rasa del vecchio regime giuridico e sostituirlo in blocco con un diritto
nuovo. Se è vero, pensa Voltaire che si può essere liberi solo dipendendo dalle leggi, allora l’unica
scelta possibile per ottenere la libertà è quella di rifare da capo il diritto:
ogni nuova legge deve essere chiara, coerente e precisa, in quando poi interpretarla significa quasi
sempre corromperla.
Con la massima certezza del diritto=libertà, il teorema antigirisprudenziale di Voltaire è definito,
e le sue caratteristiche sono:
• supremazia della legge su consuetudine, dottrina e giurisprudenza
• necessaria chiarezza della legge
• sottrazione della legge a qualsiasi manipolazione dottrinale o giudiziale tramite il divieto di
interpretazioni extra-letterali.
3. Voltaire accennò almeno una volta alla codificazione, a proposito della parte dell’ordinamento
positivo che, a suo giudizio, aveva più bisogno di essere cancellata e rifatta: il diritto penale e
processuale penale.
Secondo Voltaire, il nuovo diritto non poteva essere promulgato che dal sovrano, un sovrano
illuminato che cercasse soltanto nella ragione
-il modello di legislazione
-e la fonte di legittimazione
del diritto.
Da sostenitore della dottrina dell’assolutismo illuminato, Voltaire era convinto che la legge
proveniente da un monarca-filosofo non potesse non essere che una legge buona e giusta, oltre che
certa:
guidato da una elite pensante nella creazione di una legislazione conforme alla natura umana, il
sovrano assoluto avrebbe garantito libertà e felicità ai propri sudditi elargendo loro un codice.
Conscio della propria supremazia intellettuale, Voltaire non ebbe dubbi sul fatto che egli avrebbe
potuto agire da protagonista nell’ambito di questo rapporto tra potere e cultura. E così, confidando
eccessivamente in sé, egli corteggiò alcuni sovrani riformatori interessati alle idee dei lumi sulla
codificazione, illudendosi di poter influire, attraverso di essi, sulla vita politica del suo tempo.
Nell’attuazione delle loro riforme, invece, furono i despoti a servirsi della filosofia dei lumi,
laddove questa aveva creduto di servirsi di essi.
4. Vediamo ora come Voltaire concepisca la codificazione della materia criminale.
Essa significa:
• formalizzazione del diritto e del processo penale sulle basi del principio di legalità
• razionalizzazione della repressione criminale, in ossequio all’idea che il diritto penale sia tanto
più utile alla società quanto più esso contempli pene miti e proporzionate ai delitti:
un uomo impiccato non è buono a niente, mentre un uomo condannato ai lavori pubblici è ancora
utile al suo paese, oltre ad essere un esempio vivente, asserisce Voltaire.
Profondamente influenzato dalla lettura del testo di Cesare Beccaria, egli pubblica un
“Commentario” alle pagine dell’illuminista lombardo e poi, successivamente, redige anch’egli un
proprio trattatelo sui delitti e sulle pene.
In entrambi gli scritti l’adesione alle tesi di Beccaria è quasi totale:
la misura e la qualità della pena devono essere proporzionate alla gravità del crimine
59
nella repressione penale, razionalità significa anche laicità, e dunque le pene debbono punire
solamente gli atti dannosi alla società: i c.d. delitti contro la religione non sono reati ma peccati, e
dunque da abbandonare alla giustizia divina (e cioè da depenalizzare).
anche le atroci e macabre pene-supplizio, la cui esecuzione è offerta alla folla come uno
spettacolo, sono riprovate da Voltaire, perché inumane e dannose per lo stato (in quanto queste
sembrano essere state inventate dalla tirannia più che dalla giustizia).
altro tema affrontato da Voltaire in perfetta concordanza con Beccaria è il fatto che tanta parte
della procedura criminale abbia bisogno di radicali riforme:
il regime probatorio promulgato in Francia, ha dato vita esclusivamente alla rovina degli imputati:
secondo questo regime, infatti, in mancanza di una prova piena e convincente della colpevolezza
dell’inquisito, ai fini della sua condanna
-si accumulano mezze prove, mezze prove che, in fondo, non sono altro che dei dubbi, perché le
mezze verità non esistono.
-poi si raccolgono anche i quarti e gli ottavi di prove, che corrisponderebbero alle cose sentite dire
-Ed infine si somma il tutto, e da otto dicerie si ottiene la prova concreta, che serve a mandare sul
patibolo l’imputato.
per quanto riguarda la tortura, Voltaire ne critica l’uso, considerandola solo come uno strumento
volto ad ottenere la confessione: non si sa ancora nulla della colpevolezza degli imputati, e pur
nell’incertezza del loro delitto li si punisce in anticipo con un supplizio molto più spaventoso della
morte.
Qui, tuttavia, Voltaire si discosta da Beccaria in quanto:
Beccaria, chiede l’abolizione senza eccezioni della tortura
Voltaire riserva la tortura a coloro che abbiano assassinato un padre di famiglia o il padre
della patria, e ai quali si debba distorcere il nome dei complici.
Anche a proposito della pena di morte, la posizione di Voltaire non coincide con quella di
Beccaria.
Beccaria, infatti, afferma che la pena di morte, in normali condizioni di ordine, sia
-ingiusta: perché non necessaria e non autorizzata dal contratto sociale e
-inutile: perché inefficace come deterrente
Voltaire, invece, si limita a proporre una riduzione dell’uso della pena di morte, da sostituire
con la più socialmente vantaggiosa alternativa dei lavori forzati: un uomo impiccato non
serve a nulla.
5. A Voltaire deve essere riconosciuto il merito di essersi impegnato per il miglioramento della
giustizia penale del tempo:
egli infatti si impegnò
-sia nella denuncia di clamorosi errori giudiziari
-sia nella protesta contro alcune condanne alla pena capitale, enormemente sproporzionale rispetto
al delitto commesso.
Rousseau
ROUSSEAU: UNA QUESTIONE PREGIUDIZIALE
Se Voltaire è il più grande sostenitore della formula dell’assolutismo illuminato,
Rousseau personifica, in base ad una concezione democratica della legge, il più radicale
ripudio di quella formula.
60
Anche le ceneri di Rousseau, come quelle di Voltaire, furono trasferite al Panteon: in questa doppia
apoteosi si è scorta la prova del rispettivo contributo intellettuale offerto dai due illuministi alla
Rivoluzione Francese.
-Voltaire, combattente per la libertà e per le riforme giudiziarie, sarebbe stato presente negli spiriti
dei rivoluzionari nel periodo 1789-1791
-l’influenza di Rousseau, invece, sarebbe divenuta dominante nel triennio successivo (sino al 1794),
nell’ispirare l’egualitarismo e il totalitarismo giacobino.
E’ facile escludere l’immagine dell’antidemocratico Voltaire, cortigiano del re, e contrario ad una
violenta sovversione sociale, dall’ambito di ispiratore della Rivoluzione.
Furono infatti i rivoluzionari del tempo ad impadronirsi della sua figura, imprimendole un
contenuto ideologico che essa non possedeva affatto.
Più problematico, invece, è valutare l’uso che la Rivoluzione fece delle pagine di Rousseau:
se infatti non si può negare che le sue idee affiorino nel modo più disparato nel corso della
Rivoluzione, in quanto questa condivide con lui…
-un generico egualitarismo
-il primato della legge
-il concetto di sovranità popolare
-la definizione di legge quale espressione della volontà generale
si può invece escludere che la Rivoluzione abbia tradotto in programma i modelli di tecnica
politico-costituzionale indicati da Rousseau: come osservava il Solé egli, per sua fortuna, morì
prima di sapere ciò che gli altri avrebbero fatto delle sue teorie.
Dunque gli uomini del 1789 non fecero la rivoluzione su ispirazione di Rousseau, ma piuttosto,
messasi in moto la spirale rivoluzionaria, essi ritrovarono nelle sue pagine un tramite
-per illuminare la loro vicenda storica e
-per raffigurare le proprie scelte politiche secondo alcuni miti:
La predicazione di Rousseau, quindi, pur non avendo di certo causato la rivoluzione francese, ha
tuttavia incitato gli uomini del 1789 a comprendere la loro situazione come un crisi.
ROUSSEAU: IL CONTRATTO SOCIALE
“L’uomo è nato libero, e dovunque è in catene”: con questo brillante incipit inizia il celebre
Contratto sociale di Rousseau.
Questa frase vuole significare che, in qualsiasi luogo l’uomo si trovi, egli è comunque vittima di un
ordine sociale fondato sulla disuguaglianza, in cui il più debole è sempre oppresso dal più forte.
Partendo dunque dal fatto che gli uomini erano per loro natura liberi e uguali, Rousseau si chiede
come possa essere avvenuto questo cambiamento.
La risposta che egli si dà è un secco “lo ignoro”: a prescindere dal fatto che vi siano stati o meno,
nella storia, dei contratti di organizzazione della società mal stipulati, ciò che a Rousseau interessa
visualizzare è il contratto ideale:
così, egli parte dal presupposto logico di uno stato di natura, per teorizzare poi il suo schema di
contratto. Egli mostra:
a) quale soluzione contrattuale si sarebbe dovuta affrontare affinché si salvaguardassero libertà
ed uguaglianza tra gli uomini
b) che questa soluzione potrebbe costituire una via praticabile in futuro
c) che questa soluzione è l’unica logicamente possibile, se si vogliono superare le disuguaglianze
accumulatesi fino al presente.
Nel contratto sociale, insomma, Rousseau presenta un ideale rifacimento da capo della storia.
61
• Secondo Rousseau nella storia giunge un momento in cui, senza sapere quando, come e
perché, la libertà naturale dell’uomo non è più garantita.
• Per non soggiacere al più forte, e mantenersi liberi, occorre trovare una forma di
associazione
-che difenda, con la forza comune che la caratterizza, ciascun associato e i beni di questo
-in nome della quale ciascun associato resti libero come prima:
è, questo, il problema fondamentale a cui il contratto sociale dà una soluzione.
Il presupposto del contratto è l’uguaglianza;
lo scopo: la libertà. Si tratta di una libertà civile, che l’associato riceve in cambio della propria (non
più garantita) libertà naturale: la libertà civile, infatti, ha il vantaggio di essere tutelata
giuridicamente dal contratto.
Con il contratto si dà vita ad un corpo politico, composto di tanti membri quanti sono i contraenti,
in cui ciascun associati si annulla e insieme si identifica: nasce, cioè, un ente, provvisto di una
volontà generale, unitaria e sovrana.
Nella formula di Rousseau, governanti e governati non risultano più contrapposti, per iol semplice
fatto che si identificano:
-i sudditi divengono i cittadini
-i cittadini formano il popolo
-il popolo è il nuovo sovrano: di garanzie nei confronti dello stato, dunque, non c’è più bisogno.
Il fine dello Stato nato dal contratto e l’unico obiettivo della volontà generale, dunque, è il bene
comune.
A sua volta la volontà generale si esprime attraverso la legge: nasce cioè l’idea totalmente
democratica della legge come espressione della volontà generale.
Per volontà generale si intendono due cose:
-per quanto riguarda l’origine: che essa deriva da tutti
-per quanto riguarda la destinazione: che essa si applica a tutti, senza distinzioni.
La volontà generale, cioè…
non può essere fatta solo da alcuni, perché pochi non possono costringere l’intera collettività
non può essere fatta solo per alcuni, perché si violerebbe il principio di uguaglianza, conferendo
dei privilegi particolari.
E’ per questo motivo che la legge deve essere fatta di norme astratte ed impersonali.
Inoltre, il fatto che il popolo sia soggetto alle leggi di cui è autore comporta che la legge…
1. sia sempre giusta per definizione, in quanto nessuno può essere ingiusto nei confronti di se stesso
2. sia garanzia di libertà, perché obbedire al sovrano significa obbedire a se stessi
3. sia garanzia di uguaglianza, perché ciascuno si sottomette alla legge alle stesse condizioni a cui vi
si sottomettono gli altri.
Che cosa succede, però, se un individuo dissenziente si rifiuta di obbedire alla volontà generale
(e cioè a se stesso)?
A questo punto, dice Rousseau, egli sarà costretto da tutto il corpo politico ad aderire alla volontà
generale:
le decisioni della maggioranza, cioè, obbligano anche gli oppositori in quanto, aderendo ciascun
cittadino ad un contratto sociale stipulato all’unanimità, egli ha fatto propria in anticipo la volontà
generale, considerandola giusta per definizione.
62
ROUSSEAU: IL PROBLEMA DELLA RAPPRESENTANZA E L’ESERCIZIO DEL POTERE
LEGISLATIVO
L’ostilità nei confronti della nozione di rappresentanza è uno degli aspetti tipici del pensiero di
Rousseau: egli, infatti, è convinto che nel momento in cui un popolo si dia dei rappresentanti,
questo non sia più libero.
Tuttavia, a dispetto di queste sue radicali convinzioni, egli non pensa che il potere legislativo debba
essere attribuito al popolo, ma ricorre alla mitica figura del “grande legislatore”:
Rousseau, infatti, si chiede come una moltitudine cieca, che spesso non sa quello che vuole, possa
eseguire da sé un’impresa così grande come quella della legislazione.
Poiché, dunque, gli uomini sanno raramente ciò che è bene per loro, l’intervento di un legislatore
sapiente si pone come necessario e decisivo.
L’immagine del grande legislatore, come abbiamo già visto, è quella di un uomo straordinario,
una sorta di meccanico che inventa la macchina del corpo sociale, capace di cambiare la natura
umana, trasformando l’uomo in cittadino.
Se invece ci poniamo in una prospettiva differente rispetto a quella del comando umano,
noteremo che se questa funzione è indispensabile è perché la volontà generale non coincide con la
volontà di tutti:
• Mentre infatti la volontà generale è una sorta di ragione pubblica, una regola del bene collettivo,
depurata da qualsiasi interesse particolare o occasionale
• La volontà di tutti è una specie di “viziosa sorella minore” della volontà generale, e corrisponde
agli interessi particolari che i consociati, tutti insieme, possono avere, giungendo ad ingannare loro
stessi su quale sia la volontà generale, scambiando cioè la volontà di tutti per volontà generale.
Questa geniale concezione è, tuttavia, il colmo dell’astrazione, come astratto è pensare che possa
esserci un super legislatore che non riveste alcuna carica costituzionale e che si colloca al di fuori
dello stato (e cioè al di fuori del popolo).
Nella legislazione, dunque, si trovano due forze incompatibili:
-da un lato, un’impresa al di sopra delle forze umane
-dall’altro, un’autorità che non è niente per eseguire questa impresa
Una volta che, dunque, il legislatore ha fatto la legge, permettendo alla volontà generale di
concretizzarsi, essa deve essere sottoposta ai voti del popolo:
in questo modo la formula della democrazia referendaria garantisce il principio per cui la
sovranità non può essere rappresentata.
Per quanto riguarda, invece, il problema della legislazione in uno stato ormai costituito e
funzionante, Rousseau ricorre alla figura del commissario:
i deputati del popolo non possono essere i suoi rappresentanti, ma sono soltanto i suoi
commissari. Essi non possono concludere nulla in modo definitivo, in quanto ogni legge che
non sia stata ratificata dal popolo in persona è nulla.
Il sistema anti-rappresentanza sognato da Rousseau, tuttavia, risulta chiaramente applicabile in una
grande nazione moderna, come è ad esempio la Francia.
Il suo ideale, infatti, era quello della piccola repubblica, sul tipo della Sparta antica.
ROUSSEAU: CODIFICAZIONE E INTERPRETAZIONE DEL DIRITTO
L’occasione per parlare di codici e del connesso problema del rapporto tra giudice e legge venne
offerta a Rousseau dal governo polacco, che gli chiese di redigere un testo costituzionale.
In questo scritto Rousseau propose un programma di unificazione delle fonti del diritto che gli era
stato suggerito dall’osservazione della realtà francese.
63
Occorre fare due considerazioni:
I. L’insistenza di Rousseau sul fatto che il breve e chiaro contenuto dei codici
(intesi come…
-esclusivo deposito della legge
-e manifestazione scritta della volontà generale)
debba essere insegnato, tramite la scuola e l’università, a tutti i cittadini, mostra che egli attribuisca
alla legge codificata una influenza educativa.
Prima ancora di essere il compendio delle regole di una società, infatti, il codice è un manuale
pedagogico volto a formare una collettività sociale immune dalla corruzione ed educata ai valori
della libertà e dell’uguaglianza:
cittadini formati dallo stato attraverso una pedagogia rigenerativa.
II. Con l’idea di lasciare ai giudici un certo margine di discrezionalità per giudicare gli eventuali
casi non contemplati dal codice, Rousseau si isola rispetto alla comune opinione illuministica in
tema di interpretazione, secondo la quale era necessaria la più rigorosa subordinazione dei
magistrati alla legge.
Ciò non toglie il fatto che egli non chieda una garanzia contro l’arbitrio giudiziale, garanzia che egli
scorge nel carattere temporaneo, e dunque non professionale, della funzione di magistrato.
64
SEZIONE III:
L’ILLUMINISMO ITALIANO
Lumi lunari
CONFIGURAZIONE COMPLESSIVA DELL’ILLUMINISMO GIURIDICO ITALIANO: LE SUE
ANTICIPAZIONI “PREILLUMINISTICHE” E LE SUE DERIVAZIONI FRANCESI
Nel paesaggio dell’illuminismo, gli stati italiani appaiono quasi come province culturalmente
periferiche, in quanto la capitale è la Parigi dell’Enciclopedia.
Salvo delle eccezioni, nel pensiero degli illuministi italiani sono presenti due dati:
la soggezione all’egemonia intellettuale francese
la conseguente recezione dei modelli ideologici e dei modi di ragionamento francesi: è, questa,
una recezione che avviene attraverso una massiccia importazione di libri, giornali e pamphlets
francesi.
Questa apertura dell’illuminismo italiano a quello francese colpisce ancora di più se pensiamo che
alcuni suoi atteggiamenti si scorgono già in quella stagione della cultura italiana detta
“preilluminismo”. Qui noi ritroviamo figure ragguardevoli quali:
VICO
GIANNONE
DORIA
RADICATI DI PASSERANO
MURATORI
Quando i temi dibattuti da questi preilluministi vengono ripresi, alcuni anni dopo, dall’illuminismo
italiano, questi ci appaiono comunque sviluppati secondo le formule dell’illuminismo francese.
Il fatto che l’illuminismo giuridico italiano prenda vita soprattutto per influenza
dell’illuminismo francese piuttosto che per influenza del preilluminismo ci porta a pensare, dunque,
che quello italiano sia una variante poco significativa dell’illuminismo giuridico:
le sue luci, insomma, ci appaiono come luci lunari, ossia come luci riflesse.
In un solo ambito i lumi italiani appaiono invece come lumi solari, e cioè nell’ambito del
diritto penale.
E’, questa, una eccezione di straordinaria importanza: nel campo penalistico, infatti, domina
incontrastato il libro più famoso, importante e rappresentativo dell’intera età dei lumi, e cioè “Dei
delitti e delle pene”, di Cesare Beccaria. Questa sorta di manifesto del diritto penale viene tradotto
in più lingue e fa il giro d’Europa, influenzando profondamente le idee sul diritto e sulla giustizia e
facendo dell’Italia la culla indiscussa del diritto penale.
Occorre tuttavia precisare il fatto che magnificare quasi esclusivamente Cesare Beccaria non
significa sottovalutare l’importanza delle idee di altri uomini dell’illuminismo italiano che, anche se
non sono stati portatori di nuove idee, hanno comunque reso possibile la partecipazione dell’Italia al
grande dibattito sul diritto in corso in Europa.
UOMINI, AMBIENTI E IDEE DELL’ILLUMINISMO GIURIDICO ITALIANO. LA NAPOLI
DEL MATURO SETTECENTO
Una delle città italiane da cui, nella seconda metà del 700, si irradia di più la cultura illuministica è
Napoli. Qui troviamo:
GENOVESI, illuminista di tendenze moderate.
65
Nel suo scritto egli afferma l’esistenza di un immutabile diritto naturale, il che è un luogo
classico dell’illuminismo; ma poi, contrariamente alle idee illuministe, asserisce che il giudice
debba necessariamente fare una interpretazione integrativa ed extra-letterale del diritto civile.
PAGANO, che
-da giovane sostiene la necessità della codificazione statuale come rimedio all’incertezza e alla
confusione della vigente legislazione a base giustinianea.
-più tardi, come politico, propugna invece l’idea di un codice civile modellato sulle leggi di
natura, che raccolga i principi universali del diritto e del processo penale.
GALANTI, che critica amaramente la situazione del diritto e della giustizia italiana,
amministrata senza scrupoli da avvocati non preparati: occorre, dunque, riorganizzare in modo
radicale il potere politico, abrogando il regime di diritto comune e fondandone uno basato sul diritto
naturale.
Da menzionare, infine, sono altri due esponenti del riformismo napoletano, GALIANI e
DELFICO, che sostengono che la tradizione giustinianea vada rimpiazzata con un codice universale
ispirato alla natura dell’uomo.
GAETANO FILANGIERI
La personalità sicuramente più importante della Napoli dell’illuminismo è quella di Gaetano
Filangieri.
Nella Napoli messa in crisi dallo strapotere giuridico della magistratura, il ministro Tanucci
ha ottenuto da Ferdinando IV due dispacci sconvolgenti:
che d’ora in avanti, i magistrati partenopei motivino le loro sentenze, basandole sulla legge e non
sulle opinioni dottrinali, che hanno reso incerto il diritto.
che in caso di lacuna, i magistrati si rivolgano al sovrano.
Non curandosi dello sdegno dei magistrati, il giovane Filangieri dedica a Tanucci le sue
“Riflessioni politiche”, con l’intento di celebrare la saggezza del provvedimento.
L’incompiutezza dell’opera maggiore di Filangeri, “Scienza della legislazione”, non
impedisce che essa ottenga un grande successo europeo, successo testimoniato da un susseguirsi di
edizioni in Italia e di traduzioni in Germania, Spagna e Francia.
Ancora oggi si discute del successo di questo testo, dal momento che esso è sì provvisto di vari
spunti di originalità, ma manca comunque, nel complesso, di una spinta creativa autonoma che lo
animi nel suo insieme come un totale progetto innovativo.
Dunque il suo successo si deve probabilmente
al grandioso disegno strutturale dell’opera, che ha l’ambizione di illustrare un sistema di
legislazione universale capace di produrre una rigenerazione globale di tutte le società
al fatto che in Filangeri prende forma l’idea illuminista del rapporto tra la tendenza ad elaborare
astratti progetti ideali e quella a suggerire proposte immediatamente operative: in Filangeri questa
duplicità è rappresentata al meglio, e dunque anche in ciò consiste la forza di attrazione delle sue
pagine.
Secondo Filangeri occorre elevare la legge a manifestazione della ragione universale, in quanto
questa prescrive in tutti i tempi le medesime norme con il fine di ottenere la pubblica felicità:
questa associazione tra norme positive e principi universali della natura è ciò che Filangeri chiama
bontà assoluta delle leggi.
Le norme positive, tuttavia, debbono possedere anche una bontà relativa: essere, cioè, consone alla
forma di governo, alla religione, all’economia e alla cultura di ogni singolo paese.
66
Sembra, in un certo senso, di sentir parlare Montesquieu. MA:
-mentre Montesquieu si è limitato a DESCRIVERE le varie legislazioni,
-Filangeri vuole PRESCRIVERNE la migliore, facendone una scienza sicura: se si vogliono buone
legge, occorre mutare completamente l’ordinamento giuridico tradizionale, e cioè l’ordinamento
giustinianeo.
La promulgazione di un diritto nuovo, tuttavia, presuppone la risoluzione di vari problemi di
fondo:
• Sviluppo economico, demografico e finanziario
• Problema della cattiva distribuzione della proprietà, concentrata nelle poche mani dei baroni
feudali e degli ecclesiastici: problema, questo, che paralizza il formarsi di una società in modo
ordinato.
Il presupposto della riforma dell’organizzazione giudiziaria, dunque, è proprio la ribellione al
sistema feudale, in quanto:
nel meridione, la giurisdizione è ripartita tra feudatari e magistrati
sono i baroni feudali che nelle loro terre esercitano in modo inquisitoriale il diritto penale,
lasciandosi corrompere in cambio della concessione della grazia.
E’ dunque solo con la liquidazione da questa tirannide feudale e con la riconduzione
dell’amministrazione della giustizia allo Stato che potranno prendere vita le garanzie che Filangeri
vuole introdurre nel processo penale.
Tuttavia le pagine di Filangieri che hanno interessato di più la cultura giuridica europea sono
le pagine penalistiche.
La parte penalistica della Scienza, infatti, deve molto al pensiero di Beccaria, le cui parole, a volte,
sono riprese alla lettera: siamo nell’ambito, occorre ricordarlo, dei c.d. “lumi lunari”.
Nonostante ciò, Filangieri non manca, comunque, di operare alcuni innesti originali:
per quanto riguarda il fine che la pena deve avere, ad esempio, se il legislatore oltrepassa il
confine della severità minimo necessaria, egli cade nella tirannide, in quanto se la società deve
essere protetta, allora i diritti degli uomini devono essere rispettati.
Dunque occorre sì neutralizzare il delinquente infliggendo ad esso una pena, ma occorre anche che
la sanzione sia prporzionata alla gravità del reato.
UOMINI, AMBIENTI E IDEE DELL’ILLUMINISMO GIURIDICO ITALIANO. LA MILANO
DEL CAFFÈ
Milano, capitale della Lombardia austriaca, è una città da tenere in considerazione nell’ambito
dell’illuminismo italiano, perché è qui che..
nasce l’opera di Beccaria
viene organizzato, per opera di Pietro Verri, un gruppo di giovani che propaganda le
rivoluzionarie idee dei lumi, ribellandosi
-ai valori autoritari delle proprie famiglie
-agli interessi e alla mentalità delle classi forensi
-alla tradizione culturale dei benpensanti in genere.
E’ appunto in seno a questo gruppo che si origina il libro di Beccaria, Beccaria che, appunto, senza
le sollecitazioni e gli incoraggiamenti degli amici, non avrebbe scritto neppure una riga del suo
capolavoro.
Gli uomini del circolo di lettura e conversazione, che la sera si riunisce in casa Verri, e che
scherzosamente viene battezzato Accademia dei Pugni (con allusione alle accese discussioni su
diritto, economia e politica) sono tanti.
Per due anni, questo club si impegna e si diverte anche a pubblicare un periodico di stampo
polemico-riformista: il famoso Caffè, i cui articoli sono mirati
67
sia ad attirare l’attenzione delle autorità viennesi
sia a provocare l’opinione pubblica, la magistratura e l’intero mondo forense milanese.
PIETRO VERRI, è il leader indiscusso del gruppo. Lui e suo fratello Alessandro sono i figli di
Gabriele Verri, il più autorevole, illustre e conservatore magistrato di Milano.
Mentre la sera, al piano terra di casa loro, i due non amati figli dissacrano con gli altri cospiratori la
giurisprudenza per cui il padre nutre una fede incontrollata, al piano superiore Gabriele rumina
strategie di difesa con la Bibbia o con il Digesto. L’illuminismo lombardo, insomma, gli sta
praticamente nascendo in casa.
Se lo consideriamo esclusivamente sotto il profilo del pensiero giuridico, a lui e ad
Alessandro deve essere riconosciuto, innanzitutto, un merito indiretto: quello di aver suggerito a
Beccaria il tema da trattare, consigliandolo ed incitandolo durante tutta la stesura dell’opera.
Di Verri è opportuno ricordare almeno tre scritti di contenuto giuridico:
1. L’Orazione panegirica sulla giurisprudenza milanese
Questo scritto è da leggersi in chiave capovolta in quanto Verri, usando il registro dell’ironia e
del sarcasmo, finge di parlare nelle vesti di un magistrato di convinzioni conservatrici (difficile
non scorgere in questa immagine quella del padre): questi strilla a favore della giurisprudenza
giustinianea contro Montesquieu, Voltaire, Rousseau e l’enciclopedia.
2. Un articolo pubblicato nel Caffè sull’interpretazione delle leggi, articolo che costituisce una
sorta di summa delle ideologie dell’illuminismo, relativamente al problema dei rapporti tra
giudice e legge.
Il punto di partenza è quello dell’assoluta separazione del giudice dal legislatore (legislatore
che è il solo sovrano)
Compito esclusivo del legislatore, dunque, è quello della legislazione
Compito del giudice, invece, è quello di far eseguire la legge
In pratica: il legislatore comanda; il giudice fa eseguire il comando: se i due compiti vengono
scambiati, allora viene meno la libertà del cittadino.
La conseguenza di tutto ciò è il divieto di interpretazione, in quanto interpretare significa
sostituirsi a chi ha scritto la legge, vale a dire fare più di ciò che il legislatore ha detto.
Quindi, per ciò che riguarda il magistrato…
nelle cause penali, egli ha il divieto assoluto di interpretare: tanto che chi ha commesso una
violazione non prevista come crimine dalla legge deve restare impunito (secondo il principio:
“nullum crimen, nulla poena sine lege”)
nelle cause civili, invece, egli può integrare una eventuale lacuna creando la regola, in modo
equitativo, per ogni singolo caso.
3. Le Osservazioni sulla tortura
Si tratta di una disquisizione contro l’uso della tortura, e cioè contro quell’uso giudiziario
finalizzato all’estorsione della confessione da parte dell’imputato.
Con questo scritto, Verri intende dimostrare che la tortura non è
né utile ad accertare la verità
né giusta per quanto riguarda la presunzione di innocenza
-Se Verri si sforza di assumere un atteggiamento indulgente nei confronti dei giudici,
giustificandoli per il fine che essi vogliono raggiungere attraverso la pratica della tortura,
68
-egli è invece durissimo nei confronti dei giuristi di diritto comune, che hanno elevato la tortura a
una vera e propria scienza del tormento, raffinandone la capacità di produrre sofferenze.
Per quanto riguarda ALESSANDRO VERRI, invece, egli è la mente più giuridica dell’intero
gruppo, e tende a pesare quindi le parole…
A) sia nel condurre la polemica contro il regime di diritto comune
B) sia nel proporre interventi pratici ai fini della codificazione
A) Nell’articolo pubblicato nel Caffè “Di Giustiniano e delle sue leggi”, Alessandro:
-riconosce che dal corpus giustinianeo possano trarsi molte nozioni per la formazione di un nuovo
volume di leggi MA
-ciò che di importante egli sottolinea è che, appunto, un nuovo codice deve essere redatto in ogni
caso.
B) Il discorso di Alessandro sulla necessità di una codificazione continua in altri articoli pubblicati
sul Caffè:
secondo lui, infatti, per raggiungere un codice perfetto alcune leggi di diritto romano potranno
anche essere utili, MA, in linea di massima, il regime di diritto comune, che fa perno sul corpus
giustinianeo, deve essere sostituito, in quanto esso rappresenta soltanto un ammasso di frammenti di
leggi che non posseggono né una unità né una completezza: di fronte ad un sistema giuridico che
non si sostanzia in un codice, non si potrà giungere mai alla certezza del diritto.
Lumi solari
CESARE BECCARIA FRA GIUDICI E LEGGI NELLA MILANO DEL SETTECENTO
Per comprendere come sia nato il fortunatissimo libro di Beccaria, occorre chiedersi come si
amministrasse la giustizia penale a Milano e nella Lombardia austriaca quando prese corpo l’idea di
scrivere il libro.
In prima battuta la risposta è facile: la giustizia penale era amministrata secondo un modello
comune all’intera Europa caratterizzato:
-dall’arbitrio dei grandi tribunali, presenti negli stati assoluti
-dall’imporsi della giurisprudenza di questi tribunali come fonte primaria nell’ambito del diritto
comune
Tuttavia questo diritto comune che si era mantenuto, aveva assunto anche una tipica impronta
regionale o nazionale, che gli derivava dal modo in cui ogni singola corte coordinava i vari tipi di
norme.
Ebbene, anche il diritto penale praticato a Milano era un diritto comune europeo, a cui si univano,
però, dei particolari connotati derivatigli dall’aggiunta di componenti locali: anch’esso, cioè, era la
risultante di un coordinamento tra le norme di tradizione romanistica e le norme contenute nelle
fonti lombarde.
I giudici del tribunale supremo dello stato lombardo provengono tutti da ranghi privilegiati e sono
tutti ottimi giuristi e magistrati, legittimati dai sovrani a giudicare in loro nome e con i loro stessi
insindacabili poteri. Essi giudicano in base
- agli statuti criminali delle varie città lombarde
-e al testo incartapecorito del corpus iuris, un complesso di norme vecchissime, ma applicate
comunque quotidianamente dai magistrati in quanto, quando esse non sono sufficienti a giudicare, i
giudici decidono secondo coscienza.
69
Si ha, dunque, il primato della giurisprudenza sulla legge, perché la legge coincide con i testi
normativi ufficiali solo in apparenza: è negli usi dei giudici, infatti, che risiede il diritto realmente
vigente.
Il sistema di giustizia penale posto sotto accusa da Beccaria è un sistema caratterizzato da un corpo
di magistrati…
abilitati a sostituire alla legge la propria coscienza, considerata come infallibile.
gratificati dal consenso e dal timore reverenziale della popolazione, che non dubita minimamente
del loro potere.
Non è affatto necessario che costoro siano corrotti: quando infatti in una società
ogni garanzia di giustizia dipende dalla coscienza dei giudici
la pena è vista come un castigo esemplare, che deve colpire il criminale per riaffermare la
forza dello stato
la sanzione capitale è vista come la pena più giusta e il deterrente più efficace per alcuni tipi
di delitti
…allora questo tipo di giustizia penale, priva di umanità, genera nella società una sofferenza molto
più grande di quella prodotta dalla criminalità dei singoli delinquenti.
Ed è proprio contro una situazione come questa che Beccaria si scaglia.
Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.
CESARE BECCARIA nasce a Milano da una famiglia di fresca nobiltà.
• Laureatosi in giurisprudenza, esce dalla facoltà di legge con un insuperabile disgusto per
l’avvocatura e le professioni forensi.
• Sposatosi contro la volontà del padre con una ragazza non nobile, Beccaria ha due figlie,
Giulia e Maria.
• Cacciato di casa, e catastroficamente al verde, egli frequenta le riunioni dell’Accademia dei
Pugni e, spronato da Pietro e Alessandro Verri, inizia a documentarsi e a scrivere sulla giustizia
penale in Lombardia:
• Poco dopo viene pubblicato, anonimo, il libretto “Dei delitti e delle pene”, e prendono avvio
i fogli del Caffè.
