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P:01

1

STORIA DEL DIRITTO

MODERNO IN EUROPA

(Adriano Cavanna)

“Le fonti e il pensiero giuridico Vol 1-2”

**GennaroAcquario1980**

([email protected])

P:02

2

ADRIANO CAVANNA

Volume primo

Storia Del Diritto Medioevale e Moderno

1) Il Sacro Romano Impero.

Con l’incoronazione imperiale di Carlo Magno (nell’800 D.C. per mano del pontefice Leone III) prese vita il “Sacrum Imperium”.

Continuazione dell’Impero Romano, esso volle rappresentare l’unità civile/religiosa di tutte le genti occidentali unite dal

cristianesimo. La Chiesa venne posta al vertice di tale struttura politica universale (insieme all’imperatore, che era prima di tutto il

suo difensore).

2) Le origini medioevali del Diritto Comune.

1) La concezione del Sacrum Imperium trovò sbocco anche nel mondo del diritto.. (Lex communis cioè legge comune verso tutti i

popoli dell’Impero) teorizzato poi nel trattato intitolato Questiones De Iuris Subtilitatibus : Ovvero l’imperatore romano non

tollerava più che le disposizioni promulgate dai re barbarici continuassero ad essere osservate come diritto vigente; in quanto i

singoli regni barbarici erano stati fusi nell’impero, e dunque dall’unità di questo non poteva che discendere l’unità del diritto cioè

quello romano “Unum Ius/Ius Comune”..

…maturando poi nel cd: Rinascimento Giuridico : Fenomeno che prese vita con il sorgere della scuola di diritto a Bologna per

opera dei dottori bolognesi (Glossatori) i quali consideravano la normativa giustinianea come legge comune dell’Impero.

2) Rinascimento Medioevale : Cioè il moltiplicarsi (all’interno/esterno dell’Impero) di ordinamenti giuridici differenziati nei quali

ciascun membro viveva secondo le leggi del proprio popolo d’origine in contrasto con i principi romani (cd: principio di personalità

del diritto).

3) Allo scopo di creare una visione unitaria del diritto romano, si elaborò il concetto di:

Ius Commune : (Ordinamento normativo bifronte = ius civile+canonico) Ovvero gran parte della scienza giuridica interpretò i

testi del diritto romano secondo le regole della Chiesa così da fare del diritto della società a fondamento religioso.

*Né il papa doveva intromettersi nelle questioni imperiali, né l’imperatore in quelle spirituali.

*La prima sistemazione del diritto canonico la ritroviamo nel Decretum di Graziano (12°sec) il quale riorganizzò tutto il

materiale in un numero di testi di provenienza diversa (Auctoritates) raggruppandoli per soggetto con l’aggiunta di un

breve commento (Dictum), qndi: porre un caso, individuare la soluzione, respingere le argomentazioni contrarie.

In questo modo il diritto canonico venne collocato alla stesso livello di quello civile.

3) La Scuola Bolognese dei Glossatori (12°-13°sec).

1) Rinascimento Giuridico : Fenomeno che prese vita con il sorgere della scuola di diritto a Bologna (a sua volta legato al sorgere del

diritto comune).

2) Fondatore della scuola fu IRNERIO (Glossatore) con i suoi discepoli: Bulgaro, Martino, Ugo e Iacopo. Tale scuola divenne il

fulcro dei maestri del diritto e meta di migliaia di studenti provenienti da tutta Europa, in cui le principali caratteristiche del piano

di studi erano:

- Insegnamento del Corpus iuris civilis e ..canonici.

- Programma unico, in quanto tutto era diritto civile o canonico.

3) Tra i principali strumenti tecnici adoperati dai glossatori troviamo:

• GLOSSA : Attività del professore volta a chiarire con una parola/espressione più chiara, un’altra ritenuta più difficile (in base al

contenuto Grammaticale o Interpretativo).

*La Magna Glossa di ACCURSIO : Ovvero gigantesco commentario dei libri giustinianei, che (nonostante le sue

lacune/contraddizioni) venne ritenuto strumento essenziale per interpretare il testo.

• Quaestiones : Metodo attraverso il quale il professore esaminava il problema esponendo prima le ragioni/testi che erano a

favore/contro, per poi arrivare ad una propria conclusione interpretativa (solutio).

Quaestio legittima : un autore cerca di coordinare le leges contraddittorie tra loro.

Quaestio de facto : il maestro arriva all’università, si inventa un caso inesistente e lo fa discutere agli allievi.

Quaestio disputata : gli studenti senza il maestro, discutono il sabato matt di 2 casi pratici inventati.

Quaestio ex facto emergentes : si discutono dei casi provenienti dalla prassi forense (venendosi a creare un primo ponte tra le aule

universitarie e quelle dei tribunali).

• Summae : Ovvero opere in cui venivano riassunti interi libri/testi/argomenti (es: Summa Trecencis).

4) Il primo risultato del loro lavoro fu la “Riscoperta del Codice Giustinianeo” ovvero la ricostruzione del Digesto (considerato

tesoro di sapienza legale) in modo tale che un testo complesso come il Corpus Iuris poteva poi essere facilmente consultato dal

magistrato per rendere più agevole la soluzione da adottare nei casi concreti.

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3

Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.