• In pochissimo tempo le pagine di Beccaria
-scandalizzano gli ambienti conservatori di tutta Europa, MA
-provocano consensi nell’ambito degli illuministi e dei sovrani assoluti di stampo riformista.
Dei delitti e delle pene diventa così, di colpo, una sorta di proclama generale dell’illuminismo
europeo:
gli illuministi francesi lo invitano a Parigi per esprimergli la loro ammirazione
e Caterina II di Russia lo invita a Pietroburgo.
• Beccaria, tuttavia, resta a Milano, prediligendo la tranquillità di professore di scienza delle
finanze al clamore.
• Tre eventi segnano questa abitudinaria seconda parte della sua vita:
1. le sue nozze con un'altra donna, avvenute dopo che egli era rimasto vedovo
2. il matrimonio combinato della figlia Giulia con il conte Pietro Manzoni, unione dalla quale
nascerà Alessandro.
3. la nomina, da parte di Leopoldo II, a membro della commissione delegata alla redazione di un
progetto di codice penale per la Lombardia austriaca.
70
Impressionante, dunque, il contrasto tra la mediocrità dell’esistenza vissuta, e la genialità del
libro scritto:
un libricino di pochi paragrafi, quello di Beccaria, che però produsse una rivoluzione nel rapporto
tra stato e individuo, ribaltando la concezione dell’intero ordine giuridico penale.
Beccaria scrive il suo capolavoro “per disperazione”: annoiato e incline a deprimersi, chiede ai
fratelli Verri un tema di cui occuparsi, tema che, prontamente, i due illuministi milanesi gli
assegnano, vale a dire la tradizione giuridica nel suo complesso.
E’ così che le pagine di Beccaria sono rimaste nella storia, entrando ancora oggi nella giustizia
penale di ogni moderno stato di diritto.
CESARE BECCARIA: LA CRITICA DEL DIRITTO PENALE VIGENTE
L’attacco al diritto vigente che Beccaria fa nel suo libricino sprigiona non poche polemiche.
Secondo Beccaria, infatti, il diritto penale allora in vigore era caratterizzato:
dal millenario diritto romano, che stava alla sua base
dal successivo innestarsi, su di esso, di leggi ed usi locali
da tante e caotiche interpretazioni dottrinali sviluppatesi su questa massa normativa
dal dissolvimento della figura del legislatore e dalla conseguente sostituzione, a questo, delle
arbitrarie opinioni degli interpreti
dall’interazione tra dottrina e giurisprudenza, a cui era affidata la vita dei cittadini.
Anche se Beccaria, dunque, avesse calcato di proposito la mano nel fare la sua diagnosi, il suo
scopo è quello
di sostenere gli interessi dell’umanità,
di stabilire i confini del giusto e dell’ingiusto, e cioè di ciò che è utile e ciò che è dannoso alla
società.
Dunque la formula giustizia=utilità sociale è presente anche nel pensiero di Beccaria, anche se egli
tende a sostituire l’utilità sociale con il parametro “massima felicità per il maggior numero dei
consociati” (e cioè: giustizia= massima felicità per il maggior numero dei consociati).
Poiché però l’utilità sociale non è interscambiabile con la difesa dei diritti dell’uomo, da questo
scambio nasceranno evidenti risultati di incoerenza:
incoerenza che, però, verrà risolta, quando Beccaria dissocerà esplicitamente l’utile dal giusto.
L’IPOTESI CONTRATTUALISTICA: FONDAMENTO E LIMITI DEL POTERE DI PUNIRE
SECONDO CESARE BECCARIA
Sulle orme di Rousseau, Beccaria indica l’abbandono dello stato di natura come il momento di
origine della società retta dalle leggi.
Le leggi sono le condizioni con le quali gli uomini, isolati, indipendenti, e stanchi di vivere in un
continuo stato di guerra, si uniscono in società, sacrificando una parte della libertà di cui
dispongono per godere della restante parte con sicurezza e tranquillità.
Da tutto ciò discende che:
I: la somma di tutte le porzioni di libertà singolarmente sacrificate ha formato la sicurezza e il bene
comune, dando origine alla sovranità, in quanto l’amministratore della sicurezza e del bene comune
è il sovrano.
II: poiché la sicurezza pubblica può essere messa in pericolo dall’aggressione di singoli criminali, il
sovrano deve difenderla in base al contratto:
da questo dovere, deriva il diritto del sovrano di punire i delitti.
71
III: i delitti commessi sono punibili attraverso le pene, che vengono stabilite dal sovrano per
scoraggiare i potenziali infrattori della legge.
Le pene sono dei motivi sensibili: ciò significa che per prevenire il crimine, lo stato minaccia uno
specifico male di cui l’uomo ha materialmente timore.
Si ha una concezione formalizzata del diritto penale: ciò significa che…
-le pene vengono tassativamente e previamente fissate
-esiste un limite al potere di punire, valicato il quale questo potere diventa illegittimo
IV: Poiché gli uomini, al fine di stipulare il contratto sociale, hanno ceduto solo il minimo
indispensabile della loro libertà,
e poiché la misura del diritto di punire è data dalla somma di tutte le minime porzioni di libertà
cedute,
ALLORA anche la misura del diritto di punire è minima: il diritto di punire, cioè, si riduce a ciò
che è strettamente necessario per la difesa sociale.
Dalla dottrina dei limiti del diritto di punire discendono due conseguenze:
♣ il diritto penale deve consistere in una legislazione minima necessaria, che consideri “reati” i
soli atti realmente nocivi alla società, la difesa dei quali appare irrinunciabile.
♣ quanto alla singola pena, per far si che essa ottenga il suo effetto, basta che il male che da
essa scaturisce sia superiore al beneficio che deriva dal delitto di quel tanto che basta a far
apparire al potenziale delinquente svantaggioso compiere il fatto criminoso.
IL PROBLEMA DELLA FUNZIONE DELLA PENA: L’IMPOSTAZIONE UTILITARISTICA DI
CESARE BECCARIA
Il fatto che Beccaria consideri la sanzione penale come la sofferenza minima necessaria apre il
dibattito sullo scopo da perseguire attraverso tale sanzione.
• Beccaria, infatti, esclude che lo scopo della sanzione penale sia quello della retribuzione, e cioè
del compenso del male con il male: il fine della pena, non è né di tormentare né di affliggere
l’essere umano. Dunque, anche se è impossibile scindere dalla pena una certa dose di
sofferenza, la sofferenza non ne è lo scopo ultimo. Per Beccaria, insomma, la pena non è vista
come una compensazione volta a ripristinare l’ordine giuridico violato in base ad una esigenza
etica di giustizia.
• Il fine della pena, invece, non è altro che quello di
impedire al reo di fare nuovi danni ai suoi cittadini
dissuadere i consociati dal fare gli stessi danni fatti dal reo
La pena, dunque, non guarda al passato, ma guarda al futuro, in quanto
-il colpevole non viene punito per ciò che ha commesso, ma viene punito perché non ricada nel
crimine
-i consociati vengano dissuasi dal delinquere perché intimiditi dalla prospettiva della sanzione.
Beccaria, dunque, accoglie la teoria che affida alla pena una funzione
e di prevenzione generale, e cioè di intimidazione dei consociati
e di prevenzione speciale, e cioè di neutralizzazione del delinquente
Egli percepisce l’idea della prevenzione penale come realizzabile a due livelli:
1. attraverso la minaccia legislativa della pena
2. attraverso l’inflizione giudiziale della pena stessa, in quanto è inevitabile che lo stato applichi la
sanzione che ha comminato.
• Nel pensiero di Beccaria, inoltre, non trova posto la c.d. teoria dell’emenda, che assegna alla
pena un compito di rieducazione e di risocializzazione del colpevole.
Il silenzio di Beccaria non può spiegarsi che in due modi:
72
che egli, sostenitore della laicità del diritto, ripugnava l’idea di assegnare allo stato un compito di
valutazione morale della coscienza del colpevole
che egli considerava la pena-emenda pericolosa per quanto riguardava la certezza del diritto:
poiché, infatti, la pena dovrebbe prolungarsi fino a quando non si sia verificata la rieducazione
dell’individuo, il giudice non potrebbe fissare previamente la sua estenzione, al punto che essa
potrebbe anche prolungarsi in eterno.
La dottrina di Beccaria, che rappresenta un po’ tutto l’illuminismo penale, tende a conciliare due
elementi altrimenti inconciliabili: quello utilitaristico e quello umanitario, vale a dire:
-il massimo contenimento della criminalità, a vantaggio della società e
-il minimo di afflizione per il deviante.
Concependo la pena esclusivamente come un mezzo di prevenzione, la dignità dell’uomo corre
gravi rischi: il delinquente, infatti, è “utilizzato” come deterrente collettivo. Entrando in questa
logica, si può giungere, in estremo, a giustificare anche la punizione dell’innocente.
E’ per questo motivo che il diritto penale odierno tende a basarsi su teorie miste, e cioè su teorie che
combinano insieme retribuzione e prevenzione.
I PRINCIPI POSTI A FONDAMENTO DELLA PENA DA CESARE BECCARIA
LEGALITA’ DEL DIRITTO PENALE
Il principio della subordinazione del diritto penale alla legge viene interpretato da Beccaria
con talmente tanta intransigenza, che la sua forza percorre tutto il libro che ha scritto.
Ciò che a Beccaria interessa veramente, dunque, è il rispetto del principio di legalità:
separazione del potere legislativo da quello giudiziario, ed esclusione dei giudici da qualsiasi
attività interpretativa: secondo Beccaria la funzione dei giudici è esclusivamente quella di
-valutare se l’azione dei soggetti sia conforme o meno alla legge
-erogare o meno la pena a seconda, appunto, del comportamento difforme o conforme alla legge
Dietro questa teoria della giurisprudenza meccanica è difficile non scorgere l’ombra di
Montesquieu.
Interpretazione letterale della leggeaccertamento del fattoformulazione automatica del
giudizio.
La codificazione,
-comportante l’automatica liquidazione di consuetudine, dottrina e giurisprudenza,
-e realizzata attraverso norme chiare
è, dunque, la condizione indispensabile per la certezza del diritto che, a sua volta, è la
condizione indispensabile per la libertà dei cittadini.
Secondo Beccaria, dunque, la certezza del diritto è utile perché in questo modo i cittadini
possono calcolare esattamente gli svantaggi che derivano loro dal delitto: la minaccia della
punizione, infatti, può funzionare da deterrente solo se i consociati conoscono in anticipo
l’elenco tassativo dei reati e
la misura esatta delle pene corrispondenti
In questo modo, inoltre, si impedisce che le pene siano arbitrarie.
PROPORZIONALITA’ DELLA PENA AL REATO
Secondo Beccaria, il legislatore, nel creare il codice, deve predisporre una scala di crimini in
termini di gravità:
73
-ai gradini più alti, le lesioni sociali caratterizzate da un grande disvalore
-ai gradini più bassi, le lesioni caratterizzate da un disvalore minimo.
A questa scala di delitti graduata per gravità, dovrebbe corrispondere una serie di pene
graduate per severità.
Ad ogni crimine la sua pena.
Nel fare ciò, il legislatore dovrà tenere conto del fatto che:
Se a due delitti diversi, corrisponde una pena uguale, gli uomini non si faranno
scrupoli a commettere il delitto più grave.
L’unica misura dei delitti è il danno fatto alla nazione, tanto che, chi considera che la
misura dei delitti sia l’intenzione di chi delinque, sbaglia: questa svalutazione della volontà del
reo, verrà rimproverata a Beccaria da criminalisti successivi, e costituisce, in effetti, il punto più
fallace di tutta la sua costruzione.
La valenza utilitaristica del proporzionalità della pena al reato è indiscutibile, in quanto la
proporzione è volta
-a prevenire il crimine
-a difendere la società.
Tuttavia, anche in questo caso, alla valenza utilitaristica si affianca quella umanistica, in quanto
si sente l’esigenza di non reprimere con pene eccessivamente severe infrazioni di lieve
rilevanza.
PRONTEZZA E INFALLIBILITA’ DELLA PENA
Secondo Beccaria, quanto la pena sarà più pronta (più vicina in termini di tempo) al delitto
commesso, tanto essa sarà più giusta e più utile.
Per lui, infatti, la pena assolve la sua funzione a patto che essa segua in tempi brevissimi il
delitto, generando nella società
l’associazione tra i due momenti
la certezza dell’infallibile consequenzialità della pena al delitto.
Uno dei freni più grandi a commettere un delitto, infatti, non è la crudeltà delle pene, ma
l’infallibilità di esse.
UGUAGLIANZA DELLA PENA PER TUTTI I CONSOCIATI
Nel nostro ordinamento, il destinatario delle norme penali è espresso dal termine “chiunque”,
termine con il quale ha generalmente inizio il testo degli articoli del codice:
esso si riferisce, senza distinzione, a tutte le persone fisiche che si trovano nel territorio dello
stato, e che sono provviste della c.d. capacità di diritto penale.
Ai tempi di Beccaria, invece, le cose stavano diversamente: il diritto era caratterizzato dal
particolarismo, particolarismo in virtù del quale il diritto penale variava a seconda
-dello status sociale del reo o
-della persona offesa dal reato.
Gli appartenenti alla nobiltà o al clero, ad esempio, beneficiavano di pene più miti.
Tutto ciò comportava una mancanza di unità del diritto penale: era una società stratificata in
classi, quella di Beccaria; una società gerarchizzata attraverso privilegi di ceto.
Nel suo scritto, invece, Beccaria prevedeva che ad ecclesiastici ed aristocratici venissero erogate
le stesse pene di tutti gli altri cittadini.
74
PERSONALITA’ DELLA PENA
Beccaria proclama il principio secondo cui la responsabilità penale è personale, in modo tale
da escludere la responsabilità per il fatto altrui: chi soffre la pena, cioè, deve essere
esclusivamente colui che ha commesso il crimine.
Beccaria dichiara tutto ciò quando denuncia la sostanziale ingiustizia della pena della confisca
dei beni del reo da parte dello stato: questa sanzione, infatti, comportava come conseguenza
automatica anche la rovina economica dei familiari del colpevole.
PUBBLICITA’ DELLA PENA
Altro concetto sul quale Beccaria ha insistito è il fatto che: la giustizia penale è un affare tra
Stato e reo, in cui non c’è posto per l’offeso dal reato.
Questo comporta due conseguenze:
• L’esclusione di qualunque ipotesi di remissione privata del reato:
in Lombardia, infatti, per i delitti di minor gravità si soleva liberare il reo dalla pena
quando la parte offesa lo perdonava.
Beccaria si scaglia contro questa pratica, certo del fatto che il diritto di far punire non è il
diritto di uno solo, ma è il diritto di tutti.
• L’inflizione della pena deve essere la conseguenza di un processo celebrato tutto
pubblicamente, e dunque un processo suscettibile di controllo esterno.
LAICITA’ DEL DIRITTO PENALE
Secondo l’idea della separazione del diritto penale dalla morale teologica, la giustizia umana
deve limitarsi a punire le azioni esterne, fattualmente lesive della società.
Solo la giustizia umana può
qualificare dei comportamenti come reati
esprimere un giudizio sulla loro colpevolezza giuridica.
Pertanto i reati sono tali non in quanto peccati, ma in quanto fatti puniti dalla legge.
La tendenza alla separazione dei due ambiti ha il fine di affrancare la libertà di pensiero
dell’individuo in campo morale e religioso da ogni ingerenza dello Stato.
Questi principi liberali, che implicano la depenalizzazione dei peccati, si pongono
controcorrente rispetto alla tradizione del diritto penale comune. Esso, infatti:
punisce con la pena del rogo i crimini di lesa maestà divina (come l’eresia)
e reprime con estrema durezza la bestemmia, le violazioni della morale sessuale, il tentato
suicidio.
Su questo terreno, Beccaria si muove con estrema prudenza.
Egli, tuttavia, si oppone alla tradizionale concezione che faceva del diritto penale lo strumento
per tutelare le cose religiose nel mondo.
UMANITA’ DEL DIRITTO PENALE
l’umanizzazione del diritto penale e
la riduzione dell’afflittività delle pene allo stretto necessario
sono i motivi di fondo di tutta l’opera di Beccaria.
Beccaria insiste contemporaneamente anche sul motivo utilitaristico:
lo scopo del diritto penale è quello di assicurare, in forma di prevenzione la massima utilità
possibile (cioè la massima sicurezza possibile) alla società.
75
Tuttavia, in Beccaria l’utilitarismo si subordina all’umanitarismo:
poiché il fine delle pene, infatti, non è quello di tormentare e affliggere l’uomo, la pena deve
essere la meno tormentosa sul corpo del reo.
Per comprendere come egli ragioni, occorre considerare che tipo di giustizia penale era presente
a quel tempo a Milano:
si tratta di un terrorismo punitivo e da un uso massiccio della pena di morte.
La sanzione penale, in genere eseguita tramite impiccagione, è però spesso preceduta da torture
volte ad aumentare il castigo o ad esaltarne la spettacolarità.
Quando, a dodici anni dall’apparizione del libro di Beccaria, la ormai sensibilizzata Maria
Teresa sollecita il parere del Senato Milanese sull’opportunità di abolire la tortura e ridurre la
pena di morte, i giudici del Senato, rispondono sbalorditi che l’unico mezzo per contenere i
crimini è proprio la pena di morte.
IL PROBLEMA DELLA PENA DI MORTE
Anche la pagina più famosa in assoluto di Beccaria, e cioè quella contro l’illegittimità della pena di
morte, non poteva non essere concepita dall’intreccio di utilitarismo ed umanesimo.
I passaggi con cui Beccaria giunge ad asserire la massima inviolabilità della vita umana sono i
seguenti:
1. che l’afflizione della pena di morte non è un diritto di cui lo stato possa avvalersi per contratto.
2. che la pena di morte non è necessaria, perché meno utile della detenzione perpetua.
1. argomento contrattualistico: la pena di morte non ha fondamento giuridico
La pena di morte non ha fondamento nel contratto sociale in quanto, quando gli uomini lo hanno
stipulato, essi hanno delegato sì il diritto di punire, ma hanno sacrificato ciascuno la minor porzione
di libertà possibile.
Dunque, si chiede Beccaria, come da quel minimo sacrificio della libertà di ciascuno, possa
scaturire il massimo sacrificio di tutti i beni, e cioè la vita.
Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.
2. argomento utilitaristico: la pena di morte non è né utile né necessaria.
Beccaria profila due ipotesi in cui la pena di morte può credersi non solo utile, ma addirittura
necessaria:
I. quando l’anarchia ha sopraffatto ogni ordine giuridico e ci troviamo in una anomala
situazione di guerra civile: in questo caso non c’è più Stato, il contratto sociale è sciolto e
l’uccisione del nemico pericoloso obbedisce alla legge della guerra.
Questo primo caso ipotizzato da Beccaria non si può neppure chiamare eccezione alla
regola, in quanto la regola è quella della non necessità della pena di morte in una società
civile.
Esso è, piuttosto, l’enunciazione della medesima regola, ma in modo capovolto.
II. quando la condanna a morte di un cittadino può credersi l’unico freno per contenere il
crimine.
Occorre, tuttavia, prestare attenzione a quel “può credersi”: Beccaria, infatti, vuol dire che si
potrebbe credere alla necessità della pena di morte come deterrente estremo.
Egli continua, poi, asserendo che, se verifichiamo questa ipotesi
in base alla storia, ci accorgeremo che ciò che ci sembra necessario in realtà non lo è, in
quanto la storia prova che la pena di morte non ha mai distolto gli uomini dal delinquere.
in base alla natura umana, ci accorgeremo, invece, che non è l’intensità della pena che
produce un effetto deterrente, ma la sua estensione:
76
Lo spettacolo della morte di un delinquente è terribile, ma passeggero.
Un uomo privo di libertà, invece, è il freno più forte contro i delitti.
Sostituire alla pena di morte, la pena della schiavitù perpetua è, dunque, la cosa migliore da
fare per trattenere un soggetto dal delinquere.
Secondo Beccaria, dunque, nell’ambito di un ordinamento giuridico funzionante, la pena di
morte non è utile e necessaria in nessun caso..
3. argomento morale: la pena di morte viola la sacralità della vita umana.
Secondo Beccaria poiché la vita di ogni uomo è sacra, gli altri uomini non ne possono disporre: la
distruzione della vita, dunque, è totalmente ingiusta.
L’umanizzazione del diritto penale era il risultato che a Beccaria importava di più conseguire,
vincendo sulla inutile pena di morte.
In conclusione, per fare cip, Beccaria ha puntato sulle poco convincenti motivazioni
dell’infondatezza giuridica e
della inutilità
…della pena di morte,
mettendo meno in evidenza l’argomento in cui egli credeva di più, e cioè quello della illegittimità
morale di questo tipo di pena.
BECCARIA E IL PROCESSO PENALE
Nel suo libro Beccaria mette bene in chiaro la massima sulla quale deve basarsi tutto il processo
penale:
nessun uomo si può considerare colpevole prima della sentenza del giudice.
Egli poi continua dicendo come invece quella massima venga quotidianamente applicata nella realtà
giudiziaria.
Se noi guardiamo al processo funzionante in europa al tempo di Beccaria, noteremo subito che esso
è un meccanismo antigarantistico, connotato principalmente da tre aspetti:
1. l’assenza della presunzione di innocenza dell’imputato
2. la preminenza dell’inquisitore sull’inquisito
3. l’identificazione del magistrato che promuove l’accusa e del magistrato che giudica nella stessa
persona.
Nella fase istruttoria, e cioè in quella fase del processo in cui l’inquirente cerca di accumulare
tutte le prove possibili a carico dell’accusato…
i capi d’accusa non vengono comunicati all’imputato
non è previsto nessun tipo di contraddittorio
si presume che l’imputato sia colpevole.
L’intevento del difensore si ammette solo alla fine del processo, e a questi, per presentare le
proprie eccezioni, sono concessi tempi brevissimi.
L’intero processo, dunque, funziona in base al sistema delle prove legali:
se durante il giudizio, nei fatti concreti, si verifica la presenza dei dati probatori normalmente
stabiliti dalla legge, allora il convincimento del giudice si determina automaticamente e senza
alternative.
Alla fine del processo, dunque, l’imputato dovrà risultare:
o convinto: e cioè inchiodato alle evidenze probatorie previste dalla legge
o confesso: e la convizione, regina delle prove, è considerato il dato migliore in assoluto.
77
Questo sistema, in teoria, funziona anche a protezione dell’inquisito, in quanto, poiché il giudice è
vincolato alla legge…
o c’è la provata che la legge, appunto, cataloga come “piena”
oppure si è assolti.
Nella pratica delle corti, invece, le cose vanno diversamente:
in mancanza di prove “piene”, e cioè di presupposti ottimali per la condanna, l’inquirente cerca di
acquisire un certo numero di prove c.d. “semipiene” che, accumulate l’una con l’altra, possono
infine, tutte insieme, costituire una prova piena.
Se gli indizi a carico dell’inquisito sono deboli, il magistrato potrà infliggere una pena
straordinaria, vale a dire una sanzione minore di quella prevista dalla legge.
Ciò che importa è punire.
Se il delitto, invece, è grave e socialmente allarmante e gli indizi appaiono calzare univocamente,
ed è solo a causa del rigore formale del sistema che manca la prova “piena”, allora in questo caso
subentra la tortura:
qualora il giudice scelga questo espediente per verificare le proprie convinzioni, allora l’inquisito è
psicologicamente dissolto come persona: egli diventa semplicemente una cosa parlante, da cui
estrarre pezzo pezzo l’ammissione.
Beccaria, dunque, denuncia l’ingiustizia del rito della confessione, in quanto esso permette che
l’uomo cessi di esistere come “persona” e diventi “cosa”. Dal momento che egli postula la
presunzione di innocenza a fondamento dell’individuo, è normale che giunga a considerare
sbagliato l’intero sistema.
Occorre dunque abbandonare il meccanismo delle prove legali, in quanto:
anche se è vero che esso vincola il giudice ad infliggere la pena solo in presenza di una prova
piena
è anche vero che, laddove la prova risulti insufficiente, il giudice risulta legittimato a procurarsi
la prova attraverso la tortura.
Quindi:
A)
ESISTENZA DI EVENTUALE TORTURA PER CONDANNA ALLA
UNA PROVA PIENA OTTENERE IL NOME DEI COMPLICI PENA EDITTALE
B)
INESISTENZA DI PROVE 1. CONDANNA DEL SEMI-REO
PIENE, MA PRESENZA DI SCELTA ARBITRARIA AD UNA PENA
PROVE “SEMIPIENE”, DEL GIUDICE TRA STRAORDINARIA
INDIZI E PRESUNZIONI (MINORE DI QUELLA
EDITTALE)
2. TORTURA
CONFESSIONE
CONDANNA ALLA PENA
EDITTALE
78
C)
INESISTENZA DI
DATI INDIZIARI ASSOLUZIONE
Secondo Beccaria, dunque, a questa logica processuale deforme va sostituito il criterio del libero
convincimento del giudice:
è un giudice terzo che, affiancato da altri uomini scelti mediante sorteggio, deve valutare
liberamente le prove.
L’abbandono del sistema delle prove legali, produrrà
il ridimensionamento dello sproporzionato valore dimostrativo attribuito alla confessione
e la soppressione della tortura, mezzo disumano usato per ottenere la confessione stessa.
CONCLUSIONI: LO SPIRITO DELL’OPERA DI BECCARIA
Il capolavoro di Beccaria nasce nel momento in cui egli si mette a ragionare sul diritto penale del
suo tempo, chiedendosi se esso sia giusto:
Beccaria, infatti, sta osservando con profondo dispiacere che ci troviamo di fronte ad un diritto
ingiusto, perché non fondato sul valore dell’umanità.
Beccaria, dunque, scrive il suo libro con l’intento:
di difendere gli interessi dell’umanità
di stabilire i confini del giusto e dell’ingiusto, necessari nel processo di codificazione di un nuovo
diritto penale.
anche se, dunque, i confini del giusto e dell’ingiusto, in un primo momento sembrano
coincidere con quelli dell’utile o del dannoso alla società
occorre sottolineare il fatto che, a dispetto dei temi utilitaristici, in Beccaria a prevalere è
comunque l’esigenza umanitaria: nel testo di Beccaria, cioè, ad un certo punto giustizia e utilità
non sono più concetti accoppiati, ma concetti dissociati:
ogni volta che le leggi permettono che l’uomo cessi di essere persona e diventi cosa, non c’è più
libertà.
L’INFLUENZA DI CESARE BECCARIA SUGLI EPIGONI (=seguaci) ITALIANI DEL DIRITTO
COMUNE
In relazione alla loro grande attualità, le pagine di Beccaria debbono essere considerate importanti
non solo suggerivano la codificazione del diritto penale secondo i principi espressi nel libro,
MA ANCHE perché esse esercitarono grande influenza su alcuni legislatori di fine ‘700 (ad
esempio Giuseppe II e Leopoldo d’Asburgo, suo fratello).
Non solo. In Italia il libro di Beccaria fu il principale mezzo attraverso cui molte dottrine
umanitarie penali riuscirono a valicare le barriere imposte fino ad allora dal diritto comune.
o Il primo criminalista che tecnicizzò le idee di Beccaria sulla giusta pena e sul giusto processo,
calandole tuttavia negli schemi irrinunciabili del diritto comune, fu Paolo Risi:
o Sulla scia di costui, e del filone romanistico-beccariano perseguito da questi, si mossero tanti
altri illustri criminalisti, italiani e non (in quanto l’influenza che Beccaria esercitò fu a livello
europeo).
Questi giuristi possono essere definiti come “traghettatori”, perché attivi nel momento del
trapasso dal diritto comune all’età dei codici.
79
PARTE TERZA:CODIFICAZIONI E TENTATIVI DI CODIFICAZIONE
DELL’ASSOLUTISMO ILLUMINATO
SEZIONE I:
AREA RUSSA
Cultura e politica nella Russia di Caterina II
LA POLITICA DEL DIRITTO DI CATERINA II
Quando nel 1762 Caterina, principessa di sangue tedesco imbevuta di cultura francese, diventa una
Romanov, è destinata a regnare per quasi mezzo secolo su un impero immenso.
Per usare le parole di Cordero, ella si rivela un “animale magnificamente riuscito”:
a spese dei servi della gleba, si assicura l’appoggio della nobiltà
e mette in piedi un progetto politico ambiziosissimo: quello di ricondurre sotto il suo controllo il
caotico diritto del suo sconfinato impero, ristrutturandolo secondo i canoni della ragione, idonea a
conformarsi alla particolare situazione di ogni popolo (in questo caso alla situazione della società
russa).
LA CULTURA ILLUMINISTICA DI CATERINA II
L’idea di Caterina è quella della ragione relativa teorizzata da Montesquieu. Ella infatti
considera l’opera di Montesquieu il suo breviario
ha letto e riletto le pagine di Beccaria, che invano ha invitato a San Pietroburgo
corrisponde con Voltaire, che si professa suo adulatore e sacerdote
sceglie come proprio consulente Diderot.
E’ in questo modo che l’illuminismo entra nella Russia assolutista di Caterina II.
Il progetto di codificazione del 1766-74
LE ISTRUZIONI PER LA REDAZIONE DI UN NUOVO CODICE DI LEGGI (1766)
Nel 1766, Caterina convoca in Assemblea Generale 652 deputati, rappresentanti di tutte le province
e di tutti i ceti sociali dell’Impero, esclusi i servi: saranno proprio costoro a porre in essere la grande
ricompilazione razionale del diritto ideata dall’imperatrice.
Per venire a capo di un’impresa tanto grande, tuttavia, occorrono direttive precise, direttive che
Caterina ha già preparato e che, nel giorno di apertura solenne dell’Assemblea, ogni deputato si
vede consegnare: si tratta
delle “Istruzioni per la redazione di un nuovo codice di leggi”: contenenti
-le concezioni illuministiche sulla forma di governo,
-l’organizzazione della società civile,
-l’amministrazione della giustizia
-le leggi penali ritenute più adatte al popolo russo
Le Istruzioni sono essenzialmente un collage delle pagine di Montesquieu e di Beccaria, che
Caterina, ammettendo il proprio plagio, confessa impudentemente di aver riprodotto.
e di un “regolamento” volto a disciplinare l’andamento e il metodo dei lavori di progettazione.
IMPORTANZA E FORTUNA DELLE ISTRUZIONI DI CATERINA II
I lavori delle Commissioni continuano fino al 1774 per poi insabbiarsi, senza risultati apprezzabili,
nel clima di raffreddamento reazionario dovuto:
-al conflitto coi turchi
80
-alla crisi polacca
-alla rivolta popolare
Nonostante il fallimento, tuttavia, le Istruzioni di Caterina II conservano una loro importanza, in
quanto esse sono una delle prime ufficiali traduzioni in progetto operativo delle dottrine
illuministiche recepite da un sovrano assoluto.
Anche se non sappiamo se Caterina si aspettasse o meno il naufragio della sua impresa, ciò che è
certo è che ella, con grande attenzione per la sua immagine, promosse la pubblicizzazione delle
Istruzioni…
• calamitando su di sé le attenzioni dei philosophes
• e realizzando l’obiettivo di farsi conoscere nell’intera Europa dei lumi come mitica legislatrice
…tanto che le Istruzioni, tradotte in nove lingue, raggiunsero fulmineamente un livello di notorietà
straordinario, consacrandosi come modello di saggezza legislativa.
81
SEZIONE II:
AREA PRUSSIANA
La politica del diritto di Federico II di Prussia
STATO E “STATI” SOCIALI NELLA COSTRUZIONE DEL REGNO DI PRUSSIA DA
FEDERICO GUGLIELMO I A FEDERICO II
Occorre ora vedere come prenda avvio la codificazione del diritto nella Prussia dell’assolutismo
illuminato di Federico II.
Quando inizia il suo lungo regno, Federico II
• sviluppa i risultati della politica centralizzatrice condotta dal padre Federico Guglielmo I,
passato alla storia come il “re sergente”
• eredita la tradizione familiare secondo cui la regalità si identifica nel servizio reso allo Stato
attraverso un regime finalizzato al bene comune, che per raggiungere questo obiettivo sovrasta tutto
e tutti.
L’austero re sergente (nessun fasto, una vita di corte disadorna e spese di palazzo ridotte al
minimo) non poteva di certo trasmettere al figlio i raffinati gusti intellettuali che lo hanno attratto
verso le teorie dei lumi.
TUTTAVIA del padre Federico II
-conserva la concezione della funzione regale come estranea dagli eccessi di ornamento
-mantiene e rafforza un regno che ha fatto delle quattro province autonome presenti uno stato
unitario, strutturato in un razionale apparato amministrativo:
dal Gabinetto privato del monarca partono gli ordini, ordini che disciplinano il funzionamento
delle tre istituzioni principali e cioè
il Generaldirektorium: affari finanziari, demaniali e militari
il Kabinettsministerium: politica estera
il Geheimer Rat: giustizia e culto
Quest’ultimo organo è il rappresentante collegiale dei ceti in cui la società tedesca si
suddivideva: questa società era suddivisa in tre Stati:
-nobiltà
-borghesia cittadina
-contadini
ciascuno con propri privilegi e proprio diritto consuetudinario.
Ci troviamo dunque di fronte ad uno “Stato di stati”: in particolare nobiltà e borghesia cittadina
si erano organizzate in rispettive assemblee rappresentative interlocutrici del sovrano,
interferendo con per mezzo dei loro poteri di controllo e di blocco nella politica militare o
finanziaria del re.
L’opera di centralizzazione territoriale ed istituzionale intrapresa da Federico Guglielmo II non
fece comunque scomparire la bipolarità sovrano-stati, in quanto nel regno unificato di questo
monarca l’autonomia dei ceti sopravvisse esprimendosi, appunto, nel Geheimer Rat.
Anche se, tuttavia, i principali poteri di questo organo vennero via via esercitati dal
sovrano...
...agli stati restò comunque la loro antica funzione di struttura portante della tripartita società
civile, società civile che nell’ambito dei rapporti privati rimaneva una società cetuale, tanto che
ciascun ceto
-veniva governato dalle proprie norme
-era contraddistinto da specifici diritti e privilegi.
82
Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.
LA RIFORMA DELL’ORGANIZZAZIONE GIUDIZIARIA E DELLA PROCEDURA:
LE CONVINZIONI DI POLITICA DEL DIRITTO DI FEDERICO II,
L’OPERA DI SAMUEL COCCEJUS E L’ALLGEMEINE GERICHTSORDNUNG DEL 1781
Occorre a questo punto guardare a ciò che Federico II intraprese sul piano della politica legislativa,
politica mirante alla costruzione di un diritto sostanziale (=è il diritto contrapposto a quello
processuale, ossia un diritto che non prevede norme di procedura) e processuale specificatamente
prussiano.