5) Aequitas : Ovvero giustizia naturale che proviene dalla natura delle cose/persone, e che per opera di una “volontà terrena”

(giudice) diviene giustizia concreta operante nella risoluzione delle controversie (da valore morale a comando).

Essa si distingue in:

• Civilis : rudis (generica) costituta (legge scritta).

• Canonica : la condizione necessaria per disciplinare le relazioni sociali.

4) La scuola dei Commentatori.

Successivamente alla scuola dei Glossatori venne formandosi quella dei Commentatori (intesi come continuità dei primi) infatti

Commento : Tecnica di interpretazione del diritto (come sviluppo della glossa) riguardante il diverso modo di leggere e disporre il

testo giustinianeo (i Commentatori chiamavano antichi i Glossatori). Qui la norma veniva scomposta/ricomposta/collegata ai casi

pratici e infine sezionata in una serie di tesi volte a fornire ipotesi/questioni.

5) PRAGMATISMO GIURIDICO : Trattatisti e Consulenti (cd: Bartolismo).

1) Dobbiamo distinguere:

• TRACTATUS : Genere letterario che contemplava (con apposite monografie) settori di diritto e giurisprudenza.

*Autorevole trattatista fu il Cardinale Gianbattista De Luca che scrisse in lingua italiana le dissertazioni del suo enciclopedico di legislazione

civile/canonico sia feudale-municipale (Teatrum veritas et iustitiae).

• CONSILIUM : Che raccoglievano i risultati dell’attività svolta da consulenti della giurisprudenza:

Consilium sapientis iudiciale : parere richiesto al giurista dotto da parte di consoli/potestà i quali non erano esperti di diritto, al

fine di ricevere assistenza circa la stesura delle loro sentenze.

Consilium scritto : parere dato dal giurista alle parti anziché al giudice.

2) Con lo sviluppo dell’attività dottrinale/universitaria, i giuristi si diedero alla consulenza privata per poi (con la scoperta della

stampa) arrivare alla stesura-pubblicazione dei propri pareri legali, spesso richiesti da avvocati/magistrati per rendere più agevole

la soluzione da adottare nei casi concreti.

3) Grandi Commentatori quali Ciro da Pistoia/Baldo degli Ubaldi acquisirono una tale forza/autorità da riuscire a sostituirsi al testo

giustinianeo.. A fronte di ciò si ebbe la cd: Communis Opinio : Cioè consuetudine di verificare (su ogni punto di controversia

giuridica) l’esistenza di una concordanza di opinioni delle massime autorità dottrinali considerandole come “verità presunta” (cmq

ignorata a fronte di un chiaro testo di legge “verità effettiva”).

4) Il trionfo della Communnis Opinio (dunque la crisi dei consilia) iniziò a manifestarsi allorquando i giudici si videro costretti

all’uso di norme/regole che in quanto autorevoli potevano essere prese come modello per le loro sentenze (espresso attraverso il

parere del consulente dell’avvocato a sua volta agevolato da numerose/autorevoli opinioni). In tali casi la Communis Opinio divenne la

“Comune Opinione dei pratici” e la sua inosservanza era equiparata teoricamente all’inosservanza delle legge stessa.

*Fra i grandi tribunali ricordiamo la Sacra Rota (organo supremo in materia civile nello Stato pontificio), il Parlamento di Parigi, o

la Rota Fiorentina..

6) La crisi del Diritto Comune.

1) Il diritto comune iniziò ad entrare in crisi con l’affermarsi dello Stato Moderno, sostituendo il concetto di diritto comune a quello

di “legge dello Stato” (produttore/fonte primaria del diritto). Da ciò si fece strada il concetto di Codificazione : L’idea di un codice

costituito da norme prodotte dallo Stato e sistemate in maniera organica e razionale.

2) Ma ciò incontrò non poche resistenze per volontà dei:

- Magistrati (diffidenti nei confronti di qualsiasi tentativo di unificazione giuridica “codificazione”).

- Ceto dei Pratici (avvocati/notai i quali si arricchivano grazie alla complessità del diritto dunque cercarono il più possibile di evitarne una

semplificazione).

- Opinione pubblica (la quale non si espresse mai in forma decisa).

3) Particolarismo Consuetudinario : L’ordinamento compl. si scomponeva in una pluralità di diritti differenti:

- Diritto principesco (inteso come Lex superior e dunque superiore su tutte le altre fonti).

- Diritto particolare-locale (superiore a quello comune secondo il principio che “il diritto particolare prevale su più diritti generali”).

- Diritto comune (diritto feudale e canonico).

*Un esempio di Particolarismo Cons. è rappresentato dallo LEX MERCATORIA : Cioè l’insieme di norme in materia di diritto

commerciale internaz. prodotta dalla prassi commerciale e considerata come normativa autorevole dei rapporti tra privati (In pratica

essa si applica nei contratti tra privati di stati esteri, i quali si pongono in posizione paritaria rinunciando all’applicazione del loro diritto pubblico

interno).

4) Il Particolarismo Cons. avvenne per effetto della:

• Moltiplicazione su base Oggettiva (a livello locale) : Ovvero le fonti di carattere locale (Ius proprium) erano fonte di

integrazione della legislazione statale, laddove quest’ultima fosse incoerente/lacunosa sotto alcuni aspetti.