La politica del diritto di Federico II mira
ad eliminare il diritto romano
a preparare un diritto territoriale tedesco a base prussiana che si fondi sulla ragione naturale.
Anche se, pur essendo un’opera idealmente perfetta, un corpus legislativo capace di prevedere
tutti i casi sarebbe impossibile da realizzare, il legislatore, secondo Federico II, dovrebbe
eleggere questa opera a proprio modello ideale, favorendo la felicità pubblica con un diritto
ragionevole, e cioè con leggi
-chiare
-precise
-unificate senza contraddizioni in un solo corpus
-proporzionate in quanto alle pene
-escludenti l’uso della tortura quanto al regime probatorio
-adatte allo spirito della nazione cui sono destinate.
Un progetto, questo, perfettamente illuministico, MA con un ingrediente in meno, in quanto non
è presente l’idea per cui l’uguaglianza giuridica dei sudditi si ottiene attraverso la loro
subordinazione ad un identico diritto civile,
sia perchè la società prussiana è giuridicamente tripartita nei tre stati
sia perché si vuole sostituire al diritto romano un diritto che mantenga le barriere di classe, e
che risulti diversificato per ciascuno dei tre stati sociali.
Con una ordinanza del sovrano, l’organizzazione dell’impresa riformatrice viene affidata al
vecchio ma lucidissimo cancelliere Samuel Coccejus.
Grande giurista e romanista, nella sua opera Coccejus evidenzia l’armonia tra diritto romano
e diritto naturale, topos alquanto pericoloso visto l’antiromanesimo del sovrano!
Quando però, nel 1746, per ordinanza di Federico, egli si mette all’opera per riformare la
giurisdizione, i due progetti (di legislazione giudiziaria e processuale) che egli presenta sono un
successo:
Dei due progetti il secondo, che è un perfezionamento del primo, entra in vigore in tutta la
Prussia nel 1781, come regolamento giudiziario e codice di procedura civile, sotto il nome di
Allgemeine Gerichtsordnung.
Questa disciplina prussiana dell’organizzazione giudiziaria e procedurale rappresenta
storicamente il primo esempio di un testo normativo che entra in vigore con tutti i requisiti
tecnici ad oggi attribuibili al termine di “codice”.
Con
-l’accoglimento di forme più snelle
-e l’introduzione di alcuni momenti di trattazione orale,
questo testo segna un primo allontanamento dal tradizionale processo di diritto comune,
processo dal funzionamento rigoroso.
83
La sentenza deve essere motivata e viene pronunciata da un giudice
-severamente selezionato per merito e
-minuziosamente controllato nella sua attività (tecnicizzata) di burocrate della giustizia
E’, questa, una giustizia uguale per tutti, che sovrasta anche il sovrano, le cui eventuali
interferenze con il codice vengono disattese.
IL PROGETTO DI UN “CORPUS IURIS FRIDERICIANUM”: SUA FORMAZIONE E SUO
INSUCCESSO
Per quanto riguarda la seconda, non altrettanto fortunata, impresa di Coccejus, e cioè il Progetto del
“Corpus Iuris Fridericianum”, presentato come diritto territoriale fondato sulla ragione e sulle
costituzioni del paese, esso è diviso in tre parti, la terza delle quali non vedrà mai la luce,
inabissandosi a causa delle difficoltà incontrate.
In compenso, le due parti del progetto pubblicate faranno il giro d’europa con il titolo di Code
Frédéric, e saranno osannate dagli illuministi come trionfo della ragione sulle barbarie giuridiche.
Ma se gli illuministi tessono i loro elogi…
secondo Federico secondo, tuttavia, il Code Frédéric è inaccettabile: tante norme tutte troppo
prolisse e discorsive, di ispirazione romanistica, e distanti dalle tradizioni tedesche. Inoltre, mentre
Federico esigeva un diritto diversificato per gli status sociali, Coccejus trascura i particolarismo,
tendendo all’unificazione del soggetto di diritto.
Quando, dunque, Coccejus muore, il Code Frédéric…
in Prussia, dopo le tante critiche ricevute, viene definitivamente riposto nel cassetto
fuori dalla Prussia, diventa un mito.
L’ “allgemeines landrecht” prussiano del 1794
IL PROCESSO FORMATIVO DELL’ALR
La codificazione del diritto prussiano non riuscita a Coccejus riuscì invece ad una equipe di giuristi
attivi negli ultimi anni di regno di Federico II: non essendo infatti un uomo abituato a rinunciare ai
propri programmi politici, Federico ordinò al gran cancelliere del momento, Carmer, di avviare
nuovamente i lavori per la grande riforma.
Fu così che Carmer riunì intorno a sé un gruppo di specialisti che si distinguevano per capacità
tecniche e dottrinali: costoro avevano il compito di elaborare un progetto da sottoporre parte dopo
parte al giudizio di una apposita commissione legislativa e a quello di professori.
Il primo progetto non giunse alla promulgazione. Tuttavia esso conteneva tutti gli elementi
orientativi perché vi giungessero i progetti successivi.
Il secondo progetto, invece, fu promulgato dal nuovo sovrano di Prussia Federico
Guglielmo II: esso, tuttavia, non portava il titolo di codice (Gesetzbuch), bensì quello di “diritto
territoriale” (Landrecht). Tuttavia, pur se il destino aveva escluso Federico II dalla promulgazione
dell’Allgemeines Landrecht (spesso chiamato con la sigla ALR), questo monumento legislativo
esibiva lo stesso la paternità di chi lo aveva fortemente voluto: si può dire infatti che esso
contenesse, in un certo qual senso, la traduzione della politica del tardo assolutismo illuminato di
Federico.
L’ALR sarebbe rimasto in vigore fino al 1900, anno della promulgazione del codice civile tedesco.
STRUTTURA E MATERIE DISCIPLINATE
L’ALR si compone
84
di una Introduzione dedicata alle leggi in generale
e di due libri.
Il primo libro ricomprende quasi interamente le materie che noi oggi consideriamo attinenti al
diritto civile.
Il secondo libro, invece, oltre a disciplinare la parte di diritto civile non trattata nel primo, tratta il
diritto pubblicistico e il diritto penale.
Visti dunque la struttura e i contenuti dell’ALR, si può ben dire che ci troviamo di fronte ad un
codice di vastità enciclopedica che, ben lontano dalla concezione romana, considera la persona
come soggetto di diritto…
privato, e cioè come individuo singolo, che si rapporta ad altri individui singoli
pubblico, e cioè come individuo parte di una comunità (famiglia, corporazione professionale,
Stato).Questo codice, quindi, ha una concezione globale del soggetto, in quanto esso include anche
le manifestazioni del suo spirito di associazione.
DUNQUE…
mentre il primo libro destina le sue norme tendenzialmente ad un unico soggetto giuridico, che
risulta titolare di generali diritti e doveri
nel secondo libro il soggetto si scinde in una molteplicità tipologica di soggetti, ciascuno con
diritti e doveri diversificati a seconda della categoria di appartenenza.
Per quanto riguarda invece l’inclusione, nel codice, del diritto penale, questa è dovuta al fatto che al
momento della sua promulgazione, il diritto penale era considerato come un complesso di divieti
attribuiti al soggetto nell’ambito dell’ordinamento civile, diritto civile che, dunque, veniva appunto
rafforzato, in via sussidiaria, da un complesso di precetti ulteriormente sanzionatori.
LA TEORIA DELLE FONTI A FONDAMENTO DELLA CODIFICAZIONE
Un elemento che rende inconfondibile l’ALR è la posizione che il legislatore gli assegna rispetto
alle fonti del diritto previgente:
la promulgazione del codice prussiano, infatti, comporta l’abrogazione in toto del diritto romano
comune.
TUTTAVIA, questo non significa che dalla Prussia scompaia il binomio ius commune-iura
propria:
l’ALR, infatti, si pone esso stesso come diritto comune, in quanto si sostituisce al diritto romano
nella sua funzione di norma generale sussidiaria rispetto alle consuetudini, consuetudini che,
dunque, restano in vigore e si situano ad un livello gerarchico più alto rispetto all’ALR.
Non si può quindi dire che l’ALR elimini il particolarismo giuridico prussiano, inaugurando l’unità
del diritto per tutto lo stato: il codice prussiano, al contrario, preserva e consacra il particolarismo,
in quanto esclude volutamente l’uguaglianza giuridica dei soggetti.
Esso, dunque, potrebbe collocarsi meglio nell’ambito delle raccolte di leggi settecentesche,
piuttosto che tra le codificazioni moderne.
BENE COMUNE, DIRITTI E DOVERI DI CIASCUNO, MOLTEPLICITA’ DI TIPI DI
SOGGETTO GIURIDICO: I PRINCIPI ISPIRATORI
La concezione filosofica che ispira l’ALR si desume da alcuni principi generali enunciati
nell’Introduzione. Essa è, contemporaneamente, una concezione semplice e complessa:
semplice, perché si riassume nell’idea per cui il bene comune di cui lo stato è tutore prevale sul
bene individuale. Pertanto tutti i sudditi…
85
-sono tenuti a cooperare per la realizzazione di questo bene collettivo
-sono tenuti a sacrificare i propri interessi individuali alla realizzazione dell’interesse pubblico.
complessa, perché i doveri di cooperazione e i diritti comprimibili di ciascun soggetto variano a
seconda dello status o del corpo sociale (stand) a cui questo appartiene.
La concezione filosofica che ispira l’ALR, dunque, è una ideologia apparentemente ugualitaria, ma
sostanzialmente discriminatoria, in quanto fedele al tradizionale modello di società differenziata per
ceti.
Gli stand (o ceti) di cui si compone la società prussiana, in funzione dei quali l’ALR è strutturato,
sono tre:
1- Lo stand dei contadini
Allo stand dei contadini appartengono tutti coloro che praticano attività agricole. Esso si divide in
due sottostati:
quello dei contadini liberi
quello dei contadini servi
La condizione di contadino, cioè di chi è legato alla terra perché possiede, per via ereditaria, un
feudo limita chi vi appartiene…
nella libertà di scegliere il lavoro: in quanto è fatto divieto di esercitare mestieri extra-agricoli
nell’esercizio del diritto di proprietà: in quanto si ha l’obbligo di coltivare adeguatamente il
proprio podere, ed è fatto divieto di ridurne la produzione
nella libertà di circolare.
Particolarmente pesante è la condizione del contadino servo, che, praticamente, vive in una
condizione di schiavitù.
Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.
2- Lo stand dei nobili
Ai nobili è affidata
la difesa dello stato
il sostegno della sua dignità esterna
il sostengo della sua costituzione interna.
Anche per quanto riguarda la nobiltà, le norme di diritto speciale relative a costoro vanno ad
aggiungersi e a modificare il diritto civile: norme che vanno dal divieto di esercitare professioni
considerate non degne del rango, ad un distinto regime di matrimonio.
3- Lo stand dei cittadini (o borghesi)
Meno contraddistinto da norme istituenti privilegi, esenzioni e limitazioni è lo stand dei cittadini.
In Prussia i cittadini sono semplicemente coloro che hanno titolo per risiedere in una città e che, per
esclusione, non sono né nobili né contadini.
I diritti di costoro sono regolati:
in primis, dagli statuti delle singole città di appartenenza
in via sussidiaria, dalle norme di diritto comune generale dell’ALR.
La categoria dei cittadini, dunque, risulta la meno interessata alle particolarizzazioni dell’ALR del
II libro, e la più interessata alle norme di diritto privato generale del I libro.
86
LA TECNICA LEGISLATIVA
Dettare regole
• per più tipi di soggetto giuridico
• e contemporaneamente anche per più settori del diritto
portò il legislatore prussiano a creare un testo prolisso ed intricato: l’ALR, infatti, è il codice meno
semplice e maneggevole che si possa immaginare.
TUTTAVIA
il rigoroso spirito sistematizzante che animava i giuristi autori del progetto fece sì che il gran
numero dei paragrafi si incanalasse, mediante degli itinerari complessi ma logici, in schemi
organici. E’ per questo motivo che, essendo lo stile chiaro e lineare, l’ALR risulta nel complesso
uno scritto di sapienza giuridica.
LA SOLUZIONE DEL PROBLEMA DELL’INTERPRETAZIONE DELLE NORME
Conformemente alle istruzioni di Federico II, che da buon illuminista aveva accolto alla lettera il
dogma della sottoposizione del giudice alla legge…
il progetto di codice, vietava al magistrato qualsiasi interpretazione delle norme
obbligandolo, in caso di dubbio interpretativo, a richiedere l’interpretazione della
Commissione legislativa.
il testo dell’ALR entrato in vigore, invece, concedeva al giudice il ricorso…
-all’analogia legis (e cioè alle norme che disciplinano i casi simili)
-all’analogia iuris (ossia ai principi generali del diritto).
La soppressione della Commissione legislativa, consolida l’immagine di un codice che,
ambiziosamente, si pretende privo di lacune perché casisticamente completo fin nei minimi
dettagli. Essendo stato creato dalla ragione, infatti, esso può benissimo fare a meno di ogni
integrazione giurisprudenziale o dottrinale.
LE NORME DI DIRITTO PENALE
Nell’ambito del II libro dell’ALR, i paragrafi del titolo 20° (paragrafi che chiudono l’intero
codice) rappresentano il diritto penale fridericiano che rimarrà in vigore in Prussia fino al 1851:
fin dal 1740, Federico ha abolito in Prussia la tortura giudiziaria:
egli, infatti, invoca una riforma umanitaria della repressione penale, pronunciandosi in favore
-del principio della proporzionalità della pena al reato
-della responsabilità del volere umano, ponendo dunque a fondamento della punibilità la
consapevolezza del soggetto.
Più volte, inoltre, egli si pronuncia in favore della funzione simultaneamente
-general-preventiva
-special-preventiva
-e risocializzatrice
da affidare alla pena.
Il diritto penale dell’ALR, appare assolutamente fedele
-alle suddette concezioni fridericiane
-nonché alla logica della prevenzione e del controllo sociali.
87
Il testo…
è introdotto da una parte generale (“Dei delitti e delle pene in generale”), in cui sono
delineati i principi e le categorie dogmatiche sui quali si regge la repressione di ogni singolo
delitto.
prosegue con una parte speciale, organizzata in un articolatissimo complesso di fattispecie
criminose, concepite secondo una precostituita gerarchia di beni giuridici penalmente protetti.
Occorre sottolineare il fatto che le norme del titolo 20°, a differenza di quasi tutte le altre norme
contenute nell’ALR
rispetto ai diritti provinciali non hanno valore sussidiario bensì valore primario.
sono munite col sigillo del principio di legalità, che blocca la possibilità di ricorrere
all’analogia, concessa invece al giudice in ambito civilistico.
Anche se è vero, quindi, che il magistrato può elevare il grado della pena indicata dal codice fino ad
un massimo legale, è anche vero che la tipica avversione illuministica nei confronti dell’arbitrio
giudiziale spinge il sospettoso legislatore a difendersi dalle manipolazioni dei magistrati attraverso
una cura esasperata del dettaglio casistico:
per meccanizzare quanto più possibile l’attività del giudice, i redattori del testo riducono l’intera
materia della parte speciale al maggior numero possibile di fattispecie, sottoponendo in questo
modo a sanzioni penali specifiche le varie modalità in cui un reato può essere commesso.
Neanche la normativa penalistica dell’ALR può definirsi “a soggetto unico”:
essa, infatti, racchiude un diritto qualificabile come “cetuale”, vale a dire come diversamente
operativo a seconda dello status sociale di appartenenza del reo o della persona offesa dal reato.
Nella parte speciale, infatti, viene sgretolato il principio (enunciato nella parte generale) che impone
l’uguaglianza di tutti i consociati di fronte alla legge:
nel determinare il tipo di pena, infatti, il legislatore dell’ALR tiene conto della classe a cui il reo
appartiene: distinzione, questa, che non significa parzialità, ma attinenza alla natura delle cose.
Se consideriamo tutto ciò, ecco spiegato perché L’ALR…
commina ai non abbienti (e in generale agli appartenenti alle classi più umili) pene detentive e
corporali in sostituzione di quelle pecuniarie, invertendo la regola laddove il reo provenga da un
ceto elevato.
ai reati contro l’onore, elemento legato alla dignità di rango, sia dedicato un trattamento tanto
differenziato a seconda dell’appartenenza di classe: così che…
-le ingiurie che intercorrono tra nobili e ufficiali dell’esercito sono severamente punite
-le ingiurie che intercorrono tra persone del ceto contadino, invece, vengono punite lievemente.
La punizione, poi, varia a seconda che l’offesa sia arrecata
-dal dipendente al superiore o dal superiore al dipendente
-dal servo al signore o dal signore al servo.
Per quanto riguarda, poi, la tipologia delle pene,
è evidente, nel testo prussiano, la tendenza ad ampliare l’area di applicazione delle sanzioni
detentive e pecuniarie, secondo un orientamento ispirato al concetti di umanizzazione e
proporzionalizzazione delle misure punitive.
88
TUTTAVIA, per i reati più gravi (in particolare quelli contro lo stato) la pena di morte è pur
sempre contemplata: l’esplicita volontà di dissuadere il pubblico dal delinquere, fa sì che il
legislatore preveda diverse forme terroristiche di esecuzione della pena:
il condannato alla forca o al rogo, per esempio, può essere trascinato al patibolo dopo aver subito il
supplizio della ruota.
Questo legislatore amante del macabro in nome del bene pubblico, con discutibile rispetto per il
principio di proporzionalità della pena, non esita a confiscare i beni e a comminare la pena del
carcere o dell’esilio anche ai figli del colpevole di alto tradimento.
In omaggio alla politica di neutralizzazione e risocializzazione del delinquente, l’ALR dà vita ad
un sistema detto del “doppio binario”:
i condannati giudicati socialmente pericolosi, scontata la pena, possono essere trattenuti in carcere o
inviati in case di lavoro in cui resteranno finchè non avranno dato prova di ragionare rettamente in
fatto di lavoro ed onestà:
il momento in cui questa maturazione morale arriverà, tuttavia, non può essere previsto dalla legge,
in quanto lo mostreranno i fatti.
LA FORMULA DI CODIFICAZIONE, IL PROGRAMMA POLITICO, IL MODELLO
ANTROPOLOGICO: VALUTAZIONE CONCLUSIVA
Per coglierne l’identità complessiva, l’Allegemeines Landrecht può, a questo punto, essere valutato
sotto tre profili essenziali:
1- Per quanto riguarda il concetto di codice che si fa strada al momento della sua promulgazione,
l’ALR può essere definito un testo legislativo semimoderno, in quanto…
Dal punto di vista
-dello stile legislativo
-dei contenuti
-della disciplina dell’interpretazione,
esso realizza in modo ottimale ciò che noi designamo come codice.
MA dal punto di vista
-dell’unificazione del diritto statuale
-dell’unificazione del soggetto di diritto
-e della separazione del diritto civile da quello penale,
l’ALR non è affatto un codice moderno, in quanto esso non incarna un unico diritto per una società
composta da persone giuridicamente uguali.
2- Sotto il profilo ideologico-politico, l’ALR
da un lato, è il frutto di un sovrano che può essere considerato come il grande iniziatore
dell’assolutismo illuminato, assolutismo illuminato che…
-si legittima attraverso il contratto
-si basa sull’etica del servizio dello Stato.
dall’altro, è il codice voluto da un despota che ha inteso salvaguardare il proprio potere
conservando
-la rigida distinzione delle classi sociali e dei loro separati diritti
-il compromesso con una nobiltà privata di potere politico ma non toccata nei suoi privilegi di
rango.
E’ proprio sotto questo punto di vista che cogliamo la contraddizione di fondo dell’ALR:
89
in poche parole Federico il Grande, attraverso questo codice fatto di razionalità e insieme di
tradizione cetuale, ha preteso di guidare verso il bene comune una società mummificata.
Alexis de Tocqueville, con una lucidità impietosa, formula, nell’800, il giudizio più incisivo su
questo codice, definendolo “un essere mostruoso sotto una testa tutta moderna”. Secondo lui, infatti,
il codice prussiano è il più recente documento legislativo che legalizza quelle ineguaglianze feudali
che la Rivoluzione francese stava per abolire in tutta Europa.
3- Se infine nell’ALR cerchiamo di cogliere l’antropologia che ha guidato il legislatore, vedremo
che…
in fatto di infantilizzazione delle masse, Federico la pensa come Voltaire:
tuttavia non devono essere coloro che pensano ad educare e dirigere al bene gli sprovveduti sudditi,
bensì è lo stesso sovrano, “domestico dello stato”, che deve realizzare la massima felicità possibile
del suo popolo:
egli è il tutore, l’educatore e il castigatore dei suoi sudditi che, ceto per ceto, devono obbedire, nei
limiti della propria condizione sociale, ai comandi del despota illuminato dalla ragione.
Quando assolutismo ed illuminismo si uniscono, essi danno vita ad una forma di potere detta
paternalismo: Federico è il padre dei suoi cittadini, e come tutti i buoni padri difende, istruisce e
punisce.
Uomo realista, Federico sa che gli esseri umani non sono né angeli né demoni, ma semplicemente
persone che si agitano nella società, stretti fra una condizione di debolezza e di fragilità: occorre
dunque che il pedagogo insegni, avverta, ammonisca e, in caso si sia fatto cattivo uso della propria
libertà, punisca.
Quella dell’ALR è una società in ginocchio:
-il servo è in ginocchio di fronte al signore feudale
-l’impiegato dinanzi al direttore
-il figlio davanti al padre
-e tutti, in massa, lo sono nei confronti del sovrano illuminato, dal quale piovano le più diverse
prescrizioni sul vivere quotidiano.
90
SEZIONE III:
AREA AUSTRIACA
La codificazione del diritto civile
LA POLITICA RIFORMISTICA DI MARIA TERESA D’AUSTRIA
Maria Teresa D’Austria che regna tra l’ascesa e il tramonto dell’illuminismo europeo.
Quando sale al trono d’Asburgo, Maria Teresa eredita il doppio titolo di
-regina della casa d’Austria e di
-cattolica imperatrice del Sacro Romano Impero,
ritrovandosi in questo modo a regnare su un universo polito ampio e multietnico formato da:
• I territori ereditari di lingua tedesca (Austria, Boemia, Moravia, Slesia, Carinzia, Carniola,
Tirolo, Gorizia, Trieste, Volande)
• Ungheria
• Paesi Bassi
• e Lombardia.
Comunque la si voglia etichettare, Maria Teresa ha una concezione della sovranità completamente
tutelare e patriarcale, concezione, questa, unita ad uno spiccato istinto di conservazione del potere.
Tutto ciò spiega come Maria Teresa capisca ben presto l’incompatibilità intercorrente tra le
prerogative detenute anche in area austriaca dagli Stande e l’esigenza di un primato della
attribuzioni regali.
Se, dunque, i primi passi di Maria Teresa nell’ambito dei provvedimenti da compiere appaiono
cauti,
di anno in anno la sua azione diventa sempre più precisa
sino a giungere ad un vero e proprio programma riformatore, basato sulla riconduzione allo
stato della intera attività di produzione ed applicazione del diritto.
Senza abbandonare le strade battute dai suoi predecessori, Maria Teresa si circonda di collaboratori
illuminati che la influenzano su ciò che riguarda il governo dello stato: TUTTAVIA, forte del suo
cattolicesimo bigotto e del suo senso tutto empirico, ella agisce come moderatrice di questi uomini,
rendendo il proprio governo un compromesso tra le dottrine dei lumi e il suo personale pensiero
sulla felicità dei sudditi.
Rinnovare la società attribuendo un ruolo fondamentale al diritto, senza sottovalutare,
tuttavia, le tradizioni radicate nelle varie province dell’impero: ecco la formula adottata da
Maria Teresa.
Dal 1740 fino al 1750 il processo di modernizzazione dello stato procede per tappe precise, con
l’obiettivo di ridurre il più possibile l’autonomia degli stati, centralizzando nella corona le
competenze politiche, economiche e finanziarie, nonché le funzioni giurisdizionali ed
amministrative.
Nel 1750…
coerentemente alle dottrine del mercantilismo, che implicano una diminuzione delle importazioni
ed un aumento della produzione, negli stati ereditari di lingua tedesca
-viene unificata la moneta, tanto che nasce il tallero teresiano
-vengono soppresse le dogane interne
con il fine di giungere alla centralizzazione dell’ordinamento giudiziario, viene istituito il
supremo tribunale giudiziario, tribunale che va a collocarsi, con competenze di ultimo appello, al di
sopra di tutte le corti inferiori.
91
Per quanto riguarda l’ambito amministrativo, nel 1766 viene creato il Consiglio di Stato: a questo
organo sono attribuite funzioni consultive nell’ambito dell’intera attività di governo, esercitabili
secondo il criterio della imparzialità.
A questo quadro generale di riforme emanate per giungere all’unificazione del diritto va aggiunto il
fatto che Maria Teresa sia stata il primo sovrano illuminato a creare un insegnamento di stato:
una commissione regia per le riforme scolastiche, infatti,
-istituisce scuole professionali ed istituti di istruzione superiore
-ristruttura la facoltà di giurisprudenza di Vienna secondo un piano di studi illuministico, che
diviene a poco a poco un modello per tutte le facoltà dell’impero asburgico.
-l’obbligo scolastico viene fissato all’età di 6 anni
-contenuti e metodi di insegnamento vengono sottratti dal monopolio dei gesuiti e posti sotto il
controllo statale.
-E’ così che l’imperatrice, in qualità di vigilante pedagogo, compie personalmente visite di
ispezione negli istituti scolastici, in quanto questi sono, essenzialmente, fucine di buoni sudditi.
Affrancando il popolo dall’ignoranza
e fabbricando servitori dello stato
il potere produce un sapere che ha come obiettivo quello del senso dello stato.
IL “CODEX THERESIANUS”
Un unico potere assoluto chiamato a governare popoli diversi, implica che per governare questi
popoli ci sia unità del diritto.
All’unità del diritto si giunge attraverso l’accentramento amministrativo e giudiziario prima, e
attraverso la codificazione poi.
Centralizzato dunque l’ordinamento giudiziario, Maria Teresa mira appunto, pena il fallimento di
tutti gli sforzi compiuti fino ad allora, proprio alla codificazione: per poter trasferire infatti giudici e
funzionari da un territorio all’altro, occorre che questi abbiano a che fare, ovunque si trovino, con lo
stesso diritto.
Per questo motivo, l’imperatrice nomina una commissione di compilazione, avente il compito di
progettare un testo normativo che contenga una disciplina certa del diritto privato. Questo nuovo
“ius universale et certum” dovrà governare in modo uniforme la vita e i rapporti delle popolazioni
viventi nei territori ereditari di lingua tedesca.
Con questo provvedimento, dunque, prende avvio un memorabile processo di codificazione
destinato a produrre uno dei più importanti codici civili europei di stampo illuminista e borghese:
il codice civile generale austriaco (allgemeines burgerliches gesetzbuch: ABGB).
Tuttavia, prima che Francesco I d’Asburgo firmi l’atto di promulgazione del codice suddetto, nel
frattempo fatto e rifatto, dovranno trascorrere quasi 60 anni (1811).
Questo imponente modello di codificazione civile entrerà dunque in vigore senza avere più legami
diretti con il regime politico che lo aveva programmato, in quanto, nel 1811, l’assolutismo
illuminato non sarà che storia.
Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.
Nel 1755, la commissione di compilazione presenta tre volumi sul diritto delle persone:
poiché, tuttavia, anche se non si è ancora che alla prima delle tre parti dell’opera, il materiale
normativo messo assieme appare eccessivo, alla commissione di compilazione viene affiancata (e
poi sostituita) una commissione di revisione.
Dopo 10 anni di lavori, il codice commissionato da Maria Teresa D’Austria è interamente costruito,
e viene battezzato con il nome di Codex Theresianus, in omaggio all’imperatrice.
Nonostante il titolo, tuttavia, i compilatori hanno abbandonato il latino, redigendo le norme in un
tedesco discorsivo e non tecnico: è, questa, una novità importantissima da sottolineare!
92
L’impianto del codex è quello della classica tripartizione giustinianea, vale a dire tre libri,
rispettivamente dedicati a persone, cose e obbligazioni.
Ciò che colpisce, tuttavia, è il fatto che entro uno schema tanto sobrio, prenda forma una
costruzione giuridica smisurata:
-è vero che il diritto privato è distribuito in tre libri,
-ma è anche vero che questi costituiscono 8 mastodontici volumi!!
Questa mostruosa prolissità, che non agevola di certo la chiarezza complessiva del testo, si deve al
fatto che i compilatori, nel tentativo di conciliare le antinomie, non hanno riordinato il caos
normativo presente, semplificandolo attraverso i principi generali, ma lo hanno solo disposto in una
immensa distesa di minuziosi precetti.
La mancanza di compendiosità, tuttavia, non impedisce che il codice teresiano abbia raggiunto
importanti posizioni nell’ambito della storia della codificazione:
Siamo di fronte alla prima decisione di ritagliare una branca giuridica e di codificarla
autonomamente come diritto privato:
è, nell’ottica dei giuristi teresiani, classificabile come “diritto privato” la disciplina di persone e
famiglia, cose e diritti reali, e obbligazioni.
I compilatore che inseriscono nel codice la direttiva secondo cui ogni fonte previgente è da
considerarsi abrogata, presentano il nuovo diritto non più come una normativa sussidiaria, bensì
come una normativa unica per tutti i territori assurgici di lingua tedesca.
Il problema del rapporto tra giudice e legge è impostato secondo il principio della certezza
del diritto e della sottoposizione del giudice alla legge stessa.
Se i giuristi teresiani hanno impiegato 13 anni per costruire il codice, ad essi ne occorrono altri 5
per seppellirlo senza averlo promulgato:
il progetto, sottoposto ad interminabili discussioni, incontra l’invalicabile opposizione
-non solo dell’ascoltatissimo cancelliere Anton Von Kaunitz, che richiede un testo più semplice,
tecnico e compatto, costruito intorno ad un unico soggetto giuridico, e non a particolarismi di status,
-ma anche del figlio di Maria Teresa, Giuseppe II.
Se dunque nel 1771 viene definitivamente decretato l’abbandono del progetto,
nel 1772 Maria Teresa, persuasa di rifare tutto da capo, mette in funzione una ulteriore
commissione: questa nuova squadra lavorerà per circa 14 anni, presentando al nuovo imperatore
Giuseppe II il risultato del lavoro complessivamente svolto: il c.d. Codice Giuseppino.
DIRITTO E POTERE, STATO DI RAGIONE E RAGIONE DI STATO NELL’ILLUMINISMO
“RIVOLUZIONARIO” DI GIUSEPPE II
a) Il riformismo di Giuseppe II e la codificazione del processo civile (1781)
Con la scomparsa di Maria Teresa e l’ascesa al trono del figlio, l’ “imperatore filosofo” già coreggente dal 1765, ha inizio il decennio del regno Giuseppino [1780-1790] durante il quale i
processi di mutamento delle istituzioni asburgiche subiscono una accelerazione formidabile.
Mentre infatti Maria Teresa aveva rotto solo a metà con il passato, adottando compromessi
equilibratori, e riuscendo a frenare il demone distruttore e insieme innovatore che si agitava nel
figlio, e che ella temeva come portatore di mal contento
Giuseppe II non ha la stessa mano leggera della madre, tanto che gli anni del suo regno possono a
buon diritto essere definiti “gli anni della bufera”, in ragione del fatto che, quando le radicali
93
riforme da lui decretate si abbattono sulla popolazione, questa inizia a sentirsi come trascinata in
una bufera.
Alla morte della madre, infatti, il riformismo di Giuseppe si scatena senza più contrasti: il suo è un
globale e razionale disegno di pianificazione burocratica e legislativa, che egli intende realizzare
sino in fondo senza preoccuparsi di avere il sostegno del popolo.
E’ così che il nuovo despota illuminato, che nutre un culto feticistico dello stato e dell’unità del
potere, trascina tutti i paesi dell’impero asburgico in uno sconvolgente esperimento di politica
centralizzatrice: è così che, reagendo ai metodi di intervento con cui Giuseppe II abbatte libertà,
tradizioni e privilegi, nasce tra i sudditi il mito retrospettivo di Maria Teresa e dei tempi felici del
suo tollerante governo.
Giuseppe II è il despota che trascorre le giornate
-dettando editti, decreti, ammonizioni e istruzioni
-e dando udienza a decine di sudditi di ogni estrazione sociale:
è, questo, il modo in cui il disadorno imperatore esteriorizza quella che abbiamo chiamato la c.d.
etica del servizio, secondo la quale egli pretende di rendere felici i sudditi stabilendo, al posto loro,
come essi debbano diventarlo.
La sua idea si incentra su di un’unica società civile uguale ed indifferenziata, guidata
pedagogicamente verso il bene da un sovrano che è servitore dello stato per diritto divino e naturale.
Tuttavia, Giuseppe sa benissimo che i corpi intermedi, i ceti sociali privilegiati e i centri di potere
indipendenti dal monarca rappresentano la negazione stessa dell’idea di unità: così, per giungere a
realizzare uno spersonalizzato stato perfetto, egli deve annientare
-il particolarismo sociale
-e le autonomie dei corpi privilegiati.
Al primo posto del suo grandioso disegno di codificazione, Giuseppe II pone l’unificazione del
diritto processuale, in quanto un codice di procedura civile porrà termine alla varietà dei tipi di
processo nei paesi dell’impero, neutralizzando il c.d. dispotismo dei giudici.
E’ così che nel 1781 egli promulga il famoso Regolamento Giudiziario Civile (CGO):
questo codice sarà introdotto nella Lombardia austriaca segnando la fine del plurisecolare processo
di diritto comune: mutuato il periodo napoleonico, poi, la disciplina Giuseppina del processo civile
non sarà abrogata nel Lombardo-Veneto che al momento dell’unificazione legislativa italiana del
1865.
Questo codice risolve il problema di ricondurre al criterio di legalità un processo fino ad allora
quasi esclusivamente dipendente dall’arbitrio del giudice: infatti nell’ambito della nuova procedura
(procedura assai più rapida rispetto a quella di diritto comune), opera un giudice rigorosamente
subordinato alla legge.
b) Gli editti di Giuseppe II
Mentre la codificazione civile austriaca è in fase di preparazione
e la CGO è appena stata promulgata,
Giuseppe II anticipa la rivoluzione del diritto privato emanando degli editti: gli interventi che egli
compie che risultano di più ampia portata e che verranno poi incorporati nel futuro codice civile
sono cinque, tutti più o meno diretti a colpire le tre agglomerazioni di potere che si frapponevano tra
sovrano e sudditi: nobiltà, clero e corporazioni mercantili.
I. Con l’editto di tolleranza, Giuseppe II consente la libera professione di una serie di confessioni
religiose diverse dalla cattolica, riconfermata però come culto dominante.
94
Ciò che ispira la politica di tolleranza di Giuseppe, peraltro uomo sinceramente credente, è un
atteggiamento di ostilità nei confronti del potere della Chiesa di Roma, che prende il nome di
giuseppinismo: egli propugna un anticurialismo che implica
-la gestione degli affari ecclesiastici da parte dello stato
-la riduzione dell’autorità della chiesa all’ambito puramente spirituale
-la limitazione delle prerogative del pontefice.
A parte tutto, ciò che è bene sottolineare è il fatto che con l’editto di tolleranza, che accorda agli
acattolici la parità dei diritti civili e il libero accesso ai pubblici uffici, vengono meno le tradizionali
differenze di trattamento giuridico dovute allo status religionis.
E’, questo, un passo decisivo verso l’unificazione del soggetto di diritto.
II. Con l’editto matrimoniale, Giuseppe II sottrae il matrimonio al diritto canonico e alla
giurisdizione ecclesiastica, conferendogli la natura di contratto di diritto civile.
III. Con l’editto successorio, Giuseppe II rivoluziona il campo del diritto ereditario,
tradizionalmente caratterizzato da tre diversi regimi:
-quello dello stand dei nobili
-quello dello stand borghese-cittadino
-e quello del ceto contadino.
Col nuovo editto, invece,
Il regime giuridico dello stand borghese-cittadino viene considerato di regime generale, ed è
volto
-a favorire la libertà del de cuius a disporre del testamento
-e a facilitare la divisione ereditaria.
I regimi giuridici dello stand dei nobili e di quello dei contadini, invece, sono ridotti ad un
secondario complesso di norme eccezionali.
IV. Con l’editto sulla libertà di commercio, si mira a sopprimere ogni monopolio commerciale
detenuto dalle corporazioni mercantili al fine di favorire la libera concorrenza e la libera
circolazione dei beni.
V. Infine con l’editto sulle terre feudali, Giuseppe II mira a
-modificare la destinazione dei fondi coltivati dai contadini
-e a munire, appunto, i contadini di un altro titolo: da persone assoggettate al dominio del feudatario
-ad “affittuari ereditari” del fondo, che hanno la possibilità di trasformare in proprietà il fondo
stesso.
c) Il codice civile Giuseppino (Josephinisches Gesetzbuch) del 1786
L’interventismo di Giuseppe II si ripercuote anche sulla commissione legislativa che era stata
instaurata da Maria Teresa: il lavoro dei giuristi che ne fanno parte, infatti, subisce una notevole
accelerazione a causa delle pressioni dell’imperatore.
Nel 1876, infatti, la commissione ha steso in modo definitivo il primo dei tre libri del codice civile
messi in cantiere (i due seguenti, invece, rimarranno incompiuti perché la commissione verrà sciolta
l’anno seguente per cause politiche):
Il testo è dedicato ai principi generali de diritto, al diritto delle persone e a quello di famiglia;
poiché Giuseppe II ha fretta di puhblicarlo, questo primo libro entra in vigore (a prescindere dai due
libri successivi) con il nome di Codice Giuseppino.
Il presupposto di questo codice è che il sistema dei diritti e dei doveri iscritto nella natura dell’uomo
sia perfettamente riproducibile in norme positive per opera di un sovrano legislatore tenuto, per
contratto sociale, a guidare i sudditi alla felicità.
95
La figura grande, ma poco amata, di Giuseppe II, despota privo del consenso dei popoli che
governò, lasciò, alla sua scomparsa, una eredità di riforme tanto rivoluzionarie quanto incomprese.
IL PROSEGUIMENTO DEI LAVORI DI CODIFICAZIONE CIVILE LUNGO GLI ANNI POSTGIUSEPPINI: DAL PROGETTO MARTINI AL CODICE CIVILE GRAZIANO (1794-1797)
a) Il “dopo Giuseppe II” e un importante passo avanti: il progetto Martini (Entwurf Martinis,
1794)
Con il 1970, nella storia della codificazione civile austriaca, due uomini si muovono in primo piano:
Leopoldo II, fratello e successore di Giuseppe
e Carlo Antonio Martini.
Leopoldo, di mente assai più duttile rispetto a quella del fratello, ma animato da un
riformismo meno risoluto, ha incarnato al meglio, negli anni precedenti, lo spirito dell’assolutismo
illuminato, ricevendo anche grandi consensi.
Granduca di Toscana, Leopoldo promulga la più celebre delle legislazioni ispirate all’illuminismo
penale di Beccaria: l’umanitaria Leopoldina del 1786, comportante la depenalizzazione del reato di
lesa maestà e l’abolizione della pena di morte.
Il celebre giurista Martini, invece, dopo una carriera prestigiosa, diventa, per opera di Maria
Teresa, precettore di corte del piccolo Leopoldo, ritrovandosi così tra le mani la chiave di volta del
futuro assolutismo illuminato del futuro imperatore. Tra i suoi numerosi scritti giuridici, ve ne sono
alcuni che hanno origine proprio dalle lezioni impartite a Leopoldo.
Con Giuseppe II, egli diventa consigliere dell’imperatore, che gli affida il compito di
riorganizzare, secondo il modello austriaco, l’apparato giudiziario in Ungheria e Lombardia.
Leopoldo II, invece, lo chiama a presiedere la commissione per la stesura di un nuovo progetto di
codice civile: Martini dovrà rielaborare i materiali normativi del codice Giuseppino e degli
incompiuti secondo e terzo libro.
Nel 1974, Martini ha pronto il codice civile commissionatogli da Leopoldo II, che verrà sottoposto
al nuovo imperatore Francesco I:
si tratta del famoso “Progetto Martini” (Entwurf Martinis).
Il testo esibisce la classica strutta tripartita:
principi generali e diritto di persone e famiglia
proprietà, altri diritti reali, successioni
contratti e aree normative non collocabili nelle prime due parti.
b) Il codice civile Galiziano (WGGB, 1797)
Nel 1976, un provvedimento imperiale dispone che delle commissioni regionali presentino ad una
superiore commissione di revisione le proprie osservazioni sul Progetto Martini: questa, poi,
indicherà in modo definitivo in quale forma e con quali contenuti il codice dovrà essere promulgato.
Tuttavia, senza che questo iter venga compiuto, le prime osservazioni pervenute da alcune
commissioni regionali portano ad una ulteriore stesura del progetto:
il nuovo testo contiene scarse variazioni, e viene promulgato in via sperimentale, in Galizia. E’ così
che entra in vigore il c.d. codice civile galiziano (WGGB).
96
Fino a pochi anni fa, alla storiografia italiana era sfuggito il fatto che il progetto Martini e il codice
civile galiziano fossero due testi distinti, e che il secondo presentasse delle modifiche rispetto al
primo.
Il codice civile galiziano incarna abbastanza bene l’idea che noi abbiamo di un codice civile, in
quanto…
Mira a rimpiazzare del tutto il pluralistico sistema giuridico previgente, di cui dispone
l’abrogazione, salvando solo le consuetudini conformi al codice.
Le materie che esso disciplina sono identificate come contenuti specifici del diritto
privato.
In altre parole:
il codice è programmato per accogliere solo norme di diritto privato
è diritto privato solo quello che si trova nel codice
Tende ad escludere dall’ambito del diritto privato (perché classificate come di diritto pubblico) le
norme istituenti prerogative e privilegi di ceto, facendo un grande passo in avanti verso il traguardo
dell’unificazione del soggetto di diritto:
pur sopravvivendo nel codice qualche isolata area di diritto eccezionale, infatti, il legislatore, di
regola, visualizza un unico destinatario delle norme.
E’ proprio su questa figura del suddito-soggetto giuridico che Martini basa i principi
generali. Essi servono
-sia a reggere il codice da lui progettato
-sia a svolgere la funzione di teoria generale del diritto,
e sono:
• Il soggetto, prima ancora di essere suddito, è uomo, e come tale gode di innati diritti naturali
• E’ nella natura dell’uomo la vocazione ad unirsi ai suoi simili nello stato, che ha lo scopo di
perseguire il bene comune
• Lo stato persegue il bene comune garantendo i diritti naturali di libertà e di proprietà dei
consociati, consociati i quali si vedono riattribuire tali diritti per mezzo delle leggi positive.
• I diritti che lo stato positivizza e riconsegna all’uomo quando costui diviene suddito
riguardano:
-la conservazione della vita
-la difesa della persona e dei beni
-la tutela dell’onore
-l’elevazione delle capacità fisiche e spirituali
• Occorre tener presente il fatto che, quando viene promulgato il codice galiziano, in Francia è
stata da poco promulgata la dichiarazione dei diritti dell’uomo.
Martini guarda alla carta francese non come un documento proclamante i diritti dell’uomo,
bensì come ad un documento volto ad innescare una rivoluzione contro questi diritti:
secondo lui, infatti, i diritti naturali dell’uomo possono essere determinati e garantiti
esclusivamente da un legittimo sovrano.
Non è dunque un caso che nel WGGB i diritti naturali del suddito siano da Martini sciorinati
in formule molto generali, in quanto sarà il sovrano a determinarne l’effettiva portata.
97
In conclusione, quella del codice galiziano è una sorta di controdichiarazione, che va ad
opporsi a quella francese dell’89.
In caso di oscurità o di lacuna della legge, il giudice, esaurito ogni tentativo di analogia, può
integrare il testo ricorrendo ai principi giuridici generali:
questa disposizione apre il codice a interventi giudiziari integrativi.
Il diritto di famiglia assume una impronta pedagogica: lo stato vive nel tempo attraverso le
famiglie fondate sul matrimonio, famiglie i cui figli sono la benedizione dello stato: dunque, il
provvedere alla cura e all’educazione dei figli è un diritto-dovere esercitabile dai genitori sotto il
controllo dello stato.
IL MOMENTO CONCLUSIVO DELLA CODIFICAZIONE CIVILE AUSTRIACA:
LA PROMULGAZIONE DELL’ABGB (1811)
a) I lavori preparatori e l’approvazione dell’ultimo progetto (1801-1811)
Il secolo dell’illuminismo, che credeva di aver scoperto
-la felicità del genere umano
-e le illimitate possibilità benefiche di un legislatore onnipotente,
si conclude, invece, a lumi spenti, in quanto la Rivoluzione Francese si è portata via molte delle
illusioni dell’illuminismo.
Occorre chiedersi che cosa rimanga, a questo punto, dell’antica fiducia nella provvidenza
infallibile di uno stato pedagogo:
nell’ambito della monarchia austriaca, essa muove i suoi primi passi del nuovo secolo
-in un clima contrassegnato dal confronto con quella formidabile potenza nemica in espansione che
è la Francia
-e animata da contrapposte tendenze conservatrici e liberali
In questo clima, l’eterno problema del rapporto tra tutela dei poteri dello stato e tutela dei diritti dei
sudditi attende risposte nuove:
risposte tanto più difficili da trovarsi, se si pensa che, fino alla prima metà dell’ottocento, nella
prassi dell’impero asburgico l’idea di una costituzione che garantisca gli inviolabili diritti
individuali non ha spazio.
In questo scenario, lo sperimentale codice civile galiziano inizia ad apparire superato.
Così, nel 1801, una commissione imperiale riunita da Francesco I, revisiona i contenuti del codice
galiziano mettendo a punto, nel 1811, un codice civile che sfiderà i tempi:
anche se questo testo ha avuto un percorso difficile, perché continuamente bersagliato di critiche
dalla conservatrice burocrazia asburgica, che lo respinge per ben due volte,
nel 1811 Francesco I può finalmente promulgare il
CODICE CIVILE GENERALE PER I TERRITORI EREDITARI DELLA MONARCHIA
(siglabile come ABGB).
Con esso si dichiara abrogato
il diritto comune
la prima parte del codice civile promulgato nel 1786
il codice civile galiziano
le altre leggi e consuetudini relative al codice generale appena promulgato.
Con la promulgazione di questo codice, noi possiamo osservare quali postulati del giusnaturalismo
esso abbia abbandonato, e quali invece, esso, abbia conservato:
98
Non c’è più niente che rimandi alla Giuseppina etica del servizio e
Manca la menzione del dovere del sovrano illuminato di
-determinare i diritti dei sudditi
-dirigere la loro condotta
-realizzare il bene comune.
Restano fermi, invece, alcuni principi dell’illuminismo giuridico:
• la certezza del diritto
• l’ancoraggio del diritto positivo a quello naturale
• la conformità del diritto positivo alle relazioni dei cittadini
• la chiarezza delle norme
• il rigore razionale del sistema normativo nel suo complesso
b) L’ispirazione kantiana dell’ABGB e il ruolo centrale di Franz von Zeiller
all’ABGB hanno lavorato numerosi giuristi di grandi capacità tecniche:
tuttavia, colui che ha impresso ad esso l’impronta decisiva della propria scienza e di una specifica
filosofia giuridica è stato il relatore ufficiale FRANZ VON ZEILLER, che, a codice promulgato,
pubblica anche un suo Commentario.
Allievo di Martini, e grande burocrate, Zeiller si sposta dal pensiero del maestro al pensiero di Kant,
tanto che, in tema di diritto, dire Zeiller è dire Kant:
molto spesso, infatti, egli ha riempito della dottrina di Kant le norme che ha codificato, in quanto
aveva assimilato profondamente le teorie di questo pensatore.
L’altissima etica kantiana si distacca radicalmente
sia dalla morale eudemonistica (cioè da quella dottrina che riconosce come scopo fondamentale
della vita dell’uomo il raggiungimento della felicità), sia dalla morale utilitaristica,
proprie del giusnaturalismo illuminista e dell’assolutismo illuminato:
ciò che fonda la vita dell’uomo non è l’aspirazione a raggiungere la felicità, bensì il principio del
dovere per il dovere, che impone di agire bene semplicemente perché si deve agire bene.
ciò che il sovrano deve garantire al suddito non è la felicità, bensì la dignità di persona umana.
Ma tutto ciò,
-che implica che a guidare l’agire dell’uomo sia una ragione superiore (ragion pratica)
-implica anche che, come condizione fondamentale della sua vita, l’uomo abbia la libertà perché, in
quanto libero, egli obbedisce solo a se stesso, dominando gli impulsi che ha e autodisciplinandosi
secondo il principio del dovere per il dovere.
Kant porta a livelli più alti rispetto a quelli delle dottrine del giusnaturalismo germanico anche la
distinzione tra morale e diritto:
sia la morale che il diritto hanno carattere normativo e hanno la propria fonte in imperativi posti
dalla coscienza:
mentre la morale, infatti, regola la vita interiore di ogni uomo, e cioè le scelte e i valori a cui esso
si conforma, secondo una sorta di libertà interna,
il diritto, al contrario, disciplina le azioni che l’uomo compie esercitando una libertà esterna,
vale a dire una libertà che interferisce con la libertà degli altri uomini nell’ambito dei rapporti
intersoggettivi.
Dunque per Kant:
-la persona umana è un valore prioritario rispetto alla collettività sociale
-la società è intesa, appunto, come somma di individui liberi, ciascuno dei quali
-è un soggetto indipendente, in virtù del fatto che ha l’attitudine ad agire moralmente
99
Quello kantiano, dunque, viene a contrassegnarsi come individualismo giuridico:
il diritto è l’insieme delle condizioni per cui l’arbitrio di un uomo si accorda con l’arbitrio di un
altro uomo secondo una legge universale di libertà.
Da questo presupposto di libertà come condizione irrinunciabile di ogni singolo uomo, derivano 4
conseguenze:
1. la libertà si traduce in capacità giuridica, intesa come diritto innato di ciascuno.
2. questa capacità giuridica, in quanto attributo costitutivo della persona, è sottratta alla
disponibilità del legislatore
3. il legislatore riconosce l’autonomia privata (in cui si esplica la capacità giuridica) come
qualcosa di spettante all’uomo, che viene garantita dallo stato
4. il fatto che tutti abbiano capacità giuridica implica che tra i soggetti ci sia parità, ossia che tra
loro ci sia uguaglianza civile.
Tutto questo è ciò che Zeiller recepisce fedelmente di Kant, al punto che si è parlato di
onnipresenza kantiana nell’ABGB.
c) Lo spirito di un codice in anticipo sui tempi
Il fatto che nel codice austriaco sia impregnato dell’individualismo giuridico kantiano spiega
l’ispirazione garantistica del testo, testo che ha come proprio fine quello della certezza dei diritti
di tutti i cittadini.
Questo garantismo è tanto più importante perché l’ABGB si innesta su una situazione politica
ancora basata sull’ancien regime, e dunque su una situazione che non corrisponde al timbro
borghese che le norme del codice, invece, hanno.
Troppo anticipatore rispetto ad una società conservatrice delle prerogative di ceto, l’ABGB,
nonostante ceda a qualche compromesso con il mondo di ancien regime, entra comunque in vigore
senza che molti dei suoi moderni istituti riescano ad attecchire:
è, questa, la conseguenza del problematico rapporto intercorrente tra una realtà ancora ferma sui
modelli del passato e questo codice già inserito in prospettive future.
Le sue norme di stampo liberal-borghese, comunque, dureranno del tempo, prefigurando l’ordine
della società civile che si sarebbe realizzato più tardi.
d) Struttura sistematica, fonti e veste formale dell’ABGB
Per dare giusto rilievo ai pregi strutturali dell’ABGB, occorre confrontarlo con l’ALR:
Il codice civile austriaco si compone di 1502 paragrafi, distribuiti in tre parti:
• La prima, comprendente anche una introduzione sul diritto in generale, riguarda il diritto
delle persone.
• La seconda riguarda il diritto sulle cose
• La terza, delle disposizioni comuni ai diritti delle persone e sulle cose, struttura in
categorie la disciplina della costituzione, modificazione ed estinzione dei rapporti giuridici.
A proposito di questa limpida costruzione sistematica occorre fare due osservazioni:
I. è facile scorgere dietro di essa la tripartizione giustinianea personae-res-acriones.
II. è altrettanto visibile, nella terza parte, lo sforzo di codificare, per la prima volta, una parte
generale del diritto.
100
Le fonti da cui i compilatori dell’ABGB hanno attinto i materiali normativi sono
identificabili in tre gruppi:
1) il diritto romano, modernizzatosi secondo gli orientamenti della prassi forense germanica.
2) il complesso dei diritti territoriali applicati nelle province ereditarie della corona asburgica
3) i principi di diritto naturale accolti nel codice civile Giuseppino e, più tardi, codificati da
Martini nel WGGB.
Le 1502 norme dell’ABGB ci fanno sembrare preistorici i precetti del codex Theresianus,
momento di partenza della codificazione austriaca. Gli obiettivi, raggiunti, di Zeiller e dei suoi
colleghi, erano due:
la formulazione chiara delle norme
la brevità complessiva del testo, ottenuta
-evitando di sminuzzare i singoli precetti in una casistica dettagliata
-evitando di complicare il fraseggiato normativo con motivazioni paternalistiche o
esasperate puntualizzazioni.
Puntando alla sobrietà espressiva, il legislatore austriaco non solo ha ottenuto un codice breve,
ma ha anche ottenuto un codice le cui norme sono sufficientemente generali e astratte.
TUTTAVIA…
Mentre il codice civile francese è caratterizzato da norme imperative
Le norme del codice austriaco, invece, sono di carattere enunciativo e definitorio:
il linguaggio del legislatore asburgico è di carattere didattico (modo di esprimersi
volutamente ripudiato dal legislatore napoleonico) e come tale dà vita ad un modello di
codificazione completamente alternativo rispetto a quello francese:
-mentre infatti nel modello francese il legislatore emette comandi, tanto che si parla di
imperativismo legislativo
-nel modello austriaco il legislatore enuncia principi, tanto che si parla di dottrinarismo
legislativo.
E’ naturale, dunque….
che l’aver optato per un codice breve andasse a scapito della completezza del testo (requisito
vantato, invece, dal codice civile francese).
che tale incompletezza del testo, presupponesse l’integrazione ad opera dei giudici dell’impero
(atteggiamento, questo, ben diverso rispetto a quello del legislatore francese, volto a limitare il più
possibile l’autonomia dell’interprete).
e) Il paragrafo 7 dell’ABGB: i criteri di interpretazione del testo e il giusnaturalismo
giudiziale
Il problema dell’interpretazione delle norme, viene risolto dall’ABGB nel famoso paragrafo 7:
dando infatti per scontata la lacunosità del testo, il legislatore concede all’interprete..
prima, il ricorso all’analogia
poi, dove persista il dubbio, la facoltà di fare appello ai principi del diritto naturale.
L’ABGB si discosta così
-dall’ALR, che concede al giudice solo il ricorso all’analogia
-dal codice napoleonico, che obbliga il giudice a trarre dal codice stesso la norma per interpretare il
caso.
101
f) Cenni a taluni contenuti dell’ABGB
L’ABGB mette a punto un progetto di modernizzazione della società civile, di impronta liberalborghese, in modo del tutto indipendente dal modello napoleonico: non ci si deve dunque stupire
del fatto che molto spesso esso opti per soluzioni meno innovative rispetto a quelle adottate dal
codice francese, mentre altre volte esso compie scelte decisamente più avanzate.
Non è cosa da poco, ad esempio, che l’ABGB
-riconosca la piena capacità giuridica degli individui e
-abolisca ogni forma di schiavitù,
mentre in Francia la tratta dei neri nelle colonie d’oltremare
-viene abolita solo dopo 5 anni dalla dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789
-continua sottobanco anche negli anni successivi e
-viene ufficialmente reintrodotta da Bonaparte, corredata dal divieto di matrimonio tra persone
libere e non.
Questo spirito liberale del legislatore austriaco si manifesta anche su altri fronti:
• La diversità di religione non influisce sui diritti privati
• In tema di libertà matrimoniale, ognuno può contrarre matrimonio, purché non gli osti alcun
impedimento.
• I genitori devono provvedere agli alimenti e all’educazione anche dei figli naturali.
• La donna coniugata può amministrare il proprio patrimonio e compiere atti di straordinaria
amministrazione senza obbligo di richiedere il consenso del marito.
L’intera disciplina del diritto delle persone, della famiglia e delle successioni ha una impronta
liberale rispetto ai tempi.
Tuttavia, proprio laddove l’ABGB compie le sue numerose scelte progressiste, rompendo con il
passato molto più nettamente rispetto al codice napoleonico, qui i colgono anche
altrettante manifestazioni di conservatorismo del diritto austriaco
altrettanti punti in cui il codice non ha potuto evitare un compromesso con la tradizione.
Ad esempio:
• ad esempio, L’ABGB accoglie la concezione del matrimonio civile come unica forma di
vincolo riconosciuta dallo stato, orientamento, questo, che
-addossa ai parroci le funzioni di ufficiali di stato civile.
-in un’ottica aconfessionale, spinge il legislatore a preoccuparsi anche delle minoranze non
cattoliche presenti nell’impero.
Ecco che, tuttavia, entra in gioco il fortissimo attaccamento della corona al cattolicesimo,
cattolicesimo che esercita una influenza in senso opposto, finendo per ridimensionare il principio
della irrilevanza, in campo civile, dello status religionis.
102
La codificazione del diritto penale
LA CONSTITUTIO CRIMINALIS THERESIANA (1769)
Occorre a questo punto tornare indietro fino ai tempi di Maria Teresa per percorrere il tragitto
compito, in area austriaca, dalla codificazione penale.
Nel 1769, infatti, Maria Teresa riesce a promulgare una complilazione del diritto penale e
processuale penale messa a punto da una commissione: si tratta della constitutio criminalis
Theresiana, che però si rivela un insuccesso.
In essa sono semplicemente stati raccolti i diritti penali territoriali previdenti, che però non
risultarono essere legati, tra loro, dai tipici requisiti formali dei moderni codici penali.
Mancava infatti…
-il principio di legalità (tanto che sono accolte le pene arbitrarie)
-il divieto di analogia (che, quindi, era ammessa).
-l’unità del soggetto giuridico.
Suddivisa in una parte processuale e in una sostanziale, il codice teresiano nasce già vecchio, in
quanto si approccia al problema della repressione penale con una mentalità criminalistica d’ancien
regime, senza neppure sospettare che esso abbia bisogno, invece, di soluzioni nuove:
a crimini di concezione antica (come la bestemmia, la stregoneria, la lesa maestà) corrispondono
pene anch’esse antiche: la pena di morte è dispensata tantissimo dal codice teresiano, che
distingue tra
-pene più benigne, che provocano la morte in pochi secondi, come la decapitazione o la forca
-e pene più severe, che rendono la morte lenta, come il rogo, o lo squartamento.
Per quanto riguarda, invece, la parte processuale, indispensabile è la tortura, mezzo necessario a
trarre la confessione dall’imputato: come la pena di morte, anche la tortura è multiforme, tanto che
la theresiana è impreziosita, in appendice, da una catalogo illustrato dei tipi di supplizio.
Che l’antico e sanguinario codice teresiano fosse destinato a paralizzarsi in pochi anni era scontato:
a Vienna presero sempre più piede le idee illuministiche di Beccaria e così, dopo numerose richieste
di abolizione della tortura da parte dei più influenti giuristi del tempo, Maria Teresa ne dispose la
soppressione, riducendo anche i casi in cui applicare la pena di morte.
IL CODICE PENALE DI GIUSEPPE II (1787)
L’opera di Giuseppe II, nell’ambito del diritto penale, si sostanzia
in un codice penale
e in un codice di procedura penale.
Il primo, il codice penale, possiede tutti i requisiti per poter essere considerato un autentico
capolavoro legislativo: da despota illuminato qual è, Giuseppe II ha una naturale vocazione a
pensare strategie per risolvere i problemi di politica criminale: così, nel campo penale, il suo
attivismo lo porta a diventare l’autore di una vera e propria rivoluzione del diritto.
Il codice che egli promulga, nel 1787, è da ritenersi, come dice il Tarello, il primo codice penale
veramente moderno.
a) La autonomizzazione giuseppina del diritto penale
Se si vuole capire perché la Giuseppina (nome con cui il codice penale è divenuto famoso) sia
moderna, e perché sia la più importante espressione dell’illuminismo nell’ambito della legislazione
penale, occorre considerarla
sia in un rapporto consequenziale con il codice civile
sia in una posizione autonoma rispetto ad esso.
103
-Fissate nel codice civile le regole fondamentali della convivenza nella società,
-occorreva che lo stato predisponesse anche un apparato di pene minacciate, che servissero a
tutelare l’ordinamento nel suo complesso.
Posto dunque a difesa del diritto civile, il diritto penale acquisisce a poco a poco una identità
autonoma, identità che nella tradizione del diritto comune il vecchio diritto chiamato “criminale”
non aveva mai posseduto rispetto al diritto civile: il diritto penale, cioè, viene ora visto come la sola
branca della legge che può fissare pene.
b) La formalizzazione del diritto penale: legalità, completezza, astrattezza della legge
punitiva
Il diritto penale Giuseppino vanta un alto grado di formalizzazione: essendo cioè le fattispecie
formulate secondo i criteri di tassatività, tipicità e determinatezza, viene considerato reato solo quel
fatto espressamente previsto dalla legge.
Questi tre criteri identificano il c.d. principio di legalità del diritto penale.
Oltre a questo requisito, il codice Giuseppino ne contiene anche un altro: quello della
completezza, requisito che…
-esclude l’eterointegrabilità del testo
-presuppone l’abrogazione dell’intera normativa penale previgente, a cui esso si sostituisce.
Ultimo importante requisito, per mezzo del quale i consociati vengono considerati tutti uguali di
fronte alla legge, è quello della unicità del soggetto di diritto penale:
il destinatario delle norme del codice è privo di caratterizzazioni relative al ceto sociale: ad un
soggetto indeterminato, qualificato come reo, viene collegato un crimine tipizzato e la minaccia di
una pena prescindente anch’essa dallo status del colpevole.
c) La subordinazione del giudice alla legge penale
Il principio di legalità ed il divieto di analogia espressi nella Giuseppina, hanno come destinatario il
giudice: essi, infatti, sono diretti a farne un mero funzionario, escludendo ogni suo arbitrio
nell’amministrare la giustizia penale.
Risulta chiaro, dunque, che il codice vuole dire addio all’arbirtrium iudicis.
Tutto questo, tuttavia, non deve far pensare che la Giuseppina sia una codice a pene fisse,
applicabile meccanicamente da un giudice-autonoma, in quanto..
il giudice deve sì attenersi alla disposizione letterale della legge,
MA, nell’erogare la pena, deve guardare che essa sia equilibrata al delitto commesso.
Per raffigurarsi i limiti di questa discrezionalità, basta guardare al complicatissimo sistema delle
pene detentive.
La detenzione è distinta in tre tipi:
-prigionia
-prigionia con lavoro pubblico
-prigionia con incatenazione
Per le prime due, la legge prevede:
• tre livelli di severità(carcere mite - duro - durissimo) a seconda che al carcere si
aggiungano o no bastonate, frustate, limitazione del cibo ecc ecc…
• tre durate in termini di anni: temporale - lunga - lunghissima
• e due gradi per ciascuna durata
-TEMPORALE (MITE O DURA) 1° GRADO (DA UN MESE A 5 ANNI)
2° GRADO (DA 5 A 8 ANNI)
104
ES:
PRIGIONIA -LUNGA (DURA) 1° GRADO (DA 8 A 12 ANNI)
2° GRADO (DA 12 A 15 ANNI)
-LUNGHISSIMA (DURA O DURISSIMA) 1° GRADO (DA 15 A 30 ANNI)
2° GRADO (DA 30 A 100 ANNI)
E’ evidente, dunque, che un sistema di ragioneria punitiva di tal fatta, sia opera di un legislatore
maniaco della contabilità penitenziaria.
Questa matematica della sofferenza, è concepita con lo scopo di fissare al dettaglio gli spazi in cui il
giudice deve muoversi per infliggere la pena:
la discrezionalità del magistrato non deve essere eliminata, in quanto un certo margine di
valutazione delle circostanze da parte del giudice rende possibile l’esattezza della pena
MA deve essere delimitata in anticipo dal codice, in modo da neutralizzare arbitri inutili:
è solo all’interno del grado indicatogli dal codice, cioè tra il minimo ed il massimo degli anni di
detenzione prefissati, che al giudice è permesso intervenire decidendo la misura delle sanzione.
In conclusione, la risposta al problema del rapporto tra giudice e legge penale, viene data, nella
Giuseppina, in termini eccessivamente macchinosi.
d) La struttura bipartita della “Giuseppina”
Il codice penale Giuseppino si struttura in due parti nettamente distinte:
1- Dei delitti criminali e delle pene criminali
2- Dei delitti politici e delle pene politiche
Ciascuna di queste due parti
è introdotta da due capitoli di contenuto generale e definitorio, dedicati alla dogmatica del diritto
penale
a cui seguono gli ulteriori capitoli di parte speciale.
Sono intesi come criminali, gli atti che ledono
-il sovrano,
-l’ordine politico
-la sicurezza interna o esterna dello stato
-l’incolumità, la vita, la proprietà, la libertà e l’onore dei privati.
Sono intesi come politici
-le offese al buon costume
-le trasgressioni degli obblighi che interessano ordine pubblico, pubblica sicurezza e pubblica
quiete, prevenzione degli infortuni.
Questa bipartizione della Giuseppina, ha il fine di istituire un muro divisorio nell’ambito
penalistico, fino ad allora concepito come un insieme di reati omogenei.
Indubbiamente questa bipartizione anticipa la distinizione tra delitti e contravvenzioni fissata
dall’art.39 del vigente codice penale italiano. Occorre, tuttavia, sottolineare una differenza
importante:
mentre il nostro ordinamento distingue le due classi di reati secondo la diversa specie delle pene
per essi stabilite
secondo la Giuseppina i reati sono distinguibili in base alla loro struttura ontologica:
sono detti criminali, le condotte che lo stato deve sempre punire
sono detti politici, le trasgressioni alle regole sociali che lo stato sceglie di punire
nell’esercizio della propria attività amministrativa.
105
Dunque la struttura bipartita della Giuseppina, è concepita in vista di due precisi obiettivi di politica
criminale:
1- Obiettivo di segno liberal-garantistico
Giuseppe II ha identificato, nell’ambito dell’intero diritto penale, una sorta di diritto penale di
polizia, decriminalizzando (o, se si vuole, amministrativizzando) vari reati da sempre puniti come
crimina, ed ora puniti, invece, come contravvenzioni, e cioè come atti non direttamente lesivi di
beni giuridici primari.
Nell’ambito di queste trasgressioni di minore gravità, compaiono reati come l’eresia, la bestemmia
e l’adulterio: sotto questo aspetto, dunque, il codice di Giuseppe II compie una operazione
straordinaria, in quanto, in virtù della laicità dello stato, non punisce più come crimini le scelte di
coscienza o le abitudini sessuali riprovate dalla morale religiosa.
2- Obiettivo di impronta autoritaria e statualistica
Se il codice Giuseppino ha questa evidente impronta liberale, esso ha anche una impronta
assolutistica:
i comportamenti che formalmente sono stati decriminalizzati, infatti, di fatto non sono stati però
depenalizzati: lo stato non rinuncia cioè a punirli, affidando le loro punizioni ad un diritto penale di
polizia, le cui sanzioni sono tutt’altro che miti:
dalle bastonate in pubblico, all’esposizione alla berlina, dall’arresto, eventualmente accompagnato
da isolamento e digiuno, al lavoro pubblico.
e) Principi, definizioni, classificazione e introduzione della parte criminale della Giuseppina
• 1- Il reato
Il codice penale criminale Giuseppino si suddivide in una parte generale, fatta di due capitoli, e in
una parte speciale.
Per il penalista, le norme più interessanti sono quelle dei primi due capitoli, che contengono due
principi-pilastro del diritto penale moderno:
a) il principio della espressa previsione legislativa del fatto criminoso (nullum crimen sine
lege)
b) il principio di colpevolezza (nulla poena sine culpa), secondo il quale:
CHI SENZA MALIGNA VOLONTA’ COMMETTE UNA AZIONE ANNOVERATA TRA I DELITTI
CRIMINALI, NON POTRA’ ESSERE CONSIDERATO UN DELINQUENTE CRIMINALE, ANCHE SE
EGLI SIA COLPEVOLE..
Si presuppone, infatti, la maliziosa intenzione, ossia che l’azione contraria alla legge sia stata prima
premeditata e poi messa in atto con lo scopo di fare del male.