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4

• Moltiplicazione su base Soggettiva (a livello personale) : Cioè il variare del diritto in relazione allo status sociale del soggetto

(dunque per lo stesso reato, norme diverse applicate a soggetti di condizione sociale diversa).

5) Tra i tentativi di riorganizzare/semplificare il diritto comune troviamo le cd: Leggi delle Citazioni : Provvedimenti che i sovrani di

diversi paesi d’Europa emanarono limitando la facoltà di avvocati/magistrati di avvalersi in giudizio e nelle sentenze delle

opiniones dei dottori del diritto comune (salvo i grandi giuristi come Papiniano, Paolo, Gaio..).

7) L’Antitribonianus.

1) Volumetto scritto/pubblicato a Parigi nel 1603 dall’esponente della scuola culta François Hotman. In esso è contenuta una serie di

accuse demolitrici sia al Corpus iuris civilis (voluto da Giustiniano e realizzato da Triboniano) sia ai metodi interpretativi del

diritto romano adoperati dalla giurisprudenza medievale (soprattutto dai bartolisti).

2) In esso il diritto giustinianeo viene giudicato come un fenomeno meramente storico, inapplicabile alle strutture politiche ed alle

esigenze ormai diverse della presente società francese. Giustiniano e Triboniano vengono accusati di avere arbitrariamente

alterato e confuso l’enorme patrimonio giuridico dell’antica Roma, dando vita (attraverso il Corpus iuris) ad un ammasso di

errori e contraddizioni normative, su cui i giuristi medievali (nella loro stoltezza e barbarie) si sarebbero gettati, considerando le

leggi giustinianee non come scritte da un uomo, bensì cadute dal cielo perseverando così nell’errore.

3) Nell’Antitribonianus, Hotman propone di affidare ad una commissione di giuristi/funzionari statali, il compito di estrapolare dal

diritto romano i principi ancora vivi e validi e sulla base di questi (e delle consuetudini del regno di Francia) dare vita ad un codice

che semplificasse tutto il diritto francese, ponendo fine al caos giurisprudenziale creato nei secoli dagli interpreti del diritto

giustinianeo.

Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.

8) Le Compilazioni (Consolidazioni).

1) Prima ancora delle Codificazioni, in Europa ci furono le Compilazioni : Ovvero grosse compilazioni giuridiche realizzate da

giuristi su delega del sovrano (diverse dalle Codificazioni in quanto le Compilazioni erano incomplete e dunque necessitavano

dell’esistenza del diritto comune/particolare come fonte di integrazione qualora ci fossero delle lacune).

*Codice infatti designa che l’ordinamento normativo da esso realizzato è privo di lacune, dunque fonte di soluzione per ogni caso.

*Le Compilazioni incisero solo parzialmente sul diritto comune, non facendo altro che confermare (cd: Consolidazioni) lo stato

preesistente delle altre fonti.

2) Le Consolidazioni si distinguono:

• Quelle realizzate su iniziativa privata (Consolidazioni-raccolta) : Collezioni di materiale legisl/giurisp realizzate allo scopo di

riordinare/semplificare la pratica di consultazione delle leggi/sentenze.

Italia:

- La raccolta delle sentenze delle corti napoletane.

- Le consolidazioni legislative del Regno di Napoli.

Francia:

- Codice di Enrico III/IV.

- Codice di Marillac.

Germania:

- Codex Augusteus/Austriacus

• Le grandi ordinanze emanate dal re di Francia Luigi 14° : Intento a realizzare l’unificazione del diritto francese con l’aiuto di

Colbert che organizzò i lavori di preparazione/redazione delle ordinanze.

- Ordinanza civile per la riforma della giustizia.

- Ordinanza criminale/commercio/marina.

3) PIEMONTE : Le Costituzioni Piemontesi : Raccolta di leggi organizzata dal re di Sardegna Vittorio Amedeo II, raccolte in 6 libri

(divisi in titoli/paragrafi.. culto cattolico/apparato giudiziario/procedura civile/criminale) in cui si vietava ai giudici/avvocati di ricorrere

alle opinioni dei giuristi del diritto comune.

4) REGNO DI NAPOLI : sotto la guida del re Carlo di Borbone (volto a riorganizzare i tribunali) si assiste ad un totale fallimento del

Codex Legum Napolitanarum : Semplice sintesi del vasto complesso di norme amm/civili/penali/processuali affidato al giurista

Pasquale Cirillo con l’aggiunta di revisori.

5) BAVIERA : Abbiamo i Codex Iuris Bavarici Criminalis/Iudicialis/Civilis seguito poi da un commentario in 5 vol.

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9) ASSOLUTISMO : Ludovico Antonio Muratori.

1) Intorno al 18° secolo la figura del giurista (giudici/avvocati) fu vista come il principale responsabile del disordine del diritto, da

essi usati come strumento di potere e oppressione.

2) Tale atteggiamento antigiurisprudenziale venne accuratamente interpretato da Ludovico Antonio Muratori nel suo Trattato dei

difetti della Giurisprudenza : In cui descrive la situazione giuridica dei suoi tempi prossima alla paralisi dovuta a difetti di tipo:

• Intrinseco (ineliminabili) : consistevano nella poca chiarezza/incompletezza delle norme ad opera di giuristi/magistrati che nel

dare una loro opinione spesso venivano condizionati dalle debolezze dell’animo umano.

• Estrinseco (eliminabili) : in quanto dipendenti dal comportamento dei giuristi, dovuto alla confusa interpretazione dei testi

giustinianei e nell’arbitraria applicazione giudiziale del diritto.

3) Secondo Muratori il compito del Sovrano era quello di nominare una commissione di esperti con il compito di stillare una raccolta

di soluzioni dei casi pratici più complessi raccolti in un Piccolo Codice (ufficiale/obbligatorio). Comunque al trattato di Muratori

rispose Francesco Rampolla con il suo Difesa della Giurisprudenza.

10) Diritto Naturale e Diritto Positivo.

1) Diritto Naturale : Postulava l’esistenza di “regole di giustizia e valori etico-sociali” che avevano il loro fondamento nella natura

dell’uomo. Tali regole in quanto naturali erano razionali/universali contrapposte alla giustizia scritta. Elementi chiave erano:

- Esistenza di diritti sogg innati nell’uomo.

- Esistenza di uno stato di natura, anteriore alla società politica-civile.

Diritto Positivo : Considerava diritto solo quel complesso di norme contenute nella legge ufficialmente emanata dall’autorità, ogni

regola ad essa esterna era considerata priva di ogni valore giuridico. Elementi chiave erano:

- Assoluto primato delle legge su ogni altra fonte normativa.

- Fiducia nella legge, considerata priva di lacune.

2) GIUSNATURALISMO : Cioè quelle dottrine filosofico/giuridiche che affermano l'esistenza di un diritto naturale (cioè di

un insieme di norme di comportamento dedotte dalla "natura" e conoscibili dall'uomo).

UGO GROZIO padre della scuola del diritto naturale, accenna (nel suo De Iure Belli Ac Pacis) al Presupposto Contrattualistico

“Al sorgere di istinti egoistici in vista di un bene in comune, i soggetti passano dallo stato di natura a quello civile affidando ad un

sovrano (mediante patto) il compito di fare rispettare coattivamente la sfera degli interessi di ciascuno di essi”

HOBBES “Il contratto sociale era caratterizzato dal fatto che era stipulato tra i sudditi (e non con il sovrano) i quali gli

trasferivano tutti i loro diritti naturali in cambio dell’assoluta obbedienza/sottomissione per la pace, potendosi ribellare qualora

ciò non avvenisse”. Quindi “un’azione non è criminosa perché malvagia, ma in quanto esiste una norma dello Stato che la vieta e

la punisce”.

LOCKE si contrappone ad Hobbes (il giusnaturalismo assolve una funzione potenziatrice dello stato, cioè nelle mani di un solo

potere), mentre per lui il giusnaturalismo assolve una funzione potenziatrice dell’individuo nei confronti dello Stato.. Cioè :

“i soggetti devono osservare i precetti giuridici solo se provengono da uno Stato che abbia la configurazione istituzionale da essi

voluta; quindi nessun potere è legittimo se non è consentito”.

3) RAZIONALISMO :

PUFENDORF “La legge (naturale/civile) è un comando impartito da un superiore che impone una serie di doveri in modo

imperativo, in quanto accompagnata da una sanzione”.

Asserzione : Ovvero ragione di dimostrare la validità delle leggi naturali come espressione della volontà divina, e di una possibile

corrispondenza tra le norme positive alla razionalità di quelle naturali.

DOMAT nella sua opera Le leggi civili nel ordine naturale distingue:

• Leggi immutabili : le più importanti derivano dal diritto romano, e il legislatore non può intervenire.

• Leggi arbitrarie : nascono dal capriccio del sovrano (stabilisce/abolisce secondo bisogno.. diritto penale/amm).

THOMASIUS allo scopo di separare il diritto dalle altre sfere dell’azione sociale, individua tre categorie:

• Honestum : comprende la sfera morale dell’uomo.

• Decorum : tutti quegli atteggiamenti capaci di assicurare pace fra gli uomini (carità, generosità).

• Iustum : complesso di azioni per assicurare la pace (nessuno deve fare agli altri ciò che non vuole essere fatto a se).

Robert POTHIER (padre del codice civile Napoleonico) dal 1761 pubblica una lunga serie di trattati in materia di diritto privato

(successioni, obbligazioni) riassumendo in sintesi la doppia esperienza di magistrato e di professore, elaborando/sistemando in

modo unitario materiali del diritto consuetudinario francese.

Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.

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L’illuminismo Giuridico.

1) Il Tribunale della ragione.

1) Secondo le parole di Filangieri “La legislazione oggi è oggetto comune di coloro che pensano” intendendo le classi colte

(philosophes) che collocano il diritto fra i temi primari della loro speculazione, e poiché questa cultura si presenta al suo livello più

elevato viene definita Illuminismo Giuridico. Invece secondo Kant “è il sapere aude.. ovvero l’uscita dell’uomo da una minorità”.

Ma in realtà “L’illuminismo (lumières) non si identifica in una corrente dottrinale, ma in un modo di ragionare diverso

dall’ordinario”.

La forza di tutto è l’idea di PROGRESSO, cioè la convinzione che l’umanità possa progredire verso forme sempre più elevate di

civiltà/felicità ma per fare ciò occorre riformare l’intero ordinamento in cui si vive. (Esempio è il cambiamento di concezione che il

potere del sovrano non è più fondato sulla volontà divina ma su delega di un contratto sociale del sovrano ai sudditi per assicurare il bene di

questi).