Il crimine, dunque, non può essere punito se non quando commesso con dolo (commissivo o
omissivo), per avere il quale è necessario che l’agente abbia liberamente voluto l’effetto
socialmente dannoso, che è conseguito al suo comportamento.
Il fatto di considerare il dolo come volontà di compiere il fatto lesivo, porta il legislatore ad
escludere gli illeciti colposi (cioè gli illeciti non intenzionali) dalla parte criminale del codice,
inserendoli nella parte politica:
il delitto colposo, dunque, viene declassato a contravvenzione.
• 2- La pena
Giuseppe II considera il principale fine del codice il criterio di proporzionalità, volto a trovare la
giusta misura tra i delitti e le pene.
Si susseguono, poi, i principi
della personalità della pena, secondo cui essa può colpire solo l’autore del delitto
106
della pubblicità della pena, secondo cui il giudice non può eliminare la pena, attraverso un
compenso tra delinquente e danneggiato
della imprescrittibilità della pena (e del reato)
Non proclamati, ma ugualmente presenti come motivi ispiratori del codice, sono i principi della
laicità della pena e della sua uguaglianza per tutti i sudditi.
Il fine della pena, invece, è duplice:
• quello della prevenzione generale, intesa come intimidazione dei consociati (e non come
incoraggiamento ad osservare le norme)
• quello della prevenzione speciale, concepita come neutralizzazione del criminale (e non
come sua risocializzazione):
che Giuseppe II abbia in mente la messa fuori uso del delinquente e non la sua risocializzazione lo
mostra l’intero sistema delle sanzioni,
-minuziosamente proporzionate secondo una progressione di deterrenza,
-e più temibili della morte stessa:
il condannato al carcere durissimo, ad esempio, dovrà trascorrere in galera da un minimo di 30 ad
un massimo di 100 anni, con un cerchio di ferro intorno al torace per rendere penosa la respirazione,
ferri ai piedi, un letto di assi, nutrimento a pane ed acqua ed isolamento assoluto.
IL CODICE DI PROCEDURA CRIMINALE DI GIUSEPPE II
Se la Giuseppina è per eccellenza il primo codice penale moderno della storia,
il codice di procedura penale Giuseppino è a sua volta il primo moderno codice di procedura
penale.
Immeritatamente trascurato dalla storiografia, questo prodotto dell’illuminismo regge molto bene il
confronto con il codice penale di un anno più recente:
esso rappresenta quello che può essere definito il modello di processo penale dell’assolutismo
illuminato:
coerentemente con la politica dell’assolutismo, il sistema accolto è quello inquisitorio,
-fondato sui principi della segretezza e della scrittura
-e in cui è assente il contraddittorio
TUTTAVIA, il giudice che deve giudicare non è quello d’ancien regime, provvisto dunque di
grandi poteri arbitrari,
MA un magistrato burocratizzato, sorvegliato passo passo dallo stato,
-che percorre iter formali precostituiti
-e che pronuncia decisioni automaticamente controllate dalle istanze superiori
Il codice, dunque, si compone di due volti: uno garantistico e l’altro statualistico.
a) L’elemento garantistico
Il giudice del codice di procedura penale Giuseppino si muove secondo la logica del sistema delle
prove legali, logica che vincola a priori la sua pronuncia in questo modo:
• esiste la piena prova legale del delitto l’inquisito viene contattato alla pena fissata dal
codice penale per il delitto stesso.
• non esiste la prova legale del delittol’inquisito viene assolto
• non si ha la piena prova legale del delitto, bensì una prova incompleta, di carattere
indiziariol’inquisito viene assolto per insufficienza di prove.
107
Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.
E’ proprio quest’ultimo punto delle mezze prove che costituisce un fondamentale momento
garantistico di rottura con il processo penale di ancien regime:
quando non si è in presenza di prove piene, infatti,
mentre il giudice di diritto comune poteva decidere a suo arbitrio
-di condannare il semi-reo a pene straordinarie
-o di sottoporlo alla tortura, ottenendo la confessione necessaria per la condanna alla pena edittale
il giudice Giuseppino viene invece privato di ogni prerogativa arbitraria, in quanto il suo giudizio
non può che essere l’automatica presa d’atto della sussistenza o meno delle prove predeterminate
tassativamente dalla legge.
Le prove che la legge predetermina tassativamente come vincolanti il giudice
-alla condanna alla pena edittale (se è presente una di esse)
-all’assoluzione (se esse sono mancanti)
-o all’assoluzione per insufficienza di prove (se nessuna di esse è pienamente raggiunta)
sono:
LA CONFESSIONE DELL’INQUISITO
LA DEPOSIZIONE DI ALMENO DUE TESTI IDONEI E CREDIBILI
IL CONCORSO DI CIRCOSTANZE
Se fino ad ora, dunque, si è collegato il garantismo all’adozione di un sistema di prove legali
depurato da sorta di arbitrio giudiziale,
occorre guardarlo, ora, in relazione al valore probatorio della confessione:
anche per il legislatore austriaco, infatti,
-la confessione è per eccellenza la regina delle prove
-e il giudice, nell’interrogare l’imputato, deve porre in atto le più sofisticate tecniche analitiche per
porlo con le spalle al muro
TUTTAVIAla confessione non costituisce una prova se è stata ottenuta attraverso promesse,
minacce, violenze o altri mezzi illeciti.
Anche se, dunque, la tortura è stata già abolita, non devono essere consentite neppure le formule
subdole di estorsione della risposta.
b) L’elemento statualistico
Oltre all’elemento garantistico del codice di procedura penale Giuseppino, occorre guardare anche
all’elemento statualistico, ossia al volto, in esso presente, dell’assolutismo più integrale.
Nella patente di promulgazione del codice, si asserisce
che il giudice deve essere “il più zelante difensore dell’innocenza dell’inquisito”:
l’onere della ricerca delle prove, dunque, viene posto a carico del magistrato, e la formula assume,
in questo modo, un taglio garantistico.
Essa, tuttavia, possiede allo stesso tempo anche un significato perfettamente antitetico, di stampo
statualistico, secondo cui al giudice è affidato anche l’ufficio della difesa dell’imputato.
Nessun avvocato difensore compare, dunque, di fronte al giudice-factotum visualizzato dal codice
che al giudice è fatto divieto di usare mezzi non corretti per ottenere la confessione:
norma correttissima, che per il suo garantismo potrebbe essere il fiore all’occhiello del legislatore
austriaco.
108
Tuttavia questo principio ne presuppone altri due che impongono la stessa correttezza anche
all’inquisito, secondo una singolare regola di reciproca lealtà tra le parti. Dunque guai all’imputato:
-che si finga pazzo rispondendo in modo insensato all’inquirente, in quanto, qualora accertata la sua
sanità mentale, risulti essere un simulatore, verrà punito a bastonate.
-che si trinceri nel mutismo, in quanto chi pensa di avere diritto al silenzio, non rispondendo alle
interrogazioni del giudice, verrà castigato a bastonate, finché non ricomincerà a parlare.
La giustizia dello stato Giuseppino, assoluto e illuminato, dunque,
non può essere macchiata dall’uso della tortura.
TUTTAVIA, chi la offende con la non collaborazione o con il silenzio, deve essere castigato:
scompare dunque il nome di tortura, e compare quello di castigo.
IL “DOPO GIUSEPPE II” NELLA STORIA DELLA CODIFICAZIONE PENALE AUSTRIACA:
IL CODICE PENALE DEL 1803
La Giuseppina e il codice di procedura penale rimasero in vigore poco più di 15 anni:
nel 1803, infatti, essi furono entrambi sostituiti da un nuovo codice penale-processuale
promulgato da Francesco I, succeduto al padre Leopoldo.
A differenza delle due antecedenti normative settecentesche, questo codice francescano disciplinò la
giustizia penale in una vasta area d’Italia: esso, infatti, rimase in vigore nel Lombardo Veneto fino
all’unità.
b) Uno sguardo d’insieme alla fisionomia del codice penale del 1803 (parte sostanziale)
Al “codice penale universale austriaco” del 1803 ben si addice, in ragione della sua grandiosità
strutturale, la qualifica di monumento legislativo.
La sua struttura è indiscutibilmente razionale:
una parte dedicata ai delitti, cui si correla la relativa parte processuale
una seconda parte dedicata alle contravvenzioni, anch’essa seguita da una parteprocessuale.
E’ in questo modo che, corrispondendo ad una parte sostanziale, una parte processuale, la
bipartizione del testo diventa quadripartizione.
L’architetto di questa costruzione è VON SONNENFELS, il più celebre elaboratore settecentesco
della dottrina volta a bipartire l’universo penalistico in delitti e contravvenzioni di polizia:
è dunque proprio a lui e alla sua squadra di eccellenti giuristi che si deve la nascita di questo codice
penale del 1803 che chiude l’assolutismo illuminato.
L’obiettivo è quello di tracciare una esatta linea di confine tra i delitti e le gravi trasgressioni di
polizia. Tenendo a mente questo fine,
in una parte generale del codice viene subito proclamato il principio di legalità del diritto
penale, e si dichiara anche
-che è escluso ogni arbitrio del magistrato
-che la pena deve essere erogata in base a circostanze tassativamente precostituite.
Ritroviamo enunciati, inoltre, anche i principi
della proporzionalità, personalità e pubblicità della pena.
del dolo intenzionale, considerato dal legislatore come l’essenza stessa dell’azione o
dell’omissione delittuosa
del dolo eventuale
della preterintenzione
I giuristi austriaci hanno grandi capacità sistematiche:
per mezzo del loro spirito razionale, essi hanno
-costituito una tabula gerarchica di beni e valori da tutelare
-pensato delle pene che corrispondano proporzionalmente ai beni offesi.
109
Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.
Tuttavia, alla nostra ammirazione per le finezze dei giuristi austriaci, subentra un senso di
costernazione quando ci accorgiamo del doppio sistema delle pene:
l’alternativa per i delitti è costituita
dalla morte sulla forca
o dalla ritenzione del reo in carcere: questa può essere perpetua o a tempo determinato.
Il codice prevede
-un carcere di primo grado (senza ferri)
-un carcere duro di secondo grado (ferri ai piedi, letto di nude tavole e nessun contatto con
l’esterno)
-un carcere durissimo di terzo grado (ferri a mani e piedi, cerchio di ferro intorno al corpo e catena,
cibo caldo solo a giorni alterni, isolamento assoluto, luce e spazio sufficienti a vederci e a
respirare): questo durissimo carcere è, insomma, una pena di morte diluita nel tempo.
Così come Giuseppe II, dunque, anche il legislatore del 1803 ha la mano pesante.
Il codice penale austriaco del 1803, infatti, è la lista dei tre principi che reggono il diritto penale di
un moderno stato di diritto, ma con davanti dei “non”:
• NON umanità della pena
Formula che non richiede spiegazioni, visto cosa devono subire i carcerati
• NON educatività della pena
La severità della pena è commisurata alle esigenze delle prevenzione generale, prima ancora che
alla gravità dell’offesa arrecata: il sistema deve difendere innanzitutto se stesso.
La pena, infatti, non esaurisce la sua funzione nel momento della minaccia, ma nel momento
dell’applicazione, operando un castigo esemplare.
• NON laicità della pena
Bestemmia, propaganda antireligiosa e diffusione di dottrine contrarie alla religione cristiana sono
punite con il carcere da sei mesi ad un anno.
c) Le radici “giuseppine” del codice penale del 1803
In genere, ciò che determina la fine di un codice è una ideologia politica innovativa, che lo priva del
consenso che esso aveva precedentemente.
La storia delle codificazioni ci mostra che ogni codice nasce necessariamente su un cumulo di
macerie, vale a dire sulle rovine del sistema giuridico precedente.
Essa, tuttavia, ci mostra anche che nessun codice riesce ad erigersi se non utilizzando quelle stesse
rovine.
Solo poche volte si è provato a fondare un corpo normativo sulle pure formule politiche, ma questo
diritto…
o è vissuto poco (es. il codice penale dell’assemblea costituente francese del 1791)
o non è riuscito neanche a nascere (es. il primo progetto di codice civile del celebre Cambacérès)
La storia dei primi moderni codici della storia mostra quanta forza abbia questo fenomeno che lega
un ordinamento giuridico al suo passato: proprio questi nuovi codici, redatti da giuristi d’ancien
regime, sono nati più dal diritto comune che contro di esso, filiando, poi, successive generazioni di
codici.
Si può dunque prendere per legge il fatto che i codici nascono dai codici:
questa legge può essere immediatamente verificata per mezzo del codice penale austriaco del 1803,
che si situa in un rapporto di continuità strettissimo con la Giuseppina del 1787 (il codice a cui si
sostituisce).
110
Cadoppi ha colto così tanto questo legame di parentela tra i due codici, che è giunto a parlare del
secondo di essi come sviluppo del primo, concludendo che la coppia 1787-1803 va considerata
unitariamente.
• Dunque il codice penale austriaco del 1803 è un figlio che ha rimpiazzato il padre, tanto che
esso, più che una codificazione, è una ricodificazione, ossia un rifacimento della Giuseppina:
stessa ampia parte generale, stesso assetto a due ali dei reati, stessi principi di fondo, stesse formule
definitorie, e stessa idea della legalità-terribilità del diritto penale, in base alla quale la protezione
della società è perseguita razionalmente dal sovrano assoluto in vista del bene comune attraverso un
legale terrorismo dissuasivo.
• Certo, nella codificazione del 1803 ci sono anche alcune novità:
-la convivenza, nello stesso testo, di norme sostanziali e norme processuali
-i cinque casi in cui è comminata la pena di morte (che la Giuseppina, invece, aveva abolito)
-l’eliminazione degli effetti più vistosi dei maniacali calcoli punitivi di Giuseppe II (incatenazionedetenzione per 100 anni, sanzioni infamanti contro i morti…)
• Questi elementi di frattura, tuttavia, non interrompono che per brevi tratti la continuità di fondo
che lega i due codici:
che lo voglia o no, Francesco I si muove sull’ombra del suo predecessore Giuseppe II, il primo a
compiere il gesto della codificazione penale.
Ci si può chiedere, a questo punto, quali motivi spinsero i successori di Giuseppe II ad una nuova
codificazione panale, quando al limite sarebbe bastato loro un semplice intervento di novellazione. I
motivi sono ovvi:
Giuseppe II, con il suo furibondo riformismo, aveva calato dall’alto le sue norme terroristiche,
scontentando tutti.
La Giuseppina, poi, era apparsa come una macchina distruttiva dei privilegi di ceto e dei
particolarismi giuridici.
Per ricompattare i sudditi intorno al nuovo diritto, dunque, Francesco I doveva compiere l’atto della
promulgazione di un nuovo codice penale, che esibisse caratteristiche manifestamente
antigiuseppine.
d) Il processo
Occorre chiedersi, a questo punto, se la storia del diritto italiano confermi o meno la tradizione che
fa del processo austriaco uno spietata macchina politica.
1. Il codice del 1803 istituisce
un processo sui delitti, funzionante a tre livelli di giudizio
e un processo sulle trasgressioni di polizia, funzionante anch’esso su tre livelli di giudizio.
Il codice del 1803 celebra la rivincita del protocollo:
al contrario della disciplina processuale in vigore in Francia, in cui si è consolidato un
sistema accusatorio in cui hanno notevole spazio i canoni della pubblicità, dell’oralità e del
contradditorio,
il processo austriaco riconferma il primato della scrittura sull’oralità, della segretezza sulla
pubblicità, del sistema inquisitorio su quello accusatorio.
2. Eppure in questo tipo di assolutismo, che si potenzia restaurando gli strumenti inquisitori
d’ancien regime, c’è anche una illuminata vena garantistica:
il problema del rapporto tra giudice e legge penale è risolto secondo i canoni della più severa
legalità: quello del codice del 1803 è un giudice-funzionario, un magistrato spersonalizzato
111
-che parla esclusivamente attraverso il protocollo,
-e che è incatenato al sistema delle prove legali, concepito nel suo assetto originario: egli, infatti,
ove difetti la prova piena, non può utilizzare la pena straordinaria.
Il giudice austriaco del 1803, dunque, come abbiamo già visto, è un inquirente-giudicante
burocratizzato dal codice attraverso il protocollo. Egli, come il giudice Giuseppino, è un factotum,
tanto che l’imputato non può chiedere…
-né che gli sia accordato un avvocato
-né che gli vengano comunicati gli indizi contro di lui.
3. Questa eliminazione della difesa tecnica ebbe effetti catastrofici nell’ambiente forense lombardo:
la riduzione dell’attività forense a livelli minimali e insieme la subordinazione dell’avvocatura alla
magistratura furono volutamente annientanti, tanto che si può concludere che l’esclusione della
difesa tecnica dal processo penale del codice del 1803 derivi dal convincimento che gli avvocati
intralcino il cammino della giustizia.
4. Riassumendo.
Si ha
un giudice a tre teste, simultaneamente inquirente, difensore e giudicante
e un imputato garantito da un codice che immobilizza tutto nel protocollo.
Il fatto che, per il legislatore austriaco, tutto l’interrogatorio sia volto ad ottenere la prova regina
della confessione, non toglie che il giudice debba procedere secondo un percorso obbligato, fatto di
adempimenti garantistici:
le norme del codice del 1803 sono norme inequivocabilmente liberali, che ripetono quelle della
Giuseppina.
5. A questo punto si pone un problema delicato:
ci si chiede, infatti, come mai, esistendo tante cautele garantistiche che andavano a sostituire la
difesa tecnica, nei famosi processi politici degli anni venti l’autorità giudiziaria austriaca ottenne
così tante confessioni da parte di uomini come Pellico, Gonfalonieri o Pallavicino, colti personaggi,
questi, che con le loro ammissioni, decretarono la propria condanna a morte.
Possibile che non sapessero che il codice escludeva la pena di morte, qualora mancasse la piena
confessione dell’inquisito?
Sì, è possibile.
La maggiorparte dei cospiratori aveva una scarsa conoscenza del codice penale; tuttavia questo non
spiega la clamorosa serie di confessione ottenute dai giudici. Per spiegare tutto ciò occorre
considerare….
che i giudici che condussero i processi avevano grandi capacità professionali: essi erano autentici
specialisti delle asfissianti tecniche inquisitorie, e conoscevano tutti i trucchi per insinuarsi nella
testa dell’inquisito, suscitando sconcerto.
E’ in questo modo che, anche un codice in qualche modo garantistico, comincia a diventare
temibile:
esso, infatti, autorizzava il giudice ad interrogare gli imputati qualunque giorno, in qualunque ora,
per il numero delle volte che essi volevano. E’ così che gli imputati, strappati spesso al sonno della
notte, ed azzannati dalle domande degli inquirenti, vedevano prender forma lo spettro della tortura
(almeno quella del mancato sonno).
6. Occorre ora guardare se, nel codice penale austriaco del 1803, fosse prevista la tortura.
Dopo aver sentito proclamare dal legislatore che la confessione, in qualunque modo costretta o
carpita, non può essere considerata una prova legale,
tre articoli d’ancien regime del codice suonano come un pugno nello stomaco:
112
l’autorità giudiziaria, infatti, finisce per determinare la volontà dell’inquisito, imponendogli
l’obbligo di verità a colpi di bastone.
Di certo il giudice che ha il dovere di tutelare l’imputato e il giudice che ha il compito di
procurarsene la collaborazione con la giustizia a bastonate non convivono bene.
E per salvare l’immagine del legislatore, non basta chiamare “castigo” ciò che prima si chiamava
“tortura”: quei tre articoli deturpano irrimediabilmente il codice del 1803, indebolendo il
garantismo delle altre sue norme.
Ciò che dunque aveva spinto, nei processi politici degli anni venti, alle confessioni, era stata non
l’ignoranza della pena di morte, ma la conoscenza (e il conseguente timore) della tortura.
Il codice del 1803, dunque…
nella parte sostanziale, è un codice contrassegnato
-da un rigoroso accoglimento del principio di legalità
-e da un rigoroso rifiuto del criterio di umanità della pena
nella parte processuale, è un codice dilaniato dall’antinomia tra norme poste a tutela della
persona dell’imputato e norme volte a sollecitarne la confessione attraverso la violenza:
nel complesso, questa parte risulta essere una impossibile conciliazione tra assolutismo e
garantismo.
e) La tecnica legislativa del codice penale austriaco
Molto importante è studiare anche il tipo di tecnica legislativa adottato dai giuristi del codice del
1803:
codificare il diritto, infatti, non significa semplicemente scriverlo: lo capirono bene i pionieri della
codificazione, che dovettero compiere uno sforzo enorme, cioè una operazione senza precedenti
nella tradizione legislativa.
Per Giuseppe II, primo in assoluto a dare assetto al diritto penale, codificare il diritto significò
articolare i singoli imperativi, cristallizzandoli nella forma del comando legislativo.
Nel codice penale del 1803 il legislatore ha operato come professore:
una parte generale da manuale
uno stile didascalico-dottrinale, con cui si descrive ciò che si intende punire
un corpo normativo di carattere moraleggiante
113
SEZIONE IV:
L’AREA ITALIANA E LA CODIFICAZIONE DEL DIRITTO PENALE
La promulgazione della Leopoldina in Toscana (1786)
L’ASSOLUTISMO ILLUMINATO DI PIETRO LEOPOLDO, GRANDUCA IN TOSCANA DAL
1765 AL 1790
A Vienna, accanto al figlio filosofo Giuseppe II, Maria Teresa ha allevato anche Pietro Leopoldo:
per volere della madre, a costui viene impartita, fino al 1765, una rigorosa istruzione giuridica dal
prestigioso precettore di corte Martini: da quell’anno in poi, infatti, debitamente attrezzato delle
idee essenziali sui doveri e i poteri dei principi, Pietro Leopoldo succederà al padre nel governo
della Toscana.
Quando giunge nel suo piccolo stato, Pietro Leopoldo ha 18 anni: vi regnerà come granduca per
altri 25 governando secondo una linea politica sempre più autonoma rispetto a quella centralistica di
Vienna.
Se è vero che l’intelligenza razionale di Leopoldo non euguaglia quella di Giuseppe,
è anche vero che egli supera il fratello per altre qualità:
la sua mente lucida ma non affetta da astrattismi, ne fa un uomo abile e pratico, dotato di senso del
realismo.
Anche Leopoldo, così come il fratello, si ritiene per contratto primo servitore dello stato, supremo
artefice del bene comune dei sudditi.
Lettore insaziabile della letteratura illuministica tedesca, francese ed italiana, Leopoldo si circonda
via via di una elite di ministri illuminati toscani dagli orientamenti riformistici, che si insediano
intorno a lui sostituendo i consiglieri viennesi:
Leopoldo vuole accanto a lui degli uomini che lo informino non sul modo ideale di condurre uno
stato in generale, bensì sui reali problemi della Toscana.
I problemi della Toscana sono molti e complessi:
L’opera Leopoldina di risanamento della situazione agraria, finanziaria ed economica
della Toscana consiste in una serie di misure volte a realizzare con ogni mezzo
-la bonifica e lo sfruttamento dei territori paludosi del granducato
-la soppressione dei tradizionali privilegi
Nell’ambito delle riforme ecclesiastiche, invece, Leopoldo mirava a spezzare la subordinazione
del clero toscano a quello di Roma, inglobandolo sotto la sua giurisdizione e sotto il suo controllo:
la condotta di questa linea politica porta, nel granducato, alla soppressione
-del tribunale dell’inquisizione
-dell’ordine dei gesuiti, provvedimento, questo, preso in vista di un richiamo allo stato
dell’insegnamento.
Per quanto riguarda, invece, la riforma generale del diritto del Granducato, occorre
sottolineare il fatto che in Toscana era presente una intricata situazione di particolarismo giuridico:
un groviglio di diritti feudali, comunali e corporativi, nonché di leggi ordinarie e speciali.
Dopo un fallito tentativo riordinatore ad opera di Pompeo Neri,
quando Leopoldo giunge in Toscana i giuristi lì presenti hanno un’idea di codificazione basata
sulla volontà di salvare il diritto comune:
è per questo motivo che un paio di progetti per la redazione di un codice toscano affidati da
Leopoldo a due notevoli giuristi si arenano facilmente.
114
La fedeltà dei giuristi al diritto comune si manterrà ben oltre l’età di Leopoldo, tanto che il
granducato non avrà un proprio codice civile per tutta l’età in cui gli stati pre-unitari realizzeranno
una loro codificazione.
Tutto ciò fino a quando si avrà l’unificazione legislativa nazionale, e la Toscana entrerà sotto
l’impero del codice civile del 1865.
LA LEOPOLDINA: IL PROCESSO FORMATIVO DEL TESTO
La riforma giuridica che ebbe, invece, un successo straordinario e che fece di Leopoldo un astro
dell’illuminismo europeo fu la codificazione del diritto penale e processuale penale.
Felicissima fu, infatti, la scelta di isolare dal resto dell’ordinamento positivo il campo penalistico: la
passione di Leopoldo
-per il mondo dei lumi in generale
-e per i problemi della giustizia penale in particolare
diedero vita, in Toscana, alla prima trasformazione in legge delle idee di Beccaria e Montesquieu.
Leopoldo, infatti, provava una attrazione irresistibile per la materia dei delitti e delle pene, e dunque
la riforma del sistema penale gli apparve subito come una priorità:
se infatti la cultura giuridica toscana vedeva con sfavore l’idea di un codice civile che negasse per
sempre il diritto comune,
essa, al contrario, si mostrava molto sensibile nell’ambito delle questioni di politica criminale: fu
così che la Toscana costituì…
-prima, un ambiente favorevole al successo del libro di Beccaria
-poi, l’universo del mito del “codice leopoldino”
-ed infine lo stato pre-unitario dotato del più importante codice penale, codice che, privo della pena
di morte, si sarebbe mantenuto in vigore in Toscana fino alla promulgazione del codice Zanardelli.
Quella dei giuristi toscani non fu un’opera di assecondamento prestata a Leopoldo, bensì fu il
consenso di uomini disposti ad imboccare la via delle innovazioni e a percorrerla con prudenza;
sicuramente fu Leopoldo, e non certo loro, che per primo mise in moto la grande impresa!
Egli aveva raccolto una considerevole quantità di appunti ricavati dai più grandi libri del diritto
penale, ma anche dai fatti, dalle statistiche e dal funzionamento delle giurisdizione penale nel
granducato: in questo modo, egli elaborò una bozza d’avvio della riforma legislativa, stabilendo i
punti chiave con cui intendeva dare assetto alla procedura e al diritto penale toscani.
Il testo venne pubblicato definitivamente nel 1786 sotto il nomadi “Riforma della legislazione
criminale toscana”, ribattezzata poi “Codice Leopoldino” o, più familiarmente, “Leopoldina”.
LA LEOPOLDINA: SUA VALUTAZIONE SOTTO IL PROFILO FORMALE
Ciò che colpisce immediatamente della Leopoldina è la sua brevità: tutto, infatti, si esaurisce in un
prologo, seguito da 119 articoli:
naturalmente già il fatto che un testo legislativo si presenti sotto una veste formale tanto semplice,
rende complesso il problema di come qualificarlo.
Per fare ciò, occorre considerare secondo quale schema il legislatore ha dislocato le sue norme:
Per quanto riguarda la struttura del testo,
la prima massa di articoli è dedicata al processo penale
poi viene, invece, il diritto penale
e infine le ultime 10 norme riguardano
-la chiusura del processo
115
-il risarcimento delle spese
-la prescrizione del reato
-il potere punitivo del giudice in caso di lacuna della legge
All’interno dei due principali blocchi di articoli, non c’è sempre coerenza: tuttavia, a dispetto di ciò,
l’identità e l’autonomia dei due blocchi di norme risultano riconoscibili.
Essi dimostrano che Leopoldo ha concepito la propria legge come bi-funzionale:
-prima la fase del processo
-poi la fase dell’applicazione della pena all’autore del delitto processualmente accertato.
Per quanto riguarda, invece, lo stile della Leopoldina (ossia la tecnica di formulazione dei
precetti), questo stile non è l’ideale linguistico per quello che noi, oggi, chiamiamo codice:
le norme, infatti, sono tutt’altro che lineari, e si dilungano in dissertazioni filosofiche e descrizioni:
Leopoldo è un legislatore che intende comunicare con i destinatari del codice.
Inquadriamo, infine, la Leopoldina nell’ambito del rapporto tra il giudice e la legge
penale:
E’ cosa scontata dire che 119 articoli non bastano a fare un codice:
l’incompletezza della Leopoldina ha fatto sì che sopravvivesse una buona parte della legislazione
previgente, con la conseguenza che il legislatore concesse ampio spazio all’arbitrio del giudice.
Il giudice della Leopoldina ha ampi poteri discrezionali…
A livello di accertamento processuale del reato, laddove egli deve valutare le prove a carico
dell’accusato:
nel momento in cui la prova piena fa difetto, ma sono presenti forti indizi, al giudice è concesso il
ricorso a qualche pena straordinaria.
Quando irroga al colpevole, pienamente accertato come tale, la pena minacciata dalla legge per
uno specifico reato:
consapevole della lacunosità dell’opera, il legislatore cerca tuttavia di mantenere sotto controllo la
libertà concessa ai magistrati, vincolandoli ad indicare nella sentenza i motivi del giudizio
arbitrario.
Il giudice, infine, ha ampi poteri discrezionali nel rapporto che intercorre tra la nuova legge e il
diritto previgente:
la Leopoldina, infatti, si limita ad abrogare e sostituire la parte del diritto penale toscano
assolutamente inconciliabile con essa.
il resto della vecchia legislazione, dunque, rimane in vigore, e il giudice devi ricorrervi come una
fonte idonea a colmare le lacune del nuovo diritto:
questa integrazione, tuttavia, deve essere fatta applicando vecchio il diritto secondo lo spirito della
nuova legge, vale a dire interpretandolo secondo i valori della Leopoldina.
E’ manifesto tuttavia il fatto che questa utilizzazione delle norme di antico regime, seppur
sottoposte ad una ratio completamente nuova, impone che si conceda al giudice una notevole libertà
di interpretazione, con conseguente dissoluzione dei principi di certezza e di legalità.
Chi, dunque, cercasse nella Leopoldina i requisiti formali di un codice, sarebbe deluso da questa
ricerca.
116
Tuttavia la critica ha discusso a lungo sul se la Leopoldina fosse o meno un codice moderno.
La risposta (negativa) appare quasi scontata se si tengono in considerazione tre punti:
1. La concezione bi-funzionale del testo,
che inizia con una cinquantina di articoli di procedura penale, prosegue con poco più di altrettante
norme dedicate al diritto penale sostanziale e si conclude con un gruppetto misto di articoli.
La compiuta realizzazione dell’opera, invece, sarebbe stata raggiunta solo con il “codice penale
universale austriaco” del 1803, costituito da una coppia di codici riuniti in un solo testo, ma ognuno
dei quali autonomo e completo.
Per quanto riguarda la Leopoldina, essa non è che un rudimentale abbozzo di questo disegno:
-da un lato un pungo di articoli di diritto processuale
-dall’altro una manciata di norme a contenuto sostanziale:
due agglomerati normativi di per sé distinguibili, ma agganciati tra loro senza una divisione netta.
Anche se, dunque, Leopoldo cerca di spiegare lui per primo perché la sua legge sia stata stesa in
questo modo, i criteri con i quali egli ha pensato la propria opera non emergono comunque con
chiarezza.
2. Per quanto riguarda, invece, il punto di vista stilistico,
gli articoli sono sistemati in un linguaggio discorsivo ed esplicativo piuttosto che in un linguaggio
imperativo.
3. Infine…
la dichiarata incompletezza del testo
la sua integrabilità con il diritto previgente
l’arbitrio concesso ancora in gran parte al giudice
impediscono di qualificare la Leopoldina come un “codice”.
LA LEOPOLDINA: IL CONTENUTO NORMATIVO
Se la Leopoldina
per quanto riguarda
-la sua semicompletezza
-il suo linguaggio vecchiotto
-e la sua fiducia nei confronti dell’arbitrio giudiziale,
…è palesemente un prodotto d’ancien regime,
per quanto riguarda, invece, alcuni suoi contenuti normativi, essa è un vero e proprio prodotto
della modernità.
La mente innovatrice di Leopoldo porta ad un progresso tale della giustizia penale, che assicura al
granduca il primato di traduttore in legge delle idee di Beccaria.
Occorre vedere, dunque, ora, alcune tra le più importanti novità accolte, mediante il testo di
Beccaria, e nel processo, e nel diritto penale sostanziale.
a) Il processo
Alcune norme della Leopoldina, costituiscono un vero e proprio punto di rottura con la tradizione di
vecchio regime. Essa infatti…
impone che tutti gli atti istruttori vengano comunicati all’imputato, in modo che questi possa
chiedere l’assistenza di un avvocato, e ripetere i testimoni già uditi segretamente dall’inquirente.
-vieta di esercitare il mandato di cattura in tutti quei casi in cui si può ricorrere alla pena
pecuniaria
117
-vieta di ricorrere alla carcerazione preventiva nei confronti dei testimoni, eccettuati quelli che
sono palesemente reticenti
elimina l’incidenza, nel processo, delle c.d. “prove privilegiate”.
abolisce l’imposizione del giuramento a carico sia dell’accusato che dei testimoni, in quanto non
sono certo i giuramenti che fanno dire la verità ad un reo.
conferma l’abolizione della tortura:
sia perché il legislatore la ritiene assolutamente incompatibile con la logica umanitaria di un
giusto processo
sia perché abolire la tortura ha significato sopprimere il mezzo più usato dal giudice che non
dispone che di indizi per ottenere la confessione dell’inquisito.
b) Il diritto penale sostanziale
I. Le pene
Se l’abolizione della tortura rappresenta il picco del riformismo leopoldino nel campo della
procedura penale,
l’abolizione della pena di morte rappresenta il picco del riformismo nell’ambito del diritto
penale sostanziale.
Con un gesto che gli conferisce il primato di sovrano abolizionista, Leopoldo trasforma in norma
vera e propria la più celebre pagina scritta da Beccaria:
sulla spinta della sostituzione della pena capitale con quella dei lavori pubblici,
per via dello stesso movimento di stampo umanitario scompaiono anche
-le pene mutilanti
-il marchio
-i tratti di corda
-e la confisca dei beni del condannato
In scala ascendente, e badando alla proporzionalità, invece, è prevista l’applicazione di queste
sanzioni:
-pene pecuniarie
-carcere di un anno
-esilio
-gogna
-frusta pubblica
-per le donne: ergastolo, tutte rapate
-per gli uomini: lavori pubblici con anello al piede e doppia catena, da tre anni fino a vita.