2) Secondo Cattaneo invece l’illuminismo giuridico (influenzato dal giusnaturalismo) è fondato su 2 dottrine:

• Razionalistico (diritto naturale) : costituito da un complesso di principi universali di giustizia.

• Volontaristico (diritto positivo) : costituito dalla manifestazione di volontà del legislatore statale.

3) Secondo Giovanni Tarello occorre distinguere 2 ambienti giuridici illuministi:

• Area germanica : in cui le teorie di un programma illuminato divengono operative attraverso funzionari di corte che ne hanno la

responsabilità/esperienza amministrativa.

• Illuminismo francese :

4) Intanto a Milano un gruppo di intellettuali (seguaci delle idee dei philosopes francesi) fondano in Via Montenapoleone un salotto di

conversazione (Accademia dei pugni di Pietro/Alessandro Verri). Tra questi troviamo Cesare Beccaria il quale con la sua opera “Dei

delitti e delle pene” attira l’attenzione dei sovrani austriaci che (d’accordo sull’idea di “sottomettere ad un'unica legge l’intero

corpo sociale”) consegnano a Beccaria su richiesta, il severo codice penale la Giuseppina in lingua italiana allo scopo di

correggerlo, cd: ASSOLUTISMO ILLUMINATO.

2) Illuminismo giuridico Francese.

I pilastri dell’Illuminismo francese sono 4 : Montesqieu-Voltaire-Rousseau-Beccaria.

MONTESQUIEU :

1) Autore dell’Esprit de Lois (libro giuridico più letto tra il 700/800) afferma che “Le leggi sono regole che determinano i rapporti fra

tutti gli esseri umani secondo una necessità naturale (istinto di pace) ma, una volta formatasi la società civile/politica, le leggi

naturali vengono poi sostituite da quelle positive” e ancora “Le leggi mutano da popolo in popolo in funzione di fattori ambientali

esterni”.

2) Egli distingue diversi tipi di governo: Repubblicano (in cui il potere appartiene al popolo), Monarchico (deriva dal monarca che governa

secondo leggi fisse limitandone l’azione) e Dispotico (ove il potere è esercitato da una sola persona secondo la sua volontà senza leggi fisse: lui è

tutto, gli altri nulla).

3) Libertà Politica (proprio degli stati moderati (Inghilterra) ove il fine è la libertà integrale del cittadino): è il diritto di compiere qualunque

azione non vietata dalla legge in piena tranquillità sulla base del principio della “Separazione dei Poteri” (legislativo, esecutivo, giudiziario

da parte di organi diversi/competenti esclusivamente nel loro ambito, altrimenti si avrebbe tirrannia).

Secondo Montesquieu :

• L’esecutivo deve essere nelle mani di un monarca in quanto è meglio amministrato da uno che da tanti.

• Il potere giudiziario non deve essere esercitato da magistrati professionisti, ma da persone tratte dal popolo.

• Lo stile delle leggi deve essere conciso/semplice..in quanto le leggi sono fatte per essere comprese anche da gente mediocre.

ROSSEAU :

1) Autore del Contratto Sociale “L’uomo è nato libero, ma in qualsiasi luogo esso si trovi è in catene, cioè infelice vittima della

disuguaglianza in cui il più debole è oppresso dal più forte”, egli cerca di dimostrare quale soluzione contrattuale si sarebbe

dovuta adottare per meglio liberare/eguagliare gli uomini tra loro (cioè una forma di associazione che protegga con la forza comune la

persona/beni di ogni associato).

2) Libertà civile : è lo scopo del contratto di dar vita ad un unico corpo politico in cui non esistono più disuguaglianze tra sudditi e

governanti, in quanto tutti unendosi sono il sovrano espresso attraverso la legge (la quale proviene da tutti ed è diretta a tutti). Dunque

libertà significa obbedire alla legge e se qualcuno non voglia, allora.. sarà costretto da tutto il corpo politico ad essere libero.

• Democrazia Referendaria : una volta che il legislatore ha fatto la legge, essa deve essere sottoposta ai liberi voti del popolo.

• Bisogna fare 3 codici (politico-civile-criminale) chiari/brevi/precisi da essere insegnati in tutte le università/collegi.

CESARE BECCARIA :

1) Nato a Milano nel 1738 da famiglia nobile, a 20 anni si laurea in Giurisprudenza all’università di Pavia ove ne esce con un totale

disgusto per l’attività forense. Sposata Teresa Blasco, nonostante l’opposizione del padre, Beccaria (cacciato di casa e al verde)

inizia a frequentare i salotti dell’Accademia dei Pugni dei fratelli Verri ove, spronato, pubblica un libretto sulla giustizia penale in

Lombardia, cd: Dei delitti e delle pene. Tornato a Milano, dopo aver ricevuto gli elogi dei pontefici parigini, rompe i rapporti con

Pietro Verri il quale sente di essere stato abbandonato da un amico.

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2) La sua vita non è segnata da grandi eventi: divenuto professore di scienza delle finanze e poi funzionario del Supremo Consiglio

d’Europa della Lombardia, morirà tempo dopo a causa di un ictus, una morte senza clamori.

3) “Le leggi sno le condizioni con le quali gli uomini indip/isolati si uniscono in società stanchi di vivere in continuo stato di guerra”.

Ne sono i corollari:

• La somma di tutte le singole porzioni di libertà sacrificate ha dato origine al “deposito della salute pubblica” retto da un

sovrano.

• La sicurezza pubblica deve essere difesa dal sovrano, dal pericolo di aggressione di individui privati.

• I delitti commessi sono punibili con le pene (cd: motivi sensibili, cioè il male di cui l’uomo ha timore) solo però se atti nocivi e

strettamente necessario per la difesa sociale.

4) Il fine della pena è “impedire al reo di far nuovi danni ai suoi cittadini e rimuovere l’idea degli altri dal farne uguali”, quindi il reo

deve essere punito non per ciò che ha commesso (passato) ma perché non ricada nel crimine (futuro).

5) La codificazione è indispensabile per la certezza del diritto (fondamentale per la libertà). Dunque la pena è giusta/utile in quanto i

cittadini possono calcolare esattamente (in anticipo) gli svantaggi che derivano dal delitto.

6) Teoria della prevenzione indiretta : E’ meglio prevenire i delitti che punirli, cn leggi chiare/semplici tale che gli uomini le temano.

*Un altro mezzo è quello di ricompensare la virtù con un diritto premiale/perfezionando l’educazione.

Teoria della giurisprudenza meccanica : Separazione del potere legislativo da quello giudiziario, cioè: la Lex fissa le leggi, e i

giudici hanno compito di esaminare se l’uomo le ha violate o meno.

7) La Pena di Morte:

• Argomento Contrattualistico : La pena di morte è illegittima perché non ha fondamento nel contratto sociale. (“Come mai nel

minimo sacrificio della libertà di ciascuno vi può essere quello del massimo di tutti beni della vita?”).

• Argomento Utilitaristico : La pena di morte non né utile né necessaria. (poiché non è l’intensità della pena che ha effetto, ma

l’estensione di essa (dunque il carcere a vita).

• Argomento Morale : La pena di morte viola la sacralità della vita umana. (è assurdo che “le leggi che puniscano l’omicidio ne

commettono uno loro + per allontanare i cittadini dall’assassinio, loro stessi ordinano un pubblico assassinio”).

8) Il Processo Penale:

• “Un uomo si può definire innocente solo dopo essere stato chiamato reo + non può chiamarsi reo prima della sentenza del

giudice”.

• Nel rito processuale (inquisitorio,scritto,segreto):

- non vi era alcuna comunicazione dei capi d’accusa all’imputato.

- non vi era nessun contraddittorio in fase istruttoria.

- la presunzione di base è che questi era colpevole.

- si ammette l’intervento del difensore solo in tempi strettissimi.

• In mancanza di prove piene per la condanna, l’inquirente cercava di acquisire le “semiprove” (indizi/presunzioni/) che se

incastrate le une con le altre fornivano una prova piena per la pena, in quanto: “ciò che importa è punire, e salvare l’immagine

della Giustizia”.

Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.

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Paesi di Diritto scritto-consuetudinario e la Redazione delle Consuetudini.

1) Nel V secolo d.C. la Gallia fu considerata la più romana delle province, in qnto i Visigoti si insediarono nella parte sudoccidentale della Francia (dando vita alla Lex romana Wisigothorum), mentre la parte sud-orientale fu occupata dai Burgundi (Lex

romana Burgundionum), poi con l’invasione dei Franchi che cacciarono entrambi i popoli, si formò un unico regno germanico in cui

il diritto romano rimase in vigore come Legge personale delle popolazioni occupate secondo il principio della “personalità del

diritto”.

2) A seguito di ciò si gettarono le basi del cd: Particolarismo Consuetudinario : In mancanza di un diritto comune, si svilupparono

varie consuetudini locali osservate da tutta la popolazione a seconda della influenza subita dal diritto romano o germanico. Da ciò si

distinsero :

• Paesi di diritto scritto : (meridionale) dovuto al diritto romano.

• Paesi di diritto consuetudinario : (settentrionale) diritto germanico.

3) Il processo di evoluzione più importante per la formazione di un Diritto Comune Consuetudinario (diritto francese) è costituito

dalla Redazione delle Consuetudini : Il re Carlo VII emanò un ordinanza con cui dispose che ogni territorio procedesse alla

trasposizione in forma scritta delle consuetudini locali (furono costituite 60 consuetudini generali e 300 particolari) che rimasero in

vigore fino alla promulgazione del codice napoleonico.

*Il promotore fu Charles Dumoulin con il suo Coutume di Parigi (Consuetudine di Parigi) vero punto di riferimento per i giuristi

francesi.

Il Diritto comune in.. Spagna!

1) Il diritto comune (giustinianeo+canonico) iniziò a diffondersi nella penisola Iberica ad opera degli ex-studenti delle Università

italiane e francesi che assunsero posti chiave nell’amministrazione pubblica e apparato giudiziario.

2) Nella Castiglia si ebbe ad opera di Alfonso X la Legge delle 7 parti : Redazione in lingua castigliana di un complesso corpo di

norme (giustiziane+canoniche+opinioni dottriniane). Mentre il suo successore promulgò l’Ordinamento di Alcola : in cui fu fissato

l’ordine gerarchico delle fonti normative vigenti nel regno, cioè:

1° Diritto regio.