II. I reati
Nella Leopoldina, anche i reati di diritto penale comune vengono decapitati:
il diritto di lesa maestà, esemplarmente punito fino a quel momento con i massimi livelli di
severità, viene considerato invece, da quel momento in poi, come un delitto ordinario, da castigarsi
dunque come gli altri delitti.
Dal diritto penale toscano scompare dunque l’intero titolo della lesa maestà, e i vari delitti prima
rientranti nel suo ambito, vengono ora puniti come singoli attentati alla sicurezza dello stato e
all’ordine pubblico.
118
E’ chiaro che la scelta legislativa operata dal granduca si fondi sulla filosofia dell’etica del servizio:
autodesacralizzandosi, infatti, Leopoldo si presenta ai sudditi come un sovrano che detiene il potere
non per diritto divino, ma per consenso del popolo.
Caduto l’involucro della lesa maestà, essendo egli servitore dello Stato, l’attentato alla sua persona
appare come un attentato diretto contro la sicurezza dello stato.
In prospettiva analoga i delitti contro la religione, detti delitti di lesa maestà divina (vale a dire
l’eresia, la magia, la bestemmia..) vengono puniti come delitti contro l’ordine pubblico.
Dunque, operando una valutazione conclusiva:
Se attribuiamo al termine codice il moderno significato di una compilazione con dei requisiti
sistematici e formali diversi rispetto a quelli delle compilazioni d’antico regime,
allora la Leopoldina non è un codice, in quanto essa è carente soprattutto su tre punti:
1. la concezione bifunzionale del brevissimo testo, peraltro promiscuo nelle parti di procedura
penale e di diritto penale sostanziale
2. lo stile di formulazione delle norme, eccessivamente discorsivo, e dunque difettoso di
incisività.
3. l’incompletezza del corpo normativo nel suo complesso, e dunque la necessità che esso venga
integrato con il diritto previgente, lasciando ampio spazio all’arbitrio giudiziale.
E’ per questi motivi che si è consolidata la tradizione per cui alla legge toscana viene negata
l’etichetta di “codice”.
Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.
119
PARTE QUARTA:
DALLA RIVOLUZIONE FRANCESE AL CODE NAPOLÉON
SEZIONE I:
DIRITTO E POLITICA NELLA RIVOLUZIONE FRANCESE
L’interpretazione della rivoluzione: un problema
LE ORIGINI DELLA RIVOLUZIONE FRANCESE: CRITICA E RIDISCUSSIONE DI TRE
CLASSICHE OPINIONI COMUNI
La storiografia, oggi, sta svolgendo una operazione di revisione intorno alla Rivoluzione francese,
revisione che ha già prodotto il capovolgimento di alcune tesi considerate come canoniche.
Occorre sottolineare il fatto che noi non siamo ancora pienamente usciti dal movimento avviatosi
nel 1789, tant’è vero che, generazione dopo generazione, continuiamo a scriverne e riscriverne la
storia.
Vengono proposte, ora, tre chiavi di lettura che ribaltano tre interpretazioni storiografiche
tradizionali, chiarendo chi non ha fatto la rivoluzione.
a) La rivoluzione, che è giunta ad abbattere l’assolutismo monarchico, non è stata innescata da
forze che combattevano bensì da forze che difendevano il regime del privilegio
La rivoluzione non è nata come un movimento volto a rovesciare la monarchia assoluta, in quanto
essa viene sgretolata da componenti interne al sistema:
nel contesto di una crisi senza precedenti, il debole ed influenzabile Luigi 16, incapace di
mantenersi su una linea politica scelta una volta per tutte, si muove in modo incoerente:
da un lato si affida a ministri, intesi a modernizzare l’amministrazione dello stato e a
riequilibrarne il bilancio
dall’altro si mostra riluttante a ripristinare gli Stati Generali, ossia le rappresentanze attraverso
cui clero, nobiltà e terzo stato possono dar voce ai propri problemi:
gli stati generali, infatti, non sono più stati convocati dal 1614.
Di questo vuoto istituzionale approfittano le grandi corti del regno, i Parlements.
I membri di queste 13 corti sono proprietari della carica che rivestono, carica che comporta il diritto
di registrazione dei provvedimenti legislativi della corona: è proprio avvalendosi di questo diritto
dalle capacità condizionanti che i Parlamenti fronteggiano l’azione politica del monarca.
Anche se, proprio per ovviare a questo problema, i membri del Parlamento di Parigi erano stati
destituiti dal loro incarico, poco dopo l’incauto Luigi 16 rimette al loro posto i già sospesi
parlamentari:
assumendo dunque nuovamente il ruolo di denunciatori degli abusi del re e dei suoi ministri, i
supremi tribunali organizzano un sistematico ostruzionismo (=boicottaggio, azione di intralcio) nei
confronti di ogni iniziativa ministeriale volta a risanare il bilancio, costringendo infine la Corona, in
piena bancarotta, a convocare gli stati generali.
Sono dunque stati i parlamenti a dare il primo micidiale colpo alla monarchia, facendo istituire
quella che poi divenne la piattaforma di lancio della rivoluzione.
b) La rivoluzione non è stata né provocata né preparata consapevolmente dalle ideologie
dell’illuminismo
Quella delle origini intellettuali della Rivoluzione è una ipotesi da escludere…
120
in quanto il pensiero dell’enciclopedia e dei lumi fu il pensiero, tutt’altro che rivoluzionario, di
una minoranza di intellettuali miranti a riformare piuttosto che a distruggere l’ordine politico
tradizionale.
Piuttosto, se è esistito un fenomeno culturale che ha contribuito ad indebolire le basi dell’ancien
regime (monarchia, chiesa…), questo fenomeno va ravvisato in quella letteratura di basso livello e
di impronta diffamatoria attraverso cui dei philosophes falliti descrissero i presunti vizi dei detentori
del potere.
Dunque l’illuminismo degli alti livelli letterari non volle né causò la Rivoluzione.
L’idea che informa tutto il pensiero dei lumi è quella di una elite di pensatori capaci di elevare
l’uomo alla felicità insegnando l’arte della legislazione ad un sovrano benefattore: è chiaro dunque
che questa idea non sia affine ad un pensiero rivoluzionario!
In realtà fu la Rivoluzione che si impadronì del linguaggio dei lumi, adattandolo ad una teoria e ad
una prassi politica dai lumi non previste: adattandolo, insomma, ad un movimento storico da essi
non immaginato!
Possiamo dunque concludere che l’illuminismo non causò la rivoluzione, ma sopravvisse lungo il
corso di essa, conservandosi negli schemi concettuali che i rivoluzionari recepirono ai propri fini.
C’è solo un tratto del pensiero illuministico che ritroviamo presente ed immutato nella rivoluzione,
e cioè
la religione della legge come strumento per la rigenerazione dell’uomo
e la concezione dell’uomo come essere plasmabile grazie alla legge.
c) La rivoluzione non fu fatta dalla borghesia né ebbe natura di classe
L’interpretazione di stampo marxista che, coerentemente all’idea secondo cui le classi sono le
uniche protagoniste della storia, attribuisce alla Rivoluzione una natura di classe, alla luce degli
studi più recenti regge ormai ben poco.
Occorre eliminare qualsiasi possibile equivoco sul significato del termine “borghesia”:
Considerando che il processo di industrializzazione si attiverà sul continente circa mezzo secolo
dopo, esso non può di certo essere inteso in senso capitalistico, anticipando al 1789 l’immagine di
un meccanismo volto a sfruttare una forza lavoro. Non è certo una classe borghese così raffigurata
che ha fatto la rivoluzione ponendo fine al regime feudale!
E’, al contrario, la Rivoluzione che ha creato questa classe, con un effetto postumo, che si è
prodotto nel giro di un trentennio dalla fine della rivoluzione stessa.
Dunque se parliamo di borghesia, occorre farlo pensando ad una borghesia precapitalistica, e cioè
ad un ceto sociale non definibile con precisione, molto variegato e privo di una configurazione
unitaria: un ceto a più livelli, che non ha una unitaria coscienza di classe né tantomeno valori
esclusivamente suoi.
Agli inizi del 1789, dunque, nessuna classe risulta pianificare contro un’altra classe la Rivoluzione:
per quanto paradossale possa sembrare, infatti, essa ebbe origini accidentali e circostanziali.
LA NATURA “CIRCOSTANZIALE” DI UNA RIVOLUZIONE SENZA REGISTA (E DEI SUOI
SVILUPPI)
I fatti depongono per una natura circostanziale della rivoluzione:
infatti, una volta che vengono riuniti gli Stati Generali,
i Parlamenti chiedono che i tre stati siedano in tre camere separate e votino “per ordine”
mentre il partito dei patrioti reclama una camera unica, il raddoppio dei deputati del terzo stato e
il voto “per testa”.
121
Concesso il raddoppio della rappresentanza del terzo stato in ragione della sua ampiezza numerica,
all’apertura degli Stati Generali la questione si focalizza sul voto “per testa”,senza il quale il
raddoppio non avrebbe avuto senso.
La questione è cruciale in quanto i deputati sono 1200, il Terzo Stato ne conta 600, e negli altri
destati non mancano nobili e preti favorevoli all’apertura di casta.
Tuttavia soprattutto nello stato dei nobili tantissimi deputati contrari all’idea di abbandonare il
tradizionale inquadramento nei tre ordini, per sostituirlo con l’assemblea unitaria, convincono anche
il re a non concedere il voto per testa.
Avviene così che i deputati del terzo stato, adducendo la ragione che essi da soli rappresentano
pressoché l’intera nazione, si proclamano Assemblea Nazionale (struttura unitaria che supera la
tripartizione per stati), autorizzando provvisoriamente con decreto la riscossione delle imposte.
Questa delibera del terzo stato è di per sé la rivoluzione: con una autentica presa di potere, infatti,
una nazione uniforme si è di colpo sostituita alla società per ceti d’ancien regime!
Così Luigi si persuade ad ordinare ai deputati di clero e nobiltà a riunirsi al terzo stato: il 9 luglio
l’assemblea nazionale si proclama costituente.
I fatti elencati fin ora, dunque, mostrano che la Rivoluzione in sé non ha un regista: lungi
dall’essere la messa in opera di una lotta di classe, essa…
trova la sua rampa di lancio nella riunione degli stati generali voluta dai parlamenti
e si mette in moto definitivamente
-prima con la questione della procedura di votazione
-e poi per via del terzo stato.
Dunque gli artefici del 1789 non erano rivoluzionari, in quanto costoro la rivoluzione non l’hanno
né voluta né immaginata, ma vi sono semplicemente scivolati dentro.
LA PROGRESSIONE A PARABOLA DI UNA RIVOLUZIONE FATTA DI PIU’ RIVOLUZIONI
Dalla sua origine fino al suo culmine, la rivoluzione avanza
-con un impressionante succedersi di riforme,
-e con una instancabile ridefinizione delle proprie istituzioni
Essa, insomma, divora e riproduce se stessa continuamente.
Dopo il Terzo Direttorio, la Rivoluzione entra nella fase discendente della reazione: essa naviga
verso la tradizione, crescendo sempre di più in ostilità nei confronti delle innovazioni rigeneratrici:
c’è ormai ansia, insomma, di porre fine alla rivoluzione.
Osservando questo processo nel suo complesso, Forrest sostenne che tra la riunione degli stati
generali del 1789, e l’istituzione del Terzo Direttorio, non ci fu un’unica rivoluzione, ma una serie
di rivoluzioni,
nel corso delle quali gruppi differenti tentarono di applicare ad un paese in trasformazione le
formule da loro scelte.
SACRALIZZAZIONE E POLITICIZZAZIONE DEL DIRITTO: UNA CHIAVE PER
INTERPRETARE LA TEORIA E LA PRASSI GIURIDICA DELLA RIVOLUZIONE
Qualunque interpretazione si voglia dare della rivoluzione, un punto sembra essere destinato a
rimanere fermo, e cioè il suo carattere politico-giuridico.
La Rivoluzione, infatti, è stata uno straordinario laboratorio di sperimentazione dell’esercizio del
potere politico in tutte le possibili forme di concezione moderna: un inesauribile serbatoio di
pratiche.
Ma ciò che della Rivoluzione ancora oggi continua a stupire è il fenomeno della
affermazione/negazione del diritto:
122
da un lato, infatti, la Rivoluzione ha un culto feticistico del diritto come strumento di
rigenerazione morale dell’individuo e della società: l’idea della Rivoluzione è quella di costruire un
uomo totalmente nuovo e felice perché reintegrato dalla legge nei suoi diritti naturali
dall’altro lato, però, la felicità pubblica che la Rivoluzione vuole costruire, spetta solo ai cittadini
-completamente integrati nello stato
-e che dissolvano i propri diritti nella legge dello stato:
ci troviamo qui di fronte all’altro aspetto, quello capovolto, della nomofilia rivoluzionaria,
consistente in un uso pratico del diritto, completamente subordinato alle ragioni della politica.
Questa strumentalizzazione/politicizzazione del diritto si risolve in un annientamento di quegli
stessi uomini che la rivoluzione vuole rigenerare.
L’intreccio tra la sacralizzazione del diritto e la sua subordinazione alla politica costituisce, dunque,
il nocciolo drammatico della rivoluzione che…
sul piano teorico, enuncia i principi dello stato di diritto
sul piano pratico, attua il totalitarismo.
E’ in questo modo che la Rivoluzione, pretendendo di fare dello stato un paradiso, crea invece
un’inferno.
DIRITTI DELL’UOMO E LEGGE DELLO STATO NELLA DICHIARAZIONE DEL 1789
La Rivoluzione si mette in marcia nel momento stesso in cui il terzo stato si costituisce in
assemblea nazionale:
il passo decisivo è segnato da un famosissimo discorso tenuto ad deputati dall’abate SIEYES, in cui
egli sviluppa questo teorema:
a) il terzo stato, in virtù della sua schiacciante predominanza numerica, costituisce l’intera nazione
b) la nazione è sovrana
c) i deputati riuniti in assemblea rappresentano la nazione ed esprimono la volontà nazionale.
Con questo dogma della sovranità della nazione, la Francia esce dal vecchio regime, e fa il primo
passo in quello nuovo.
Il secondo passo, consiste nella preparazione di una costituzione, carta fondamentale in cui la
nazione si riconosca e che il sovrano accetti.
Ma quando, il 17 Luglio 1789, l’assemblea nazionale si erige a costituente, essa sa di dover
assolvere a un compito preliminare: stilare una dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino
che faccia da preambolo alla costituzione stessa.
Ci si chiede se l’inviolabilità di questi diritti fondamentali sia un a priori di diritto naturale, o se essa
sia sancita a posteriori dalla legge positiva.
A questa domanda si sono avute le risposte più diverse:
ci sono coloro che intendono subordinare lo stato all’individuo, istituendo un primato del diritto
naturale
e ci sono coloro che invece, al contrario, pensano che nello stato, tutti i diritti vengano fissati
dalla legge, perché l’uomo, che pur vanta dei diritti nello stato di natura, entrando in società si
denaturalizza.
La dichiarazione dei diritti costituisce il risultato quasi miracoloso di un compromesso creatosi
all’ultimo momento tra le varie tendenze:
che i diritti dell’individuo siano naturali o civili, è comunque necessario che la legge dello stato li
eriga a barriere inviolabili dallo stato stesso.
In conclusione, la Dichiarazione del 1789 decolla con una impennata ottimistica: la fiducia nella
rigenerazione degli uomini domina lo spirito della maggior parte dei costituenti.
123
In realtà, il testo della Dichiarazione conteneva anche tutte le premesse, sviluppatesi poi, per uno
slittamento verso una rigenerazione forzata.
La legislazione rivoluzionaria nel campo della giustizia
I PRINCIPI FONDAMENTALI DEL COSTITUZIONALISMO RIVOLUZIONARIO
La rivoluzione fece propria la teoria di Montesquieu della tripartizione dei poteri:
occorreva che l’assemblea costituente proclamasse il primato del potere legislativo basato sulla
sovranità nazionale.
Questa operazione fu compiuta, dopo un lungo percorso, con la promulgazione della Costituzione,
che proclamò l’assoluto predominio del potere legislativo, e l’attribuzione di questo all’assemblea
che era stata eletta e che rappresentava la nazione.
Nel quadro di questa monarchia costituzionale, in cui la loi si è definitivamente sostituita al roi, al
sovrano spetta solamente un diritto di veto sospensivo.
PRIMATO DELLA LEGGE E RIORGANIZZAZIONE DELLA GIUSTIZIA NEL PERIODO
DELL’ASSEMBLEA COSTITUENTE: L’IDEOLOGIA ANTIGIURISPRUDENZIALE DELLA
RIVOLUZIONE
Una volta proclamato il primato del potere legislativo, il suo esercizio, detenuto dalla nazione, deve
essere difeso contro tutte le forza che, nell’ancien regime, hanno goduto del monopolio del diritto:
e cioè contro l’alta magistratura e tutti gli uomini di legge.
a) La messa in vacanza dei Parlements
Per riassettare il potere giudiziario la Costituente vota la messa in vacanza illimitata dei
Parlamenti, un provvedimento epurativo con il quale si pone fine al tradizionale binomio “potere
di ceto/funzione di giustizia”.
b) Il référé législatif
Fatta tabula rasa, l’idea rivoluzionaria della
-funzione puramente dichiarativa del giudice e
-della sua automatica sottoposizione ala legge
prende vita attraverso il référé législatif, meccanismo attraverso cui il potere di interpretazione del
diritto è riservato esclusivamente al legislatore.
L’istituzione di questo istituto, dunque, è strettamente connessa al principio della separazione dei
poteri.
c) Le procedure di conciliazione nel campo della giustizia civile: arbitrato, giudici di pace,
tribunali di famiglia
Con una legge del 1790, si concede ai privati la facoltà di sottoporre qualunque discussione civile
ad arbitrato, vale a dire al giudizio di semplici cittadini non professionisti, che decidono non in
base alle leggi, ma in base a equità.
Con questa apertura all’equità, il culto rivoluzionario della legge sembrerebbe subire una caduta,
ma in realtà il provvedimento è sempre ispirato dall’ideologia antigiurisprudenziale: la cosa
importante è tenere lontana la gente dai garbugli avvocateschi e procedurali, e riavvicinarla alla
giustizia della natura.
I giudici di pace sono anch’essi giudici di equità per le cause minori: essi devono esperire un
preliminare tentativo di conciliazione cui le parti devono obbligatoriamente sottoporsi.
124
La legge contempla anche un tribunale di famiglia, composto da un numero variabile di parenti
e competente a pronunciarsi su ogni controversia nata in seno alla famiglia.
d) Il sistema dell’appello circolare nel campo della giustizia civile
un tribunale in ciascuno dei 553 distretti giudiziari in cui è diviso il paese
5 giudici, 1 procuratore del re e 1 cancelliere in ogni tribunale
costituiscono la giurisdizione di prima istanza designata dai costituenti.
Questi tribunali distrettuali non vengono sovraordinati da nessuna giurisdizione di seconda istanza:
con la volontà di semplificare al massimo l’amministrazione della giustizia, infatti, i rivoluzionari
non sovrappongono l’uno all’altro due livelli di giurisdizione, ma li giustappongono:
sopprimono, così, l’appello ordinario e istituiscono l’appello circolare: contro la pronuncia del
tribunale distrettuale può essere fatto appello ad uno dei sette tribunali distrettuali più vicini.
e) L’istituzione del Tribunale di Cassazione
A dimostrazione che i rivoluzionari sono stati spesso meno originali di quanto si creda, la
Cassazione non è altro che l’erede diretta di quella parte del “Conseil du roi” incaricata di
controllare che la giurisdizione dei parlamenti osservasse le ordinanze regie.
Poiché la rivoluzione vuole
da un lato mantenere il controllo del preminente potere legislativo su quello giudiziario
e dall’altro evitare che la vigilanza continui ad essere esercitata dal re, divenuto mero detentore
dell’esecutivo
allora la Cassazione viene fondata come guardiana suprema della legge, posta a servizio e a difesa
del potere legislativo, che ha il compito di annullare ogni giudizio che contravvenga espressamente
alla legge.
Essendogli precluso il giudizio nel merito della causa, essa cassa la sentenza viziata, rinviando le
parti di fronte ad un tribunale distrettuale.
f) La giurisdizione penale e l’istituzione della giuria
Il sistema della giurisdizione strutturato dall’assemblea costituente, appare in perfetta simmetria con
la tripartizione dei reati e delle pene che, in poco tempo, sarà accolta dal codice penale
rivoluzionario. Esso infatti tripartisce gli illeciti penalmente rilevanti in:
contravvenzioni municipali
delitti cui corrispondono pene correzionali
crimini criminali
Anche l’assetto giudiziario organizzato dalla costituente è a tre gradini:
La competenza relativa alle infrazioni minori viene affidata ad un tribunale di polizia
municipale, collocato in ciascun comune e composto da un numero variabile di funzionari
amministrativi.
La competenza relativa ai diritti punibili con sanzione pecuniaria o con il carcere
fino a due anni spetta ad un tribunale di polizia correzionale, presieduto da un giudice di pace.
A pronunciarsi sui crimini (con sentenza impugnabile in cassazione) è invece un
tribunale criminale.
Il funzionamento di quest’organo è decisamente complesso:
1. Il giudice di pace, in qualità di ufficiale di polizia giudiziaria munito del potere di emettere il
mandato d’arresto nei confronti del pervenuto, avvia l’istruzione preparatoria nel luogo in cui è
stato commesso il crimine.
125
2. Un magistrato del tribunale criminale completa la fase istruttoria, presiedendo una giuria
d’accusa composta da 8 cittadini che sono stati sorteggiati:
costoro, in base alle audizioni dei testimoni, si pronunciano sul rinvio a giudizio dell’imputato.
3. La giuria di giudizio è composta…
dal presidente del tribunale affiancato da tre giudici eletti
dai componenti del pubblico ministero
da 12 giudici sorteggiati
Qualora costoro, valutati gli esiti del dibattimento si siano formati un libero convincimento
(un’intima convinzione) relativamente
-alla sussistenza del fatto
-alla commissione del fatto da parte dell’imputato
-all’esistenza o alla mancanza di una volontà criminosa in lui
allora essi si pronunciano sulla sua colpevolezza, deliberando sulla pena.
++++++++++++++
Anche se animata dall’idea che la fonte di ogni giustizia è il popolo e che occorresse rinnovare in
toto il sistema della repressione penale, l’assemblea costituente non giunse facilmente
all’accoglimento della giuria penale.
Fu Duport a presentare alla Costituente il progetto di legge contenente la disciplina di
funzionamento
-della giuria penale
-e del nuovo processo penale
La discussione di questo progetto si avviluppò fin dall’inizio attorno ad un problema cruciale:
ci si chiedeva, infatti, se esso dovesse essere totalmente orale, oppure se sarebbe stato opportuno
mantenerne una parte scritta, e una parte orale.
Il progetto Duport optava decisamente per la completa oralità, in quanto i giudici, non vincolati da
nessun formale atto scritto, non sarebbero più stati vincolati alle prove legali, bensì avrebbero
potuto pronunciarsi, a fine dibattimento, in base ad una intima convinzione, e cioè in base ad una
persuasione di coscienza.
Il giudice, insomma, poteva valutare in base al suo libero convincimento. “Libero”, in quanto….
-non vincolato ad alcuna regola probatoria precostituita
-il giudice doveva semplicemente accertare se un fatto fosse o meno vero, e non se di esso esistesse
una prova prevista dalla legge.
Tuttavia, in seno alla costituente, molti erano i deputati che accettavano il principio del libero
convincimento ma rifiutavano allo stesso tempo quello della totale oralità, pretendendo che la
valutazione delle prove fosse disciplinata dalla legge.
La questione si risolse con una importante legge approvata dalla costituente, in base alla quale le
deposizioni dovevano essere verbalizzate ma non trasmesse alla giuria d’accusa, che giudicava
dunque in base alla diretta audizione dei testi:
questa legge, dunque, formulava il principio del libero convincimento del giudice, seppellendo
per sempre, in Francia, il principio delle prove legali.
g) Le altre importanti innovazioni nel campo della giustizia:
elettività dei giudici, soppressione dell’ordine degli avvocati, istituzione del difensore
d’ufficio, chiusura delle facoltà di giurisprudenza
126
Come una macchina da guerra concepita per demolire la giustizia d’ancien regime, il principio
della elezione diretta dei giudici da parte del popolo sottrae la magistratura ad ogni controllo
esercitabile dal potere esecutivo:
il sovrano è ormai tenuto ad una automatica approvazione dei nominativi dei magistrati indicati
dagli elettori.
L’universo della giurisprudenza, tuttavia, non è popolato solo dai giudici, ma anche dagli
avvocati, branco di sciacalli che campa sulla litigiosità altrui: anche per costoro la Rivoluzione ha
preparato un colpo distruttivo.
L’ordine degli avvocati, infatti, viene soppresso, e viene istituita la figura del difensore d’ufficio, la
cui funzione è liberamente esercitabile da qualunque cittadino.
La falce antigiurisprudenziale finisce per colpire, infine, anche le radici stesse del sistema, con la
condanna alla chiusura delle facoltà di giurisprudenza.
A questo punto la tabula rasa del pensiero giuridico è stata portata a compimento.
La legislazione rivoluzionaria nel campo del diritto privato dalla costituente alla
convenzione: il “droit intermédiaire”
UNA CHIRURGIA D’URGENZA IN ATTESA DI UN CODICE CIVILE: CONSIDERAZIONI
GENERALI SUL “DROIT INTERMÉDIAIRE”
Per droit intermediaire si intende quella legislazione civilistica rivoluzionaria che separa l’ancien
regime dal code napoleon:
poiché l’assemblea legislativa, subentrata alla costituente, non riesce a tradurre in pratica il voto di
codificazione che era stato emesso,
allora la Rivoluzione si presenta come tesa a tradurre anticipatamente in atto i principi da
racchiudersi in un successivo codice civile, attraverso l’emanazione di leggi di riforma volte a
rinnovare alcuni settori del diritto privato.
La base di questi principi sarà l’uguaglianza civile dei consociati.
Questa produzione legislativa riflette l’andamento a parabola dell’intero fenomeno rivoluzionario:
proclamazioni di principio dell’Assemblea Costituente
riforme dell’Assemblea Legislativa
estremistici interventi della Convenzione Girondina
interventi pressoché totalitari della Convenzione Giacobina.
Eletti a seguito di votazioni a suffragio universale, cui ha partecipato, però, solo il 10% del corpo
elettorale, i deputati della Convenzione pretendono di essere la voce del popolo, quando invece non
sono altro che l’assemblaggio
-dei club della rivoluzione democratica
-rafforzati dagli estremistici membri della terroristica “comune” di Parigi.
La convenzione è mossa da due correnti di punta: quella dei Girondini e quella dei Giacobini, non
separate da ideologie veramente profonde, ma piuttosto contrapposte da una implacabile lotta per il
potere.
Il mezzo a queste due ali siede il maggioritario, ma disorganizzato e passivo, gruppo della Palude.
Dopo una impressionante epurazione, fatta a mezzo della ghigliottina, la convenzione si
verticizza in capo alla vincente fazione dei giacobini: istituzionalizzato il Terrore, i “Montagnardi”
governano la Francia a regime di partito unico: la dittatura personale di Robespierre è sostenuta
nelle varie regioni del paese dai sans-culottes, gruppi di attivazione quotidiana del Terrore.
Chi cerca di minare il potere di Robespierre viene via via eliminato. Questo governo instaurato ed
imposto da Robespierre alla Francia cade quando, sfibrato dalle continue autoamputazioni, gli viene
mossa una congiura.
127
Dopo questo momento culminante della Rivoluzione, che prende il nome di Termidoro, la
successiva convenzione termidoriana, caratterizzata da misure antigiacobine ed antiterroristiche,
sopravvive per poco tempo, lasciando poi spazio al regime del primo, secondo e terzo direttorio.
LA LIBERTA’, COME INDIPENDENZA DA OGNI POTERE PERSONALE, NEL DROIT
INTERMÉDIAIRE
Nella notte del 4 agosto 1789, l’Assemblea nazionale vota la soppressione dei diritti feudali.
Se essa, tuttavia, nei giorni successivi, rimeditando a freddo su ciò che ha fatto, correggerà il tiro
su tanti punti,
per ciò che riguarda, invece, i privilegi, comportanti
-un limite all’uguaglianza civile
-e una restrizione alla libertà delle persone soggette ad un signore in ragione della terra da loro
posseduta,
la promessa del 4 agosto opera irreversibilmente:
scompaiono così dalla Francia le varie sopravvivenze del servaggio della gleba, uno status di
soggezione servile, che vincolava la persona alla terra.
Tuttavia se la Costituente, in nome dei diritti dell’uomo, abolisce il servaggio in Francia, essa non
fa nulla per cambiare le cose nell’ambito della schiavitù:
rimane così pienamente e legittimamente praticata la tratta dei neri d’Africa nelle colonie francesi
d’America.
LA LIBERTA’ DI CULTO NEL DROIT INTERMÉDIAIRE: DALLA LIBERTA’ DI RELIGIONE
ALLA RELIGIONE RIVOLUZIONARIA
a) L’emancipazione dei protestanti e degli ebrei
Un regio editto di tolleranza, nel 1787, aveva elargito lo stato civile ad un milione di protestanti
viventi in Francia, editto, questo, con il quale si decretava la fine delle tradizionali incapacità da cui
essi erano paralizzati.
Poiché tuttavia questo editto non fu registrato da tutti i parlamenti, esso rimase inapplicato.
Per quanto riguarda gli ebrei, invece, nel 1789 essi si muovono ancora in una gabbia di gravami
e di incapacità.
I tempi dell’emancipazione…
-cominciano nel 1789 quando l’assemblea costituente ammette i cristiani non cattolici all’esercizio
delle pubbliche funzioni
-continuano con il decreto di restituzione ai protestanti dei loro beni confiscati un secolo prima
-si concludono con la concessione del diritto di cittadinanza agli ebrei.
Da questo momento in poi, le differenze di professione religiosa perdono ogni rilievo ai fini del
godimento dei diritto civili, in quanto l’assemblea abolisce tutte le istituzioni che ledono
l’uguaglianza dei diritti.
Ai suoi esordi, dunque, la Rivoluzione sembra realizzare un perfetto accordo della religione e della
libertà. Tuttavia questa armonia si rivela ben presto illusoria, in quanto lo spirito rivoluzionario, in
realtà, sta soffiando proprio nella direzione opposta a quella della libertà religiosa: esso trascina tutti
verso una campagna di cristianizzazione che culminerà con l’instaurazione di una religione di stato.
b) La costituzione civile del clero
I primi passi verso una religione rivoluzionaria sostitutiva di ogni altro culto, sono compiuti
dall’assemblea costituente, che non immagina neanche di star togliendo le basi alla libertà religiosa.
Essa, infatti,
128
sopprime le decime ecclesiastiche (cioè le imposte in natura percepite dal curato di ogni
parrocchia, equivalenti, in via di principio, alla decima parte del raccolto), senza prevedere alcuna
indennità.
decreta la confisca dei beni immobiliari della chiesa, trasformandoli in beni nazionali
decreta il divieto dei voti monastici
sopprime gli ordini religiosi
approva la costituzione civile del clero, vale a dire
-la diminuzione del numero delle parrocchie
-l’elezione dei vescovi e dei parroci da parte dei cittadini
-la riduzione di ogni religioso allo status di pubblico funzionario
-l’obbligo per tutto il clero di prestare pubblico giuramento di fedeltà alla nazione:
è soprattutto quest’ultimo punto che provoca una drammatica spaccatura nel clero francese.
Così il popolo francese, rimasto legato alla religiosità tradizionale, si trova di fronte due cleri
contrapposti:
uno costituzionale, che è politicizzato e ha prestato giuramento
l’altro refrattario, destinato alla ghigliottina.
c) La laicizzazione dello stato civile
Nella sua ultima seduta, l’assemblea legislativa
-vara la disciplina del divorzio
-e laicizza lo stato civile
La chiesa, infatti, era stata per secoli
sia la sola autorità competente a stabilire requisiti ed impedimenti del matrimonio
sia il punto di riferimento per la determinazione dello stato civile delle persone.
Una volta dichiarato il matrimonio puro e semplice contratto disciplinato dalle leggi dello stato, gli
atti di stato civile vengono secolarizzati:
così, la tenuta di tutti i pubblici registri viene affidata alle autorità municipali.
d) La “scristianizzazione”
Con tutte le misure fino ad ora adottate dall’assemblea legislativa, non siamo tuttavia ancora giunti
alla scristianizzazione vera e propria.
Tuttavia la strada per dissolvere la chiesa nella nazione, facendo dello stato una nuova chiesa, è
spianata:
l’effettiva scristianizzazione inizia quando si passa dal piano dei provvedimenti legislativi, a quello
della violenza volta a farli attuare ad ogni costo: poiché, infatti, i provvedimenti laicizzatori sono
stati accolti con sfavore, ecco che la campagna di scristianizzazione si scatena un po’ in tutta la
Francia, inscenando feste anticlericali, abbattendo campanili, saccheggiando e chiudendo chiese,
sottoponendo i preti a cerimonie di abiura.
e) Il calendario rivoluzionario
Nel 1793, la Convenzione adotta il nuovo calendario repubblicano:
l’idea di rivoluzionare anche il tempo è un ulteriore passo del progetto di scristianizzazione e di
rigenerazione:
ci si rende conto, infatti, che il calendario cristiano possiede una incredibile forza educativa,
basata sull’intangibilità della tradizione.
poiché invece ora l’uomo è un cittadino, e lo stato si impadronisce del suo nuovo tempo, che è
quello dell’era della libertà, il nuovo calendario fa piazza pulita dei santi e della domenica.
• L’anno, che inizia a Settembre (anniversario della proclamazione della repubblica), si
compone di dodici mesi, denominati con nomi poetici.
f) Il culto della Dea Ragione e quello dell’Ente Supremo
129
Il delirio delle celebrazioni sovvertitrici tocca il suo apice quando, tre giorni dopo lo spretamento
del vescovo di Parigi, viene celebrata la prima festa civica in onore della libertà, vista come il
trionfo della ragione su diciotto secoli di pregiudizi.
Quando ormai la rivoluzione ha pressoché portato a termine la devastazione religiosa, è
Robespierre in persona ad arrestare la scristianizzazione: è stato infatti sottovalutato il viscerale
attaccamento della popolazione alla religione. Così, su richiesta di Robespierre, si decreta il culto
dell’Ente Supremo, dichiarando che il popolo francese riconosce l’immortalità dell’anima.
Dopo l’esecuzione di Robespierre, la Convenzione si vedrà costretta ad accordare la libertà di culto,
e molte chiese riapriranno i battenti.
LA LIBERTA’ DI LAVORO NEL DROIT INTERMÉDIAIRE E LA LEGGE LE CHAPELIER
L’idea di libertà, concepita come diritto alla indipendenza dell’individuo nello svolgimento del
proprio lavoro, ispira all’assemblea costituente due misure legislative che costituiscono due colpi di
scure al mondo dell’ancien regime:
le tradizionali corporazioni d’arte e mestiere, infatti, gestivano da sempre in regime di monopolio i
vari settori.
Proprio in quanto tali, e cioè in quanto strutture detentrici di potere, le corporazioni erano state
messe sotto accusa perché viste come ostacoli che si frapponevano allo sviluppo economico.
La costituente liquida definitivamente le corporazioni con due decreti.
Con il fine di liberare il singolo da ogni dipendenza nei confronti di questi enti che si frappongono
tra lui e la collettività nazionale, l’assemblea…
vota la legge che proibisce ogni associazione tra cittadini esercitanti la stessa professione.
pone il divieto di sciopero e di qualsiasi forma di sindacalismo.
LIBERTA’ E MATRIMONIO
Il matrimonio viene definitivamente laicizzato: la legge, cioè, inizia a considerarlo esclusivamente
un contratto civile: la rottura del tradizionale legame tra contratto e sacramento, in una Francia
ancora molto legata a quest’ultimo, fu un atto rivoluzionario.
La concezione esclusivamente contrattuale del matrimonio, comporta per la stessa logica
l’approvazione del divorzio.
Contemporaneamente all’accoglimento del divorzio, poi, viene votata anche la soppressione
dell’istituto della separazione, in quanto istituto, questo, contrario alla libertà individuale, perché,
durante la separazione, rimaneva fermo l’obbligo di fedeltà.
Il divorzio è previsto in tre casi:
1- per mutuo consenso
2- per incompatibilità di umore e di carattere addotta da uno dei due sposi
3- per una delle sette cause legate ad uno dei due coniugi, e cioè:
• demenza
• delitto
• sevizie o ingiuria grave
• sregolatezza di costumi
• emigrazione
• condanna a pena infamante
• assenza per più di cinque anni, congiunta a mancanza di notizie
LIBERTA’ ED UGUAGLIANZA NEL CAMPO DEL DIRITTO FAMILIARE E SUCCESSORIO
Durante la Rivoluzione francese, alcune riforme distruggono dalle fondamenta la monolitica
famiglia patriarcale d’ancien regime: la famiglia su cui si abbatte la rivoluzione, infatti, è una
famiglia
-strutturata intorno alla figura dominante del padre,
-fondata su un matrimonio autorizzato dalle due parentele
130
-in cui gli sposi hanno predeterminato, con delle clausole ad hoc, la gestione economica del loro
menage e la destinazione dei loro averi
-unificata intorno ad un patrimonio invulnerabile, custodito di generazione in generazione, di cui il
padre può disporre per testamento.
Il testamento viene generalmente utilizzato
o per concentrare i beni familiari nelle mani di un discendente (generalmente il primo genito)
ravvisato come continuatore della casa
o come sostituzione fidecommissaria, che vincola l’erede istituito a trasmettere a sua volta i beni
ad un terzo beneficiario, determinato o determinabile.
La Rivoluzione sgretola completamente la tradizionale corazza giuridica che protegge il potere della
famiglia:
durante la costituente vengono pronunciate delle requisitorie contro la patria potestà e la
libertà di testare: il testamento, infatti, è visto come fonte di ineguaglianza delle quote successorie,
ineguaglianza che è un insulto ai diritti dell’uomo.
E’ così che…
si fissa la maggiore età al compimento di 21 anni, età in cui cessa la patria potestà
vengono proibite le sostituzione fidecommissarie
si proclama che la facoltà di disporre dei propri beni è abolita, con la conseguenza che tutti i
discendenti avranno uguale diritto alla successione nei beni degli ascendenti
cade il potere di disederazione
i figli naturali vengono ammessi alla successione con parità di diritti
la successione viene regolata secondo il criterio della più rigorosa uguaglianza tra i figli, in
base a meccanismi volti a produrre il maggior spezzettamento possibile dei patrimoni.
EGUAGLIANZA DEI SESSI E LIBERTA’ DELLA DONNA NEL DROIT INTERMÉDIAIRE
La condizione giuridica della donna coniugata d’ancien regime è una condizione di inferiorità e di
sottomissione al marito, che è accettata dalla maggior parte della popolazione femminile come
naturale.
L’amministrazione dei beni familiari è affidata esclusivamente al marito, che ne è padrone e
signore assoluto.
A giustificazione del primato maschile nel governo della famiglia, sta la figura del pater familias,
unico proprietario e gestore dei beni necessari a fronteggiare i bisogni del nucleo domestico: la
donna, infatti, è vista come una creatura debole, sia dal punto di vista fisico che da quello
psicologico.
La donna coniugata, dunque, è considerata incapace di agire, tanto che essa è sottoposta alla
potestà maritale.
Il marito, munito di poteri direttivi che gli assicurano l’obbedienza, ha un irrinunciabile dovere di
protezione nei confronti della moglie, tanto che deve espressamente autorizzarla a compiere
qualunque atto negoziale eccedente le piccole spese della quotidianità domestica: la mancanza
dell’autorizzazione maritale produce la nullità di ogni atto inter vivos posto in essere dalla donna
sposata: senza l’espresso consenso del coniuge, ella non può fare niente.
Alla fine dell’ancien regime, cioè alla vigilia della Rivoluzione, le condizioni della donna sono
queste.
In verità la rivoluzione muta la condizione della donna solo su due fronti:
quello del divorzio
e quello della parità successoria
L’incapacità di agire della donna e la potestà maritale attraversano indenni il droit intermediaire.
C’è, infatti, una vera e propria contraddizione di fondo:
131
-si concede alla donna di disporre pienamente di se stessa, offrendole il mezzo legale per svincolarsi
dalla supremazia del marito (il divorzio)
-ma la potestà maritale e tutti i suoi corollari restano intatti.
Anche i rivoluzionari, infatti, continuano ad essere dell’idea che l’incapacità di agire della donna si
fondi su una insuperabile legge di natura, che ne
ha costituito l’intrinseca debolezza del fisico e del carattere.
La rivoluzione provocò un grande cambiamento di opinione nelle donne:
le grandi promesse che essa aveva fatto, infatti, accesero nel sesso debole aspirazioni alla libertà e
all’uguaglianza, aspirazioni che portarono le donne a contestare l’idea di una loro naturale estraneità
alla vita pubblica e agli affari.
Tutto questo spiega la massiccia partecipazione femminile ad alcuni dei più drammatici eventi
rivoluzionari.
IL DIRITTO DI PROPRIETA’ NELLA LEGISLAZIONE RIVOLUZIONARIA
In meno di cinque anni dalla sua nascita, la Rivoluzione compie due modificazioni della proprietà
che hanno come effetto la fine della società d’antico regime e la nascita della borghesia.
Queste due grandi innovazioni sono:
a) l’unificazione strutturale del diritto di proprietà
b) la ridistribuzione della proprietà a nuovi e moltiplicati proprietari.
Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.
La dichiarazione dei diritti dell’uomo, definisce la proprietà come un diritto sacro ed inviolabile.
Ma la proprietà sacra visualizzata dal pensiero rivoluzionario non è la stessa della tradizione
d’ancien regime, bensì la proprietà che viene a prender forma dopo che l’assemblea nazionale
distrugge interamente il regime feudale:
Per molta parte della popolazione contadina, gli oneri derivanti dal regime feudale sono ai limiti
della sopportabilità. Nelle loro agitazioni, le folle contadine inferocite reclamano la soppressione
dei diritti feudali:
l’abolizione dei privilegi feudali, che viene approvata dalla Costituente dopo un concitato
dibattito, è stata in realtà una soluzione politica d’emergenza, improvvisata nel corso della seduta
notturna;
il mattino successivo, constatati i danni autoprodotti, un “comitato feudale” si mette al lavoro per
ridurre il più possibile le perdite patrimoniali avute con la proclamazione notturna.
Nella notte del 4 Agosto della settimana successiva, vengono emanati una serie di decreti che
precisano la portata effettiva della promessa di abolizione dei diritti feudali.
Cadono così:
-i privilegi onorifici esteriori (diritto all’omaggio, diritto al banco in chiesa…)
-il servaggio della gleba
-le corvées, le varie figure di servitù personale…
-le decime ecclesiastiche.
Resta lo zoccolo duro del diritto reale vantato dal signore come titolare del dominio diretto (*) sul
fondo:
(*) Su uno stesso fondo gravavano due distinti diritti di proprietà esercitati contemporaneamente:
il dominio utile: in base a cui i contadini avevano diritto a coltivare materialmente il fondo
il dominio diretto, in base a cui il signore feudale aveva diritto ad una rendita sul fondo, rendita
assicurata dai versamenti in denaro o in natura fatti dal contadino.
132
Quanto a questo tipo di diritto, la costituente ne dispone non l’abolizione, ma bensì il riscatto: il
riscatto sarà il mondo per permettere al contadino di congiungere al suo dominio utile anche quello
diretto, divenendo così proprietario unico del bene: esso non è altro che il versamento del presso
della proprietà diretta, quantificabile in una somma pari a 20/25 volte il canone annuo.
Arriva un momento in cui, nelle campagne, i contadini si oppongono alle richieste signorili,
sostenendo che ogni proprietà fondiaria sia da ritenersi libera, a meno che il signore non esibisca
l’originale atto d’infeudazione del fondo.
Poiché, tuttavia, per la stragrande maggioranza dei feudatari, ritrovare l’atto originale che legittima
il fondo (atto spesso vecchio di secoli), risultò impossibile, questa probatio diabolica imposta ai fini
del riscatto rappresentò l’inizio della rovina del regime signorile.
La Convenzione dichiarò:
che tutti i diritti dei signori a loro derivanti dalla stipulazione di un contratto feudale e già
dichiarati riscattabili sono da ritenersi aboliti senza indennità.
che in ciascun comune i titoli documentanti le proprietà signorili sarebbero dovuti essere bruciati
pubblicamente tutti insieme entro tre mesi.
Caduto dunque ogni legame tra contadini e feudatari, non restano che individui proprietari, titolari
di una proprietà non più duplicemente definibile.
*******************
Per quanto riguarda, invece, il discorso della abolizione senza indennità della decima ecclesiastica,
questo provvedimento ne anticipò uno ancora più radicale: la confisca e trasformazione dei beni
ecclesiastici in beni nazionali.
Confiscate le proprietà della chiesa,
venne organizzata una vendita dei “beni nazionali”: questa vendita fu organizzata favorendo la
divisione delle grandi proprietà in piccoli lotti, aggiudicabili all’asta ad un prezzo di favore.
venne imposta la divisione delle terre comuni destinate allo sfruttamento collettivo:
tuttavia, di fronte alla resistenza dei contadini, la divisione dei beni comunali divenne facoltativa, e
si dispose che, in quei villaggi in cui essa si sarebbe realizzata, la terra dovesse essere
indistintamente ripartita tra tutte le persone lì domiciliate.
i beni degli emigrati vennero confiscati, dichiarati beni nazionali, e poi venduti: questa messa
all’asta di terre da parte dello stato si svolse con le stesse procedure tenute per l’alienazione dei beni
del clero.
Con la vendita dei beni nazionali, il governo rivoluzionario favorì
-una crescita numerica delle piccole proprietà
-e l’accesso a diritto di proprietà per quelle famiglie che riuscirono ad accaparrarsi il loro lotto di
terra.
Tuttavia,
-se i piccoli contadini avevano sete di terra,
-lo stato aveva sete di denaro, occorrente a colmare il grande deficit pubblico: fu così che, nelle
aggiudicazioni, si preferirono coloro che pagavano subito e in contanti. Fu così che la vendita delle
terre finì solo per rendere più ricchi coloro che già lo erano, con un potenziamento delle
ineguaglianze economiche, in un contesto che voleva essere di uguaglianza giuridica.
La forza economica della nobiltà, ripresasi dall’abolizione dei diritti feudali con l’acquisto dei
beni nazionali, si mantenne,
e la borghesia, insieme alla nobiltà, andarono a costituire il nuovo notabilato (=insieme dei
personaggi più autorevoli di una comunità), contrassegnato non più da privilegi, ma dal denaro
investito nei fondi.
133
I nuovi ricchi, dunque, si aggiungono ai vecchi nel possesso della terra come primaria fonte di
ricchezza. Così…
-con l’aristocratizzazione di una nuova borghesia, provvista di ricchezza terriera
-e la borghesizzazione di una nobiltà riprovvedutasi di terre,
si passa dal regime del privilegio, a quello del denaro.
E’ questo rimescolamento sociale il principale risultato della rivoluzione.
Ma la sovranità del popolo resta un fantasma.
I tentativi rivoluzionari di codificazione civile sino a termidoro
LA RIVOLUZIONE DI FRONTE ALL’IMPRESA DELLA CODIFICAZIONE CIVILE:
IL PRIMO “PROGETTO CAMBACÉRÈS” (1793)
Quando si parla della legislazione rivoluzionaria nel campo del diritto privato, ossia del c.d. droit
intermediaire, si sottolinea sempre che le riforme prodotte in quel periodo sono state concepite
come anticipatrici di una codificazione di tutto il diritto civile già annunciata nel 1790.
E’ solo nel 1793 che, in seno al comitato di legislazione della convenzione, presieduto dal giurista
Cambacérès, iniziano concretamente i lavori per la redazione di un progetto di codice civile.
Poiché Cambacérès risulta essere il motore dell’intera impresa, a buon titolo si può intitolare a suo
nome il primo progetto rivoluzionario del codice civile.
In due mesi di lavoro, esso è pronto per essere sottoposto alla convenzione:
si tratta di 719 articoli ripartiti in tre libri.
Lo schema è il classico: persone e famiglia; beni; contratti.
Così, quando il dibattito sul testo sembra condurre verso una celere approvazione del progetto, la
situazione si capovolge:
esso viene giudicato come troppo tecnico e complesso, in un certo senso come “troppo giuridico”, e
si richiede che venga semplificato e depurato.
Con tutta probabilità, invece, dietro a questo cambio di direzione, c’era un ben preciso motivo
politico:
mentre infatti adottare un codice civile avrebbe significato porre termine alla rivoluzione
aggiornarlo avrebbe significato, al contrario, dichiarare che né la guerra, né la rivoluzione, erano
terminate.
IL SECONDO PROGETTO CAMBACÉRÈS (9 SETTEMBRE 1794)
A dispetto della delibera della Convenzione, che aveva stabilito che il progetto del codice avrebbe
dovuto essere semplificato da 6 filosofi non giuristi, esso torna a Cambacérès:
è lui che, anche questa volta, si occupa del (secondo) progetto di stesura del codice civile,
presentando, il 9 Settembre 1794, alla Convenzione Termidoriana, il codice non giuridico reclamato
dalla convenzione giacobina.
Cambacérès ha fatto esattamente ciò che gli era stato chiesto mesi prima:
un codice brevissimo, composto dei soliti tre libri dedicati alle persone, alle cose e alle obbligazioni.
Abbandonato il più possibile ogni tecnicismo terminologico, le norme appaiono come coincise e
perentorie, scritte in uno stile spartano.
(es. i beni sono mobili o immobili)
In tutto ciò, certamente, c’è una controindicazione:
una società civile che ha più massime che norme, e di conseguenza più lacune che disposizioni, non
può certo reggersi in piedi!! Ma di ciò Cambacérès è ben consapevole, tanto che lui per primo
dichiara che l’opera avrà bisogno di una integrazione, che sviluppi i postulati.
Quando Cambacérès presenta il suo progetto,
il gruppo di Robespierre è caduto da più di due mesi
134
e la nuova convenzione termidoriana ha già iniziato lo smantellamento de sistema del terrore
giudiziario.
Egli, dunque, si trovò a far approvare il progetto nel momento meno felice che si potesse
immaginare, in quanto lo aveva fedelmente elaborato nei termini sommari voluti nel clima del
governo rivoluzionario, ma lo stava presentando ad una convenzione impegnata nella liquidazione
del giacobismo.
La discussione della convenzione respinse in breve il testo: esso, infatti, appariva
-troppo corto,
-terribilmente incompleto,
-e impregnato del radicalismo giacobino
per poter funzionare.
Fu così che cadde anche il secondo progetto del codice civile.
135
SEZIONE II: LA CODIFICAZIONE NAPOLEONICA
Da termidoro a brumaio: verso il code Napoléon
PREMESSA: IL MITO DELLE ORIGINI DEL CODICE CIVILE FRANCESE
E’ il 1804. Ci si interroga sul se il codice civile sia il frutto dell’idea di un solo uomo, Napoleone, o
se esso sia il frutto di un lavoro collettivo a lui precedente.
Esso, in realtà, è il frutto finale di un’opera collettiva realizzata nell’arco di un decennio, in cui i
progetti post-termidoriani, che anticipano il contenuto del testo del 1804, rappresentano gli anelli di
congiunzione di una catena che portano ad esso.
Dunque il codice del 1804 non può essere concepito, unicamente e riduttivamente, come istantanea
manifestazione della volontà di uno solo:
Con i suoi riflessi termidoriani, esso non è che il risultato del lavorio tecnico, della cultura e delle
preoccupazioni politiche di molti eroi.
LA RESTAURAZIONE POST-TERMIDORIANA
E’ il 10 di Termidoro, anno II.
La dittatura di Robespierre è caduta.
E i termidoriani vogliono terminare la rivoluzione, eliminando l’eredità del regime giacobino:
la loro azione, tuttavia, non si limita a demolire la legislazione prodotta nei giorni del terrore,
MA, per tornare ad un regime di ordine e sicurezza, procedono alla ricostruzione della stessa
società.
La riedificazione dei nuovi assetti sociali coinvolge, innanzi tutto, la ridefinizione della famiglia,
sconnessa dalla rivoluzione.
Si prova dunque, ora, diffidenza verso il divorzio, che si ottiene troppo facilmente
Appare quanto mai urgente tracciare un solco tra i gigli naturali e quelli legittimi: non poche
persone, infatti, convengono che la favorevole condizione successoria dei figli naturali vada
drasticamente ridotta
Occorre che al vertice dei governo della famiglia venga riallocato il padre, e che gli venga
restituito il testamento, arma con cui farsi rispettare ed obbedire dai figli.
La moglie deve essere posta in uno stato di incapacità di agire: essa non deve poter compiere
alcun atto di straordinaria amministrazione senza l’autorizzazione del marito.
IL TERZO PROGETTO CAMBACÉRÈS: EPILOGO DELLA RÉVOLUTION O PROLOGO DELLA
RÉACTION?
E’ dunque nel clima della convenzione termidoriana che Cambacérès e i suoi colleghi elaborano il
terzo progetto del codice civile, presentato nel 1796:
un testo certamente più accurato e meno compendioso rispetto al primo e al secondo tentavo di
codificazione.
Cercando di mitigare gli eccessi della legislazione giacobina, Cambacérès compie un’opera di
mitigazione, in quanto
da una parte si conservano alcuni istituti introdotti dal legislatore rivoluzionario, come ad
esempio il divorzio
dall’altra vengono inseriti principi che danno al progetto un taglio ambiguamente conservatore.
Ci troviamo, dunque, di fronte ad un progetto palesemente contraddittorio:
-da un lato, infatti, esso appare come un testo pioniere della reazione,
-dall’altro si presenta come l’ultima fiammata della rivoluzione.
Forse una chiave di interpretazione di questa contraddittorietà va ricercata nella composizione della
commissione, che riunisce al suo interno nostalgici della rivoluzione e sostenitori del nuovo ordine.
Dunque anche il terzo progetto mostra di essere superato, ancora prima di essere sottoposto a
discussione.
136
Il comitato è inondato da petizioni di privati cittadini che richiedono di emendare la legislazione
terrorista, introducendo modifiche radicali molto più incisive di quelle inserite da Cambacérès.
Gli articoli definitivamente approvati, alla fine, sono solo due.
Resosi conto di trovarsi su un binario morto, Cambacérès getta la spugna.
1797. LA REAZIONE PROSEGUE: NUOVE SVOLTE NEL DIRITTO CIVILE E NEL DIRITTO
PENALE
a) Nel diritto civile. Un brusco arresto del processo di codificazione?
Il disegno conservatore di: ostilità verso il divorzio, sfavore nei confronti dei figli naturali, favore
per il testamento e volontà di affidare al solo marito la gestione del patrimonio familiare, assume un
maggior vigore nel 1797, quando la classe politica inizia ad essere ossessionata da questi problemi.
In questo lasso di tempo, l’idea di realizzare il codice civile viene lasciata da parte, in quanto i
deputati sono concentrati ad emendare la legislazione prodotta tra il 1793 e il 1794.
In seguito al colpo di stato di Fruttidoro, il processo di codificazione, sia pure a fatica, riprenderà la
sua corsa.
b) Nel diritto penale
Nell’ambito del diritto penale, invece, l’esigenza di riformare il codice penale del 1791 è avvertita
con urgenza:
solo un giustizia esemplare, infatti, è in grado di porre un freno alle passioni socialmente nocive!
Il codice in vigore, infatti, è giudicato lacunoso e troppo mite.
In un certo senso si ritorna, dunque, all’ancien regime, ripristinando la pena di morte per i rapinatori
e per i loro complici.
Anche il diritto processuale viene criticato dai deputati, soprattutto per quanto riguarda l’istituto
della giuria: secondo loro, infatti, i giurati si lasciano intimidire dagli imputati, non presentandosi al
processo o giudicando l’accusato assolto per non aver commesso il fatto: di qui, la proposta di
punire i giurati non ottemperanti al proprio ufficio.
DALL’ILLUSIONE AL DISINCANTO. IL PESSIMISMO ANTROPOLOGICO DEI
SOPRAVVISSUTI ALLA DIKE RIVOLUZIONARIA
Sicuramente l’involuzione in senso autoritario fu determinata dall’esperienza del Terrore, maturata
dalla maggior parte dei giuristi durante il regime giacobino. Alcuni protagonisti moderati dell’89,
infatti, proprio per aver vissuto le rinnegazioni dei diritti dell’uomo che si erano consumate,
apparivano ora segnati nell’animo dalla tragedia da cui erano usciti.
L’89, che era stato considerato come un promettente punto di lancio verso la felicità, era stato,
invece, soltanto una illusione, tanto che le concezioni filosofiche sostenute un tempo con
entusiasmo, venivano considerate, ormai, come chimere.
Dopo il Terrore, inoltre, cambiò anche il giudizio sulla natura umana:
i giuristi, ora, non esaltarono più “il buon selvaggio”: l’aver cercato di rieducare l’uomo, attraverso
la legge, a riacquistare la propria natura, infatti, era stata una follia.
La via da percorrere, ora, era considerata quella inversa, in quanto l’uomo adesso veniva visto come
naturalmente malvagio.
Il terrore, insomma, aveva fatto giustizia di quell’ottimismo antropologico che aveva caratterizzato
la prima fase della rivoluzione.
LA NATURA DELL’UOMO E IL COMPITO DEL LEGISLATORE: IL RUOLO DEGLI
IDÉOLOGUE E DI BENTHAM
a) Cabanis e gli Idéologues
Il giudizio negativo sulla natura umana
137
e la critica di uno stato primordiale dell’uomo, caratterizzato dalla sua bontà
erano propri della cultura del tempo, anche della cultura non giuridica.
In questo periodo, infatti, gli Ideologues, maestri di pensiero del momento, conducevano una
violenta campagna contro il Rousseau del buon selvaggio, che aveva parlato del contratto di una
società immaginaria.
Era invece Machiavelli colui che, essendo vissuto nel bel mezzo di una guerra civile, ed avendo
visto gli uomini come ignoranti e fanatici, aveva capito dove fosse la verità: le persone chiamate a
governare, infatti, non erano i buoni selvaggi di Rousseau, bensì i non buon selvaggi!
La figura più illustre tra gli Ideologues, fu quella di CABANIS, personificazione intellettuale della
cultura post-termidoriana.
Le sue riflessioni sulla natura materialistica dell’uomo, incontrarono il pieno favore della cultura
post-rivoluzionaria.
Lo studio sulla natura dell’uomo andava fondato sull’analisi e sull’evidenza, unici parametri che
potevano portare ad un risultato ripetibile.
L’uomo di Cabanis agisce in quanto mosso sia da sollecitazioni del mondo esterno, sia da
sensazioni interne. Né statua, né macchina: per Cabanis ogni fenomeno umano deve essere
ricondotto alla fisiologia, alla corporeità.
Se, tuttavia, il comportamento dell’uomo appare assolutamente prevedibile, ci si chiede quale
possa essere il ruolo dell’educatore e, soprattutto, quello del legislatore.
Cabanis osserva che la condotta dell’uomo può variare in base al clima, al sesso e all’abitudine, e
che dunque l’essere umano, è generalmente portato a reiterare alcuni comportamenti. La ripetizione
costante di questi comportamenti, produce, secondo lui, una trasformazione a livello fisico:
dunque il maestro e il legislatore, attraverso le pratiche pedagogiche, e la tecnica legislativa,
possono educare e governare l’uomo condizionandone le abitudini.
Queste abitudini, a loro volta, agiscono sugli organi interni dell’individuo, determinando
una loro modificazione morfologica.
Gli organi interni, infine, producono modificazioni psichiche, cioè modificazioni di
pensiero o sentimento.
Si ha, dunque, una vera e propria reazione a catena:
legislatore/educatoreabitudinimodificazioni di organi internicomportamento stabilito dal
legislatore/educatore
Stando a tutto ciò, appare evidente come il ruolo dell’educatore e del legislatore siano da
considerarsi fondamentali: costoro, infatti, possono programmare, secondo schemi prestabiliti, la
condotta degli individui.
b) La divulgazione del pensiero di Jeremy Bentham
Accanto alle idee degli Ideologues, iniziano ad essere divulgate in Francia anche quelle del filosofo
inglese Jeremy Bentham: il mondo della cultura francese post-termidoriana mostra un certo
interesse nei suoi confronti. Tutto ciò non deve stupire perché le affinità tra le idee del filosofo
inglese e quelle degli Ideologues sono notevoli:
anche lui invita, in primo luogo, a studiare lo stato fisico dell’uomo, o meglio la sensibilità
dell’uomo considerato come un essere passivo, soggiogato dal mondo intorno, che gli suscita
piacere e dolore.
anche lui, inoltre, suggerisce al legislatore di pianificare e guidare la condotta dei cittadini
sfruttandone gli automatismi psichici.
L’esempio che egli apporta è quello del testamento:
138
poiché l’uomo, dice Bentham, è egoisticamente dominato dall’interesse, il padre può servirsi del
testamento per ottenere il rispetto e la gratitudine dei figli attraverso il binomio pena-ricompensa.
Poco importa che i sentimenti dei figli siano sinceri, o siano il frutto di un calcolo utilitaristico: ciò
che conta è che il testamento diriga le inclinazioni degli uomini, facendo acquisire loro nuove buone
abitudini.
Al di là dell’individuare una supremazia di Bentam o degli Ideologues, ciò che occorre invece
sottolineare è il fatto che l’uomo appare come un essere
-totalmente mosso dalla ricerca del piacere
-e soggetto ad una condotta prevedibile.
In questa prospettiva, il legislatore è chiamato ad orientare la condotta dell’uomo, tenendo conto
che il motore principale del suo agire è l’interesse.
I PROGETTI DI CODICE CIVILE ELABORATI ALLE SOGLIE DEL COLPO DI STATO DI
BONAPARTE
a) La commissione del 1798
Nel 1798 viene istituita l’ennesima commissione, presieduta da Jacqueminot, per giungere alla
codificazione civile.
Anche se i membri del consiglio del cinquecento vengono rassicurati, attraverso l’illustrazione
del programma di lavoro,
per motivi tattici si decide di giungere al codice civile gradualmente, approvando una legge alla
volta.
Prima di parlare del lavoro di questa equipe, tuttavia, appare opportuno considerare i tentativi di
codificazione elaborati, a titolo personale, da alcuni tecnici del diritto.
b) Il progetto di Guy Jean-Baptiste Target (1798-1799)
Il primo autore di uno di queste compilazioni elaborate a titolo personale è Target, uno tra i più
celebri e colti avvocati di Francia, aperto alla cultura dei lumi, e animato da una autentica passione
riformista.
quanto alla disciplina della famiglia, il clima post-termidoriano esercita su di lui influenze
profonde: siamo nell’ambito di un diritto di famiglia completamente all’insegna della reazione.
con riferimento alla proprietà, questa viene dichiarata sì sacra ed inviolabile, ma con la riserva
che il suo esercizio sia sorvegliato-
Ultimo indizio dello spirito conservatore del progetto, è rappresentato dal fatto che Target vi
reintroduce l’incarceramento per debiti.
Egli asserisce che il legislatore deve servirsi delle pulsioni degli individui per orientarne la
condotta sociale: poiché gli esseri umani, infatti, sono sensibili agli interessi, il legislatore deve
entrare nel cuore degli uomini, rendendoli utili alla società.
c) Il progetto di codice sulle successioni di Jean Guillemot (1799)
Alla figura di Target, si può affiancare quella di Guillemot:
costui presenta al consiglio degli anziani un personale progetto di codice sulle successioni, che
propone vigorose misure restauratrici. In particolare egli invoca la reintroduzione della patria
potestà e del testamento, esibendo una concezione disincantata della natura umana:
pure ai suoi occhi, infatti, l’uomo è dominato dall’egoismo, dalla ricerca del piacere, dalle passioni
e dall’interesse personale.
Al legislatore, dunque, spetta il compito di sfruttare la cupidigia dell’uomo, in favore degli interessi
pubblici.
139
Guillemot è persuaso che il legislatore possa gestire i sentimenti dell’uomo attraverso l’aumento
della quota disponibile in quanto i figli, in previsione di una maggior quota, porteranno rispetto ai
padri, e dunque miglioreranno anche se stessi.
E, nell’ipotesi in cui il testamento non funzioni, Guillemot desidera attribuire al pater familias anche
l’arma della diseredazione.
IL PROGETTO JACQUEMINOT (1799)
A poco più di un mese dal colpo di stato di Brumaio, Jacqueminot, forte dell’appoggio di
Bonaparte, che di lui ha una grande stima, presenta alla commissione legislativa dei cinquecento un
parziale progetto del codice civile.
Se è vero che si tratta di un piano di codificazione che non iene sottoposto a discussione e che,
per di più, è incompleto
è anche vero che esso può essere considerato il più grande contributo post-termidoriano alla
codificazione civile, in quanto, confrontando il suo testo con quello elaborato dalla commissione
napoleonica, è semplice notare che la maggior parte delle disposizioni vi sono state tutte
semplicemente trasfuse.
Il progetto di Jacqueminot, dunque, non può definirsi solo un abbozzo di codice!! Esso è già il code
civil di Napoleone.
-Se, un anno prima, nel 1798, Jacqueminot presentando il suo programma, aveva impiegato toni
concilianti,
-ora, invece, manifesta liberamente il suo pensiero: egli, cioè, non esita a denunciare che il
fanatismo rivoluzionario di una uguaglianza follemente interpretata ha sconvolto il diritto civile.
I tempi nuovi, invece, richiedono l’adozione di misure legislative volte a rendere gli uomini virtuosi
e più facili da dirigere, allo scopo di garantire, attraverso l’unione delle famiglie, la pace dello Stato.
In consonanza di quanto osservato da Guillemot, il mezzo più efficace per fare ciò è il testamento,
base della logica utilitaristica.
Attraverso il codice civile, dunque, si realizzerà l’epurazione dei costumi
RIFLESSIONI CONCLUSIVE
Nella messa a punto della restaurazione giuridica e sociale, i giuristi appaiono profondamente
segnati dall’esperienza del terrore, nell’incubo del quale hanno maturato concezioni antropologiche
profondamente pessimistiche.
Le teorie degli Ideologues e di Bentham sembrano indicare la via più ragionevole per uscire dalla
crisi e porre fine alla rivoluzione.
E’ proprio in seno a questa cultura termidoriana, che si prefigurano gli orientamenti autoritari e
stabilizzatori che seguirà il legislatore napoleonico.
Il codice napoleonico, infatti, non si presenta come un’opera uscita di getto, bensì come un progetto
che affonda le sue basi tempo addietro, tanto che di esso si può dire che nasca da una scala di
precedenti progetti.
La codificazione napoleonica, dunque, è spiritualmente iniziata molto prima di quanto si sia abituati
a pensare: il suo fondamento risiede in Termidoro.
Il code civil
NAPOLEONE, IL CETO DEI GIURISTI E IL CODE CIVIL
Il 9 Novembre 1799 si ha il colpo di stato:
Bonaparte rappresenta colui che è destinato a ristabilire quell’ordine che il Direttorio non è riuscito
a garantire: i sostenitori del colpo di stato cercano in lui colui la persona docile attraverso cui porre
fine alla Rivoluzione. Essi, tuttavia, si illudono!
140
Bonaparte, infatti, rivela un proprio disegno egemonico: egli diventerà, in breve tempo, un autentico
dittatore.
Fin dai primi momenti della sua carriera politica, Bonaparte capisce l’importanza di raccogliere
intorno a sé i giusti giuristi: egli sceglie con grande oculatezza quelli che poi diverranno i futuri
legittimatori del nuovo ordine politico.
Quasi tutti costoro, infatti…
-sono stati professionisti della giustizia durante l’ancien regime
-hanno guardato alla monarchia costituzionale come modello politico ottimale
-durante il terrore si sono ritrovati ad un passo dal patibolo
-provano repulsione per tutte le filosofie sulla socievolezza umana e sull’annullamento
dell’individuo nell’interesse del tutto.
Occorre intendersi: non tutti i giuristi napoleonici sono passati dall’illusione al disincanto!
Napoleone, infatti, chiama presso di sé, o mantiene nelle loro cariche, anche alcuni giuristi
compromessi fino in fondo con la rivoluzione.
Tra i giuristi e Napoleone si creerà ben presto una salda alleanza: Infatti,
lui, sta edificando il progetto di istuzionalizzazione del proprio potere
i giuristi, invece, chiedono il ribaltamento della libertaria legislazione giacobina.
Le rispettive aspirazioni di costoro convergono nell’idea del code civil:
Per Napoleone, infatti, il codice costituisce un imprescindibile strumento per governare, ed è
un mezzo di glorificazione del proprio trionfo.
Per i giuristi, invece, il codice civile è visto come un inestimabile monopolio di ceto.
Esso non costituisce un ritorno all’antico ordine, bensì una delle prime conquiste della Rivoluzione.