2° Diritto dei fueros (raccolte scritte delle consuetudini di ogni singola regione).

3° Legge delle 7 parti.

Il Diritto comune in.. Olanda e Belgio!

1) Nei PAESI BASSI la dominazione romana fu quasi inesistente. Qui la giustizia veniva amministrata da antichi tribunali

(scabinali) composti da 12 membri (scabini) che assistevano il signore feudale nel processo, formulando la sentenza sulla base di

principi di equità.

Poi si ebbero dei mutamenti:

• In molte città furono costituiti tribunali vescovili che introdussero principi del diritto romano.

• Molti laureati fecero ritorno in patria divenendo dei professionisti del diritto, sostituendo i vecchi scabini.

2) In BELGIO si procedette alla raccolta scritta delle consuetudini locali che nella forma/terminologia richiamavano al diritto

comune (quale suppletivo in caso di lacuna del testo consuetudinario).

3) In OLANDA l’ordine di procedere alla raccolta scritta fallì miseramente a seguito della proclamazione dell’Unione di Utrecht che

portò alla dispersione delle consuetudini locali, e il fiorire dello Ius Comune come unico diritto universale necessario alle esigenze di

una nazione che traeva le sue ricchezze dal commercio marittimo internazionale!

Il Diritto Comune in.. Germania!

1) Pur essendo la culla del Sacro Romano Impero, la Germania vide persa ogni possibilità di sviluppo di un diritto tedesco unitario a

seguito dello sgretolamento del territorio in più di 300 ordinamenti territoriali ognuno retto da proprie consuetudini locali. Poi si

assistette alla cd: Prerecezione del Diritto Comune : Cioè il clero portò la tradizione del Corpus Iuris attraverso 2 vie principali:

• Processo Canonico : fondato sul sistema probatorio (onere della prova) e regolato solo da atti scritti.

• Prassi Notarile : erano le curie ecclesiastiche a redigere i documenti secondo formule/schemi romanistici.

2) Un importante contributo lo diedero anche gli studenti delle Università italiane (doctores) che tornati in patria tedesca occuparono

posti di prestigio nella pubblica amministrazione, spesso richiesti anche da vari principi tedeschi per organizzare i propri Stati (cd:

Recezione Pratica).

*Tale recezione culminò con la costituzione del Supremo Tribunale Camerale che doveva giudicare secondo il diritto comune

Imperiale (o secondo i diritti locali tedeschi se essi erano invocati dalle parti).

*L’instaurarsi dello Ius Comune fu osteggiato (non dalla gran parte della società tedesca come creduto) dai contadini, i quali persero

gran parte dei loro privilegi che le antiche consuetudini garantivano loro.

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3) Recezione Teorica : L’insieme delle dottrine che individuarono nel diritto romano la sola fonte della volontà dell’imperatore

germanico.

Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.

Origini e svolgimento della Common Law.

1) Il diritto inglese (come il diritto comune) si è diffuso in una vastissima area della terra (i paesi del Common law) ed

entrambi si ricollegano al diritto romano (Civil Law = diritto scritto).

2) DIFFERENZE:

• Lo Ius Comune si sviluppò con l’accoglimento del codice giustinianeo come diritto vigente (la Common Law si

sviluppò in opposizione ad esso).

• Lo Ius Comune si sviluppò con l’attività di giuristi preparati con il compito di agevolare i magistrati (la Common

Law si sviluppò come diritto dei giudici delle Corti londinesi).

• Il Diritto comune entrò in crisi di certezza/credibilità, conclusasi nella codificazione (la Common Law rimase

estranea alla codificazione).

3) Common Law : Sistema giuridico Anglo-Americano proprio dell’Inghilterra e di tutti quei paesi del mondo ove essa

lo ha diffuso.

Civil Law : Insieme degli ordinamenti giuridici nel mondo che rinvengono il loro fondamento nella tradizione del

diritto romano e legge scritta.

Equity : Diritto applicato dalla Corte di Cancelleria con rimedi process meno rigorosi di qlli della Common Law.

4) Le 3 Corti londinesi attraverso il quale si sviluppò la Common Law furono :

• Corte delle Udienze comuni : riguardante le controversie comuni tra i privati.

• Bancum Regis : competente per le cause più importanti (civili e penali).

• Curia Regis : il tribunale più prestigioso, con compiti politici/direzione dello Stato/attività giudiziarie.

5) Conflitto tra Common Law ed Equity.

Corte di Cancelleria : Maggior ufficio della Corte inglese! si sostituì alla Curia Regis decidendo direttamente delle

questioni dei sudditi attraverso il Cancelliere (primo funzionario del regno) che agiva/decideva in nome del re.

• Il Cancelliere era un religioso e dnq confessore del re.

• Il Cancelliere ed i componenti del suo tribunale erano ecclesiastici, la procedura seguita dalla Cancelleria

(inquisitoria/scritta/segreta) si basava sul diritto canonico.. mentre il processo del Common Law (orale/pubblico) si

svolgeva dinnanzi ad una giuria!

• Tale fu la potenza del tribunale di Cancelleria, che si creò un conflitto con le tre Corti di Common Law le quali

chiedevano che si ponesse fine alle interferenze della Cancelleria nella loro giurisdizione.

6) Le prime conoscenze del diritto romano furono introdotte in Inghilterra dai Normanni.

• Nel 1139 giunse sull’isola Vacario (noto glossatore civilista) che fondò ad Oxford un centro di studi del diritto

romano/canonico + pubblicò un compendio del Codice/Digesto “Liber Pauperum”.

• Tale fu il successo della sua opera/scuola che il re Stefano I fece chiudere la scuola romanistica e a tale docente fu

proibito di insegnare.

7) In Inghilterra lo Ius Comune non penetrò efficacemente in quanto l’opera di costituzione dell’apparato giudiziario

(che portò alla nascita del Common Law) iniziò giusto qualche decennio prima.

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La Codificazione del Diritto Penale.

1) La Constitutio Criminalis Theresiana (1771).

1) Nel 1771 la grande sovrana Maria Teresa seppellisce il progetto di codice civile per promulgare una ricompilazione del diritto

penale/processuale penale sotto la guida del giurista Holger (cd: La Constitutio Criminalis Theresiana).

2) Essa si divide in 2 parti: Processuale (del procedimento criminale) e Sostanziale (dei delitti criminali).

Autentica macchina di morte, la Theresiana distingue le pene capitali “benigne” (decapitazione/forca) da quelle “severe”

(rogo/squartamento) mentre invece il criminale meno pericoloso può cavarsela con (troncamento di un membro/frustate/carcere/lavori

forzati/marchio a fuoco).. Il tutto arricchito da un catalogo illustrato delle varie torture!

3) Tale fu la durezza del Codice che il beccarino Sonnenfels pubblicò uno scritto “Sull’abolizione della tortura” che riscosse

l’approvazione di Maria Teresa (che diminuì drasticamente la pena di morte) e del suo futuro imperatore Giuseppe II.

2) La Giuseppina (Giuseppe II 1787).

1) Successore di Maria Teresa, Giuseppe II apportò numerevoli riforme legislative alla codificazione penale (divenuto poi famoso sotto

il nome di Giuseppina) e definito poi dal Tarello “Il primo codice penale veramente moderno”.

2) Esso si basava sui criteri di Tassatività/Tipicità/Determinatezza (legalità/completezza) :

• Nullum Crimen, nulla Poena Sine lege : ovvero è reato solo quel fatto previsto espressamente dalla legge.

• Unicità del soggetto Reo : le pene vengono applicate a tutti i soggetti, indistintamente dal loro ceto sociale.

• Principio della Colpevolezza : il crimine non può essere punito se non è commesso con Dolo (omiss/commiss), quindi si

escludono i reati colposi se non come contravvenzioni (sono cause di esclusione dell’imputabilità: errore/forza magg).

3) Addio Arbitrium Iudicis, ora il giudice deve attenersi a quanto disposto dalla legge, potendo mitigare la pena sulla base di 3 livelli.

• Prigionia/ Prigionia con lavoro pubblico (Temporanea/Lunga/Lunghissima).

• Prigionia con catene (solo Lunghissima ).

4) Essa si suddivide in :

a) Parte Generale : introduzione di 2 capitoli di contenuto generale/definitorio dei delitti-pene.

b) Parte Speciale :

• Dei delitti/pene Criminali : secondo la “natura Ontologica” sono quelle che violano l’immutabile diritto naturale (cioè atti che

ledono dolosamente la persona del sovrano/la sicurezza int-est dello Stato/la vita/la proprietà..).

• Dei delitti/pene Politiche (contravvenzioni) : Offese alla buon costume/trasgressioni d’ordine pubblico/pubblica sicurezza..

5) Se da un lato esso abolisce la pena di morte, dall’altro introduce sanzioni molto più lunghe e sofferenti (perseguire un defunto con

cartelli appesi infamandone il nome, incatenazione fino a 100 anni ove il reo è castigato ogni giorno con bastonate e portare attorno al torace un

cerchio di ferro da renderne penosa la respirazione, e se a questo venga aggiunto il lavoro forzato esso consisterà nel traino controcorrente delle

imbarcazioni sul Danubio).

3) La Leopoldina (119 articoli, Pietro Leopoldo 1786 ).

1) A Vienna la sovrana Maria Teresa allevò un altro cavallo di razza: Pietro Leopoldo. Tornato in Italia (Toscana) e divenuto

Granduca a soli 18 anni, egli intende seguire le orme degli “altri di Vienna” riformando totalmente il codice penale/processuale

penale toscano con la formula “Tutto per il popolo, nulla con il popolo”.

Aiutato da Cercignani/Tosi/Caciotti/Giusti (assieme a dossier sul tasso di criminalità + mezzi di repressione in uso) nel 1786 Leopoldo

riforma la legislazione criminale toscana (la Leopoldina).

2) Esso è estremamente semplice/breve (119 articoli) divisi in 2 codici (fase del processo – applicazione della pena) in cui le norme non sono

lineari e schematizzate bensì lunghe/filosofiche/descrittive.

3) A differenza del precedente codice, qui il giudice esercita un esteso potere arbitrario nell’irrogare le pene (“..rimesso in gran parte

all’arbitrio del giudice”) purché ne spieghi le ragioni motivate. In più giudice potrà ricorrere al vecchia legislazione penale toscana in

caso di lacune del nuovo diritto.

4) Il PROCESSO.

• Esso ha