Napoleone e i suoi giuristi intendono mettere nel code civil tutto ciò di utile e positivo che la
rivoluzione ha portato.
LA FORMAZIONE DEL CODICE CIVILE NAPOLEONICO
a) La nomina della Commissione
Nel 1800, Bonaparte incarica una commissione di approntare il più velocemente possibile il codice
civile: questa ha a disposizione quattro mesi scarsi, tuttavia attinge dai progetti elaborati fino a quel
momento, ed in particolare dal progetto Jacqueminot, che ripropone con qualche piccola variazione
lessicale.
b) Il progetto dell’anno IX
Nel 1801, il progetto è pronto, e ripete l’ormai collaudata tripartizione giustinianea.
Le aspirazioni dei post termidoriani sono esaudite, in quanto il diritto di famiglia è concepito
all’insegna della reazione:
-è restaurata la patria potestà,
-la moglie è sottomessa al marito
-e i figli naturali sono posti in condizione di inferiorità rispetto a quelli legittimi
-L’adozione non è ammessa
-e il divorzio viene concesso solo per cause determinate dalla legge
L’ultima disposizione del progetto affronta il problema del rapporto tra il codice ed il diritto
anteriore che, nelle materie disciplinate dal codice, si considera abrogato.
c) Dal Consiglio di Stato al Corpo legislativo
L’iter previsto dalla costituzione prevede che la discussione del progetto di legge passi
dal consiglio di stato
141
al tribunato
al corpo legislativo.
Il ruolo del consiglio di stato è fondamentale: qui il progetto viene ampiamente discusso, limato e
ridimensionato. Se il consiglio di stato riesce a forgiare il testo definitivo del codice, il merito va
soprattutto a Cambacérès, che dirige i lavori con indubbio talento.
Nonostante ciò, inizialmente l’iter formativo del code civil si rivela molto difficoltoso: il tribunato
e il corpo legislativo, infatti, respingono alcuni titoli del codice.
Bonaparte, tuttavia, non si perde d’animo, ed infine, il 21 Marzo 1804, il codice civile viene
approvato.
IL DISCORSO PRELIMINARE DI PORTALIS AL CODE CIVIL
Portalis fece un “Discorso Preliminare al code civil”. Di questo discorso non è facile parlare, in
quanto esso, con il tempo, è stato destoricizzato e depoliticizzato: esso non espone le idee contenute
nel codice, bensì quelle che l’autore avrebbe voluto vedervi.
La valenza del Discorso, dunque, risiede proprio nel fatto che esso rispecchia la visione di Portalis,
e quindi consente di apprezzare la diversa portata del testo del 1804.
Da queste pagine emerge l’immagine di un giurista ossessionato dal desiderio di ricucire le ferite
provocate dalla rivoluzione tentando di conciliare il vecchio e il nuovo.
1- Nelle pagine di Portalis, il codice viene considerato il simbolo politico per eccellenza,
l’architrave della nuova società francese.
Se durante la fase più radicale della Rivoluzione, il diritto privato è stato asservito (=fatto servo)
alla ragion di Stato, ora, per Portalis, il rischio della assoluta politicizzazione del diritto privato è
venuto meno.
Portalis consacra Napoleone quale pacificatore della Francia, asserendo che codice e Napoleone
sono saldati in un inscindibile nesso: infatti così come Napoleone ha portato la pace, il codice la
garantirà.
Napoleone, inoltre, sarà colui che farà si che la Francia non sia più una società di società, bensì una
nazione retta da un’unica legislazione civile.
Gli obiettivi perseguiti col codice, dunque, sono
-la legittimazione del potere di Bonaparte
-la stabilizzazione della società
-e la cancellazione del particolarismo giuridico.
2- Accanto al dato di fatto che Portalis comprende chiaramente la portata del codice civile,
occorre soffermarsi su un altro aspetto:
occorre soffermarsi, cioè, sul rapporto in cui il code civil si pone rispetto alla realtà passata,
presente e futura.
E’, anche questo, un punto centrale del discorso di Portalis.
Qui, egli, compie una mediazione: se tempo addietro, infatti, egli aveva rifiutato in assoluto la
codificazione, asserendo che sarebbe stato impossibile pensare di superare i legislatori dell’antica
Grecia e dell’antica Roma,
ora egli è pronto a tornare sui suoi passi, procedendo alla codificazione, ma a due condizioni:
a) a condizione che non si cancelli del tutto il passato, in quanto questo costituisce lo spirito dei
secoli: è con questo spirito che alcuni principi della rivoluzione potranno sopravvivere
b) che non si pretenda di voler disciplinare e prevedere tutto: il codice civile si può realizzare,
purchè esso venga concepito come uno strumento “aperto”, che ricorra a consuetudine e diritto
naturali in caso di lacune. Le lacune, infatti, sono inevitabili, e un codice, per quanto completo
esso possa sembrare, non lo può mai essere, in quanto al magistrato finiscono per presentarsi,
da un momento all’altro, mille problemi.
142
3- Per quanto riguarda, invece, il problema intercorrente tra legge ed interprete, Portalis escogita
ancora una volta un compromesso:
partendo dal presupposto che sia erroneo pensare che possa esistere un corpo di leggi in grado di
provvedere a tutti i casi possibili, egli invita a lasciarsi guidare dal magistrato, designato come un
arbitro illuminato ed imparziale, capace di giudicare in alcuni casi secondo equità.
Portabilis riabilita, dunque, la figura del giudice-interprete, sottolineando il fatto che
-la sentenza può essere riformata in appello
-e il legislatore veglia sulla giurisprudenza.
LA VESTE FORMALE DEL CODE CIVIL
Per quanto riguarda la struttura del codice di Napoleone, esso si articola
in 2281 disposizioni, ripartite
-in un titolo preliminare
-e in tre libri:
• nel 1°, vengono regolati diritti personali, matrimonio, filiazione,
adozione e tutela
• nel 2°, beni, proprietà, usufrutto e servitù
• nel 3°, successioni, donazioni tra vivi, testamento, contratti e
obbligazioni, delitti e quasi delitti, rapporti patrimoniali tra coniugi, espropriazione forzata e
cause legittime di prelazione tra i creditori.
Lo stile del legislatore è asciutto.
IL RAPPORTO TRA GIUDICE E LEGGE: GLI ARTICOLI 4 E 5 DEL CODE CIVIL
L’ART. 4 del titolo preliminare è la disposizione chiave per decifrare il rapporto tra giudice e legge
così come esso si configura nel codice civile.
Questa norma dice che, laddove un giudice, con il pretesto di oscurità o lacunosità della legge, si
rifiuti di giudicare, sarà possibile agire contro di lui come colpevole di negata giustizia.
Portalis aveva introdotto questa disposizione per impedire ai giudici di non giudicare, ricorrendo al
legislatore. Egli si inserisce a meraviglia nel modo di fare tipico del periodo post-termidoriano, in
cui i giudici venivano obbligati a decidere senza la possibilità di ricorrere al fatto che la legge fosse
oscura o lacunosa.
In caso di una lacuna realmente esistente, dunque, il giudice doveva comportarsi secondo equità.
Questa equità, tuttavia, non era assolutamente da intendersi come l’arbitrio giudiziale dell’ancien
regime, in quanto al riguardo erano state predisposte le adeguate contromisure.
Per comprendere in pieno il disegno realizzato dalla commissione napoleonica, occorre evidenziare
il fatto che essa era ossessionata dall’idea di realizzare un perfetto equilibrio tra giudice e legge,
mediando tra l’ampia discrezionalità del giudice, tipica dell’ancien regime, e la rigida
subordinazione del magistrato alla legge, tipica, invece, della rivoluzione.
Tuttavia la disposizione che visualizzava il giudice come ministro di equità, permettendogli di
ricorrere agli usi ed al diritto naturale, venne cassata.
A rimanere in piedi furono solo gli articoli 4 e 5, segno, questo, che non si era riconosciuto
affatto l’impianto di Portalis.
Egli, tuttavia, non si abbattè e, determinato a far rientrare nell’art. 4 il principio per cui il giudice, in
caso di silenzio della legge, era legittimato a comportarsi secondo equità, nel momento di
illustrazione del titolo preliminare, presentò l’articolo proprio in quel modo.
Vista la contestazione che i deputati fecero della norma, Portalis si vide costretto a fare un passo
indietro, chiarendo che l’equità a cui egli si riferiva consisteva in una equità legale, ossia in una
equità ricavabile dalla legge.
143
IL DIRITTO DI FAMIGLIA E DELLE SUCCESSIONI
Lo spirito della rivoluzione si era nutrito di un odio implacabile nei confronti di due istituti cardine
della famiglia:
-la patria potestà, posta sotto accusa come potere dispotico in grado di soffocare i figli
-ed il testamento, visto come strumento di ricatto, impiegato dal padre per tenere a freno i figli con
la minaccia della diseredazione.
Nel codice civile del 1804, si ritrovano sì il matrimonio civile, il divorzio, il divieto di
diseredazione, il principio dell’uguaglianza successoria dei figli, ed il diritto di costoro ad una quota
legittima sul patrimonio ereditario.
Tuttavia ci si accorge subito del fatto che Napoleone ed il suo entourage…
hanno restaurato l’istituto della patria potestà: essa è tornata ad essere un complesso di poteri
direttivi e correttivi, che agiscono come una sorta di magistratura, tanto che il padre…
-ha il potere di far incarcerare il figlio ribelle
-deve dare la propria autorizzazione affinchè il figlio, minore di 25 anni, possa sposarsi
hanno fatto rinascere il testamento, tanto che il codice riconosce al padre la facoltà di disporre
liberamente di una quota del proprio patrimonio: con questo ripristino della quota disponibile, viene
riconosciuta al padre la facoltà di premiare i figli virtuosi e punire quelli snaturati.
Il riconoscimento dei figli naturali, in quanto figli fuori dalla famiglia, non viene certo favorito,
in quanto la società, dice Napoleone, non ha interesse a che i “bastardi” vengano riconosciuti. Di
qui una serie di svantaggi sul piano successorio.
Anche la disciplina del divorzio viene assai ridimensionata, tanto che esso viene ammesso solo in
pochissimi casi tassativamente determinati della legge.
La podestà maritale, infine, viene rimessa sul piedistallo di sempre, e viene riconsegnata
all’uomo quale capo assoluto del governo familiare.
Questo rigore austero e questo autoritarismo, sono finalizzati al rafforzamento dello stato che,
potendo poggiare sull’autorità dei padri di famiglia, può contare su di loro per supplire alle leggi e
mantenere la pubblica tranquillità.
Le rigorose strutture gerarchiche della famiglia napoleonica non sono pensate nel presupposto che i
membri della famiglia siano mossi da sentimenti altruistici, ma sono pensate (con un grande
pessimismo relativo alla natura umana) nel presupposto che tutti i membri della famiglia siano
spinti unicamente dall’interesse.
Di qui la concezione (presa dagli Ideologues) che il legislatore possa servirsi del fatto che l’uomo
guarda solo all’interesse, per giungere al bene comune.
LA DISCIPLINA DELLA PROPRIETA’
La disciplina della proprietà rappresenta il fulcro dell’intero codice: esso definisce la proprietà
come “diritto di godere e disporre delle cose nella maniera più assoluta”.
Essa nasce dal lavoro dell’individuo in seno alla società civile organizzata, ed è
-concepita da una legge, che la genera
-e garantita da uno stato che la protegge, la regola e la limita, tanto che il codice,
dopo aver asserito che il privato può godere e disporre dei suoi beni nella maniera più
assoluta,
continua dicendo che tutto ciò è valido, purchè di essa non se ne faccia un uso proibito dalle
leggi o dai regolamenti.
Qualificando la proprietà come summa del potere di godere e di quello di disporre, il codice intende
escludere ogni possibile rinascita del tradizionale regime signorile di dominio sulla terra. Sono
144
dunque proprio gli acquirenti dei beni nazionali (che in realtà erano i beni del clero, prima
confiscati e poi venduti) che il codice napoleonico vuole rassicurare proclamando l’assolutezza del
diritto di proprietà.
IL CONTRATTO
Per quanto riguarda, invece, il diritto delle obbligazioni e la disciplina dei contratti, anche qui ci
troviamo di fronte ad un articolo celebre, l’art. 1134, articolo in cui il 19° secolo avrebbe scorto la
magna charta della libera iniziativa economica privata.
Asserendo che “le convenzioni formate legalmente hanno forza di legge nei confronti di coloro che
le hanno poste in essere”, l’articolo sembra voler dire che è la volontà dei privati, e non la legge, a
dare forza vincolante al contratto.
alla sua origine, tuttavia, questo articolo non è concepito come enunciazione della autonomia e
della forza giuridica creativa della volontà dei privati,
in quanto ciò che ispira i suoi redattori è piuttosto il principio che i contratti, stipulati legalmente, e
cioè nei termini richiesti dalla legge dello stato, obbligano le parti a rispettare gli impegni assunti.
Essendo dunque l’articolo inquadrato nell’ambito del liberalismo classico solo più tardi, esso,
agli inizi, ha tratto la sua forza dalla legge, piuttosto che dalla volontà delle parti.
L’EMERSIONE DEL PRINCIPIO DEL CONSENSO TRASLATIVO
Nell’ambito della disciplina delle obbligazioni e dei contratti, è opportuno soffermarsi su una
disposizione che contiene una notevole innovazione:
secondo il legislatore napoleonico, infatti, la proprietà può essere trasferita solamente per mezzo del
consenso manifestato dalle parti:
questo principio del consenso traslativo, tuttavia, sarebbe già stato operante in Francia al
momento della codificazione del codice, tanto che il legislatore si sarebbe limitato a consacrarlo nel
suo testo.
LE RADICI FILOSOFICHE DEL CODE CIVIL: ALCUNI ASPETTI PROBLEMATICI
Occorre rispondere, ora, a due interrogativi:
I- In che misura i giuristi coinvolti nell’opera della codificazione si siano lasciati condizionare dalle
concezioni filosofiche circolanti durante il direttorio.
I giuristi si sono persuasi del fatto che il legislatore debba conoscere l’essere umano in ogni suo
aspetto, accogliendo il modello antropologico degli Ideologues: l’uomo è un essere sensibile,
soggiogato alle passioni, e mosso dagli interessi. Al legislatore spetta dunque il compito di
incanalare e dirigere accortamente queste passioni egoistiche verso l’interesse generale.
Dunque, proprio perché sono convinti di conoscere la sensibilità dell’uomo, i giuristi impegnati
nella codificazione sono persuasi di poter orientare la condotta dei destinatari delle norme facendo
leva sul sistema delle pene e delle ricompense:
è per questo che la disponibile rappresenta, nelle mani del padre, lo strumento per eccellenza
attraverso il quale educare i figli.
Tra i giuristi del code civil, dunque, non si respirano certo concezioni antropologiche!
Costoro, si può ben dire, subirono l’influenza degli Ideologues e di Bentham.
II- Quale sia stato il peso di altre culture più risalenti.
L’idea che l’uomo sia dominato dall’interesse, e che il legislatore debba sfruttare questo interesse
per giungere a realizzare il bene comune, si radica in realtà in una tradizione culturale più risalente,
appartenente al pensiero di Port Royal, Pascal e Domat.
Secondo costoro, infatti, l’uomo è dominato dall’ “amor proprio”, sentimento, questo, sul quale fare
leva per conseguire finalità positive.
Questa concezione del ruolo dell’amor proprio, ha fatto presa su alcuni giuristi francesi precedenti
alla Rivoluzione, che parlano di taluni concetti che Napoleone e il suo entourage poi riprenderanno.
145
Una sorta di filo rosso, dunque, sembra legare la cultura d’ancien regime, alla rivoluzione, all’età
napoleonica.
LA METAMORFOSI DELLO SPIRITO DEL CODE CIVIL
Ci si è chiesti come mai…
visto che il code civil non nasce come un testo volto ad esaltare l’individualismo
e visto che Napoleone persegue di fatto una politica dirigistica da sovrano assoluto
…i giuristi liberali abbiano celebrato questo codice come un monumento dell’autonomia della
società civile rispetto allo stato, in cui
-l’individuo è considerato come un soggetto libero ed incoercibile
-e lo stato è visto come il garante neutrale degli scambi economici.
Si può dire che il codice, per molti aspetti, abbia subito una sorta di trasfigurazione, disancorandosi,
decennio dopo decennio, dalle sue origini, e caricandosi di connotati liberali ed umanistici che, al
momento della sua compilazione, non erano stati previsti.
Per spiegare tutto ciò, occorre pensare alla grande flessibilità del testo normativo:
se infatti i giuristi di Napoleone avevano pensato le norme secondo una politica potestativa, ed in
base ad una concezione dell’uomo infantilizzante,
costoro, da grandi tecnici quali erano, le levigarono fino a far loro raggiungere un livello di
astrazione eccellente, munendo quindi il codice di una straordinaria capacità di adattamento.
Sfuggito al controllo del legislatore, ed affidato alla interpretazione giurisprudenziale, il codice del
1804 si è rifatto da sé, caricandosi dei contenuti e dei valori propri delle realtà che via via gli sono
divenute contemporanee.
Il seguito della codificazione napoleonica
IL DIRITTO PENALE: DAL CODE CRIMINEL AL CODICE DEL 1810
a) Il progetto di code criminel (1801-1802)
1801. La Francia è in allarme: nelle campagne i criminali si moltiplicano, compiendo molteplici
crimini.
Il governo fronteggia il problema nominando una commissione di giuristi incaricata di presentare
entro pochi mesi un progetto di codice criminale. In realtà il testo, ridefinito più volte, entrerà in
vigore solo nel 1811.
La commissione capisce subito che per fermare il fenomeno della criminalità occorre mettere a
punto un codice che intimidisca i delinquenti: di qui, la reintroduzione…
-del taglio della mano per gli autori di alcuni efferati crimini, prima che il boia li uccida
-del marchio a fuoco
-della confisca generale dei beni
-della pena di morte per il furto aggravato
Si ritorna dunque alle pratiche d’ancien regime, convincendosi che le sanzioni davvero utili sono
quelle esemplari: la cornice che deve accompagnare l’esecuzione dei giustiziati deve essere lugubre,
tale da terrificare chi vi assiste.
In queste pagine non c’è spazio per l’umanitarismo e per Beccaria: il code penal napoleonico entra
in vigore con la caratteristica del rigore intimidatorio e repressivo.
Per i redattori del codice, i diritti dell’uomo sono subordinati alle esigenze di ordine pubblico: le
pene esemplari (e perciò sproporzionate) sono concepite come irrinunciabili strumenti di controllo
sociale.
146
Una volta che il progetto viene stampato e fatto circolare tra gli addetti ai lavori, molti plaudono il
principio della difesa sociale realizzato attraverso il ricorso all’esemplarità della sanzione.
b) La redazione del code pénal
Il progetto di code criminel, non si limita a disciplinare la parte sostanziale del diritto penale, ma
disciplina anche quella procedurale: è così che, fino a quando non vengono separate le due parti, il
processo di codificazione rimane su un binario morto.
Si è pronti a ripartire quando, nel 1808, alcune asprezze del progetto originario vengono mitigate:
questo avviene perché, nel 1808, la Francia è ormai una società pacificata.
Per ciò che riguarda l’architettura del codice, esso si struttura
in 5 disposizioni preliminari,
a cui seguono 4 libri
Nell’ambito delle disposizioni preliminari…
ritroviamo il divieto di retroattività: di fatto questo principio, però, venne disatteso. Napoleone
introduce delle nuove bastiglie in cui vengono rinchiusi, in via amministrativa, gli avversari politici,
i soggetti pericolosi assolti per insufficienza di prove e tutta una popolazione considerata vicina alla
delinquenza: prostitute, imbroglioni ecc ecc..
viene mantenuta la norma sul tentativo: il tentativo viene punito con la stessa pena applicata al
reato consumato.
Per quanto riguarda il sistema delle pene…
…queste vengono distinte a seconda che il reato commesso sia un crimine, un delitto, o una
contravvenzione.
Per coloro che si sono macchiati di…
un crimine, possono essere irrogate come sanzioni… -la morte
-i lavori forzati a vita
-i lavori forzati a tempo
-la deportazione
-la reclusione
-la berlina
-il bando
-la degradazione civica
-l’ammenda
-la confisca speciale.
Le due prime sanzioni (morte e lavori forzati a vita), possono essere accompagnate da due pene
accessorie: il marchio o la confisca generale dei beni.
un delitto, sono comminati -la prigione
-l’interdizione a tempo da diritti civici, civili o di famiglia
-la sorveglianza dell’alta polizia
-l’ammenda
-la confisca speciale
una contravvenzione, viene prevista -la prigione
-l’ammenda
-la confisca speciale
147
Se confrontiamo questo sistema sanzionatoria, con quello predisposto da legislatore del 1791, ci
accorgeremo che
il principio di temporaneità delle pene viene abbandonato
riappaiono le pene corporali e la confisca generale dei beni del condannato.
inoltre, viene ripudiato il sistema delle pene fisse, e viene introdotto un minimo ed un massimo
edittali (es. da 5 a 20 anni)
Per ciò che riguarda, invece, la parte speciale,
occorre sottolineare il fatto che il diritto penale viene concepito come uno strumento di difesa del
già consolidato assetto politico, tanto che le norme relative ai reati contro lo stato vengono ritenute
la parte più importante del codice.
Quanto alle tecnica normativa impiegata dal legislatore napoleonico, il codice penale francese,
rispetto a quello austriaco, si caratterizza per l’estrema concisione dei precetti e per lo stile
imperativo delle sue disposizioni.
IL CODICE DI PROCEDURA PENALE (1808)
a) La formazione del codice e il problema della giuria
L’esigenza di garantire una rapida stabilità dell’ordine sociale spinge il legislatore napoleonico a
procedere, oltre alla riforma del codice penale, anche a una revisione della procedura criminale.
Questo aggiornamento si caratterizza per il recupero di alcuni elementi propri del rito criminale
d’ancien regime.
Con il codice penale del 1810, il codice di procedura ha in comune
-l’origine
-gli artefici
-ed un lungo periodo di incubazione: iniziato nel 1802, esso viene definitivamente promulgato solo
nel 1808. Le vicende della sua approvazione, tuttavia, sono travagliatissime:
il principale terreno di scontro concerne la giuria popolare: la contrapposizione, infatti, si ha
-tra chi intende rimettere in auge le regole del processo criminale pre-rivoluzionario
-e chi, al contrario, ritiene che occorra salvaguardare le innovazioni introdotte dal droit
intermediarie.
Fin dalla sua introduzione, infatti, la giuria non aveva dato gran prova di sé, rivelandosi un
elemento del sistema repressivo poco funzionante.
Dopo una battaglia che dura anni, la soluzione risulta inevitabilmente compromissoria:
ad essere mantenuta, infatti, è soltanto la giuria di giudizio, mentre le funzioni in precedenza svolte
dalla giuria d’accusa vengono assunte dalle camere di consiglio, istituite presso ciascuna corte
d’appello, e composte da tre magistrati togati.
b) I caratteri della procedura penale napoleonica
Il delicato problema della sopravvivenza della giuria, si chiude con un accomodamento: l’intera
vicenda fa nascere l’opinione che il processo penale napoleonico sia frutto di un compromesso.
Del resto, questa inconfondibile caratteristica del processo penale napoleonico può essere colta
ancor meglio se si osserva la struttura complessiva del codice, un codice in cui…
-alla fase istruttoria, ispirata ai canoni del processo inquisitorio
-fa da contraccolpo la fase dibattimentale, caratterizzata, invece, dai canoni della procedura
accusatoria.
La fase istruttoria, segna il ritorno ai modelli normativi dell’antico regime, e cioè il recupero del
modello inquisitorio:
148
1- L’istruzione preparatoria è segreta e senza contraddittorio. Il giudice istruttore ha la facoltà, ma
non l’obbligo, di interrogare l’imputato, ma non è tenuto a comunicargli l’esito delle attività svolte,
e può tenergli nascosti i fatti di cui è accusato.
2- Questo velo di segretezza impenetrabile, è destinato a squarciarsi solo nella prima udienza
dibattimentale, in cui l’imputato può ottenere una copia della intera documentazione istruttoria.
Questa fase è dominata dal principio della scrittura: il codice dispone l’obbligatoria verbalizzazione
degli interrogatori dei testimoni.
3- La prima parte della procedura, è caratterizzata, infine, dall’assenza del difensore: il suo
intervento, infatti, è previsto solo nella fase dibattimentale.
Nella fase del dibattimento, invece, tornano alla luce i caratteri del procedimento accusatorio:
1- Tutto si svolge all’insegna dell’oralità: al principio istruttorio della scrittura, subentra l’audizione
dei testi e la discussione delle parti.
2- Si ha la difesa tecnica ed il contraddittorio: l’imputato ha un difensore, che può
-controinterrogare i testi
-e replicare alle conclusioni dell’accusa.
3- Infine, i giurati decidono inappellabilmente sul fatto, secondo il principio del libero
convincimento.
Il dibattimento, dunque, è concepito come quella fase in cui si bada a tutelare i diritti dell’imputato.
In realtà, tuttavia, il tentativo del legislatore di contemperare le esigenze di difesa sociale con il
rispetto delle garanzie individuali non si risolve in modo neutrale, almeno sotto due profili:
la distinzione tra le due fasi del processo è meno netta di quanto possa sembrare a prima vista: in
esso, infatti, prevale l’utilizzo della procedura scritta, con la conseguenza che l’esito del processo è,
il più delle volte, pregiudicato dall’opera del giudice istruttore.
c’è un generale indebolimento delle garanzie processuali.
IL CODICE DI PROCEDURA CIVILE (1806)
Tra tutti i codici napoleonici, secondo la storiografia successiva, quello di procedura civile risultò
essere un codice redatto troppo in fretta.
Nel 1802, la commissione incaricata di redigere il codice viene istituita.
A partire dal 1805 il progetto della commissione, pubblicato e trasmesso ai singoli organi giudiziari,
viene discusso in consiglio di stato; esso, infine, entra in vigore nel 1807.
Il testo si articola in due parti:
la prima, disciplina la procedura davanti ai tribunali
la seconda, regolamenta le procedure diverse (che, oggi, prenderebbero il nome di procedimenti
speciali,
il tutto caratterizzato dal consueto stile imperativo, apodittico.
Quanto al contenuto, il codice prevede tre tipi di procedimento:
• procedimento di fronte ai giudici di pace
• procedimento dinanzi ai giudici di primo grado
• procedimenti diversi
I giuristi napoleonici compiono degli innesti tratti dalla legislazione rivoluzionaria e dalle procedure
d’ancien regime: è proprio l’aderenza a questo archetipo la critica
149
IL CODICE DI COMMERCIO (1807)
Nel momento in cui viene promulgato il codice di commercio napoleonico, la Francia era l’unico
stato, in Europa, che da più di un secolo aveva una legislazione commerciale.
Le due ordonnances di Colbert, una sul commercio e una sulla marina, infatti, avevano
trasposto le consuetudini giuridiche commerciali e marittime in un testo legislativo: anche se il loro
contenuto non era particolarmente innovativo, il fatto importante da sottolineare era la
rivendicazione, da parte della monarchia di Luigi 14, della competenza a fissare le regole
commerciali tramite la legge dello stato.
Sebbene dunque sia errato qualificare come “codici” i testi di Colbert, non si può negare che la
statualizzazione del diritto commerciale abbia avuto inizio con questi due celebri testi.
Le richieste di riforma del diritto commerciale alla vigilia della Rivoluzione apparvero in modo
chiaro in numerosi cahiers des doleances,
Tuttavia, è soltanto sotto Napoleone che l’idea della codificazione commerciale prende
forma concreta:
dopo aver lavorato per quasi un anno, una commissione presentò un primo progetto che
riformava profondamente la legislazione colbertina: lo scopo del progetto non consisteva
tanto nel proteggere i commercianti, quanto nel favorire il commercio con l’ausilio di una
normativa uniforme per tutta la Francia.
il testo del progetto venne inviato alle corti di giustizia, ai tribunali di commercio, e ai
consigli di commercio: le osservazioni fatte da costoro portarono ad una seconda versione del
progetto:
spettava ora al consiglio di stato intervenire.
L’esame degli articoli fu minuzioso, e la discussione durò fino al 1807.
150
ADRIANO CAVANNA
Parte speciale
GennaroAcquario1980
L’anno 476 d.C. segna il “tramonto del Sacro Romano Impero d’Occidente” dovuto alla formazione di una
moltitudine di regni di diversa grandezza (cd: romano-barbarici).
*Barbaro : Termine greco che indica tutti coloro che non appartenevano alla loro civiltà e che non parlavano la loro
lingua, evidenziandone la rozzezza/arretratezza (Germania-Polonia-Ungheria).
Nella sua opera “Germania” lo storico romano Tacito, affermò che questa era una società compatta/bellicosa, in cui i
delitti più gravi (tradimento) erano puniti con la pena capitale.
1) VISIGOTI.
Primo ordinamento giuridico barbaro che, guidati dal re Alarico I invasero l’Italia saccheggiando Roma, per poi
stanziarsi in Francia (ove furono sconfitti dai Franchi di Clodoveo) e in Spagna (dagli arabi).
Furono artifici una importantissima norma : LEX ROMANA VISIGOTHORUM (o Breviarum Alarici) costituita da
Leges (costituzioni imperiali) e Iura (frammenti della dottrina dei giuristi classici), avente come scopo quello di
dimostrare il rifiuto di ogni supremazia del diritto romano sui popoli barbari.
2) OSTROTI.
Secondo ordinamento giuridico barbaro che, grazie a Teodorico , succedono ai Goti (autori della caduta dell’Impero
Romano d’Occidente).
Popolo molto più civile del primo, essi non realizzarono una totale integrazione con i Romani tale che per lungo tempo
regnò il “principio della personalità del diritto” (ognuno applicava il diritto del suo popolo).
Importante fu L’EDITTO DI TEODORICO (di Teodorico II) che disciplinava i rapporti tra Ostrogoti e Romani.
3) BIZANTINI.
1) Giustiniano salì al trono di Costantinopoli divenendo imperatore del Impero Romano d’Oriente. Sconfitto gli
Ostrogoti (dopo una sanguinosa guerra durata quasi 20 anni) l’Italia entrò a far parte di tale Impero conservando così il
diritto romano fino ai giorni nostri.
2) L’insieme delle opere di Giustiniano prende il nome di Corpus Iuris Civilis (libri legales), essi sono:
• CODEX IUSTINIANUS : Opera di Giustiniano con l’obiettivo di riordinare tutte le costituzioni (che i precedenti
imperatori emanavano) sulla base dei codici Gregoriano-Ermogenano-Teodosiano.
(Perfezionato poi dopo con il Codex Repetitae Praelectionis ).
• Digesto : Opera in latino-greco (50 libri divisi in titoli e frammenti) contenente le Iura (frammenti della dottrina dei
giuristi classici).
• Institutiones : Opera (4 libri di Gaio) ripresa poi da Giustiniano che preparava gli studenti allo studio delle
leges/iura, del Digesto (privato 2°anno) e al Codex (civile 5°anno).
3) Giurisprudenza (Iurisprudentia) : Termine latino che indica colui che non soltanto possiede un sapere ma è anche in
grado di applicarlo.
4) LONGOBARDI.
1) Popolo molto più violento/arretrato, invadono l’Italia e la dividono in Longobardia Maior (Nord) e Longobardia
Minor (Sud)..cercando poi di sostituire il potere dei Duchi (comandanti con poteri civili-militari affiancati da famiglie
potenti) con i Gastalli (funzionari del re).
2) Fu emanato l’ EDITTO DI ROTARI (dal re Rotari) con l’intenzione di mettere per iscritto le antiche leggi dei
padri, introducendo:
• norma contro l’attentato alla vita del re (Faida).
151
• creazione di un soggetto giuridico addetto alle entrate/spese (Fisco).
• norme contro il delitto tentato.
• successione legittima (per legge).
• norma sulla posizione giuridica della donna (era proprietà del marito e come tale ad esso sottomesso: Mundio).
5) FRANCHI.
1) Popolo proveniente dalla Germania si stabiliscono definitivamente in Francia. Il figlio del re, Carlo venne incaricato
dal papa Adriano I di venire in soccorso della Chiesa (minacciata da Desiderio, re Longobardo) così arrivato in Italia
nella notte dell’800 Carlo diviene Carlo Magno e incoronato Imperatore del Sacro Romano Impero.
2) RENOVATIO, ovvero:
• Romano Impero : L’imperatore romano è una figura unitaria che governa tutto l’impero.
• Sacro Romano Impero : Carlo Magno, essendo imperatore, mantiene distinta la corona dei Franchi - re d’Italia!
3) Conti : aristocratici che godono della fiducia dell’imperatore.
Contea : il loro territorio.
Bannum : disciplina civile-militare che si esercita all’interno del territorio.
Missi Dominici : ambasciatori del re (vescovi) che amministravano la giustizia/tasse in concorrenza ai Conti.
4) Capitularia : corpo di leggi, suddivise in:
• Cap. Ecclesiastica : miscuglio di norme canoniche/secolari.
• Cap. Mundiana : riguarda situazioni civili.
• Cap. Per sé Scrivenda : materie nuove.
• Cap. Legibus Addenda : norme che si aggiungono alle precedenti integrandole/modificandole/abrogandole.
…
5) Franchi furono artefici di una figura importante: FEUDO (legame personale tra il signore e il vassallo) costituito da:
*Elem.Personale (fedeltà nel prestare servizio in guerra e che si scioglie con la morte/tradimento).
*Elem.Locale (consiglio in caso di bisogno).
*Elem.Reale (concessione di terra in cambio di una tassa annuale).
6) Il vassallo titolare del Beneficium (concessione di terra) godeva dell’Immunitas (la non sottoponibilità ai doveri
pubblici/misure finanziarie).
7) Alla morte del vassallo il dominio diretto (titolarità) resta ad esso, mentre il dominio utile (sfruttamento) va agli
eredi, ma con l’Editto di Milano (legge Salica) : Prevede che il feudo potesse trasmettersi/vendersi ai figli-fratelli (non
le donne, inutili in caso di guerra), ma se il nuovo vassallo non era gradito al signore, qsti poteva applicare il diritto di
retratto/prelazione.
…
8) Arti del Trivio : attenevano al discorso cioè il modo corretto di esprimersi/discutere.
• Grammatica: arte dell’esprimersi in maniera corretta.
• Dialettica: arte del ragionamento.
• Retorica: arte del persuadere, cui max esponente era cicerone.
Arti del Quadrivium (artes reales) : riguardavano fatti reali, e sono: Aritmetica/Geometria – Musica –
Astrologia/Astronomia.
GennaroAcquario1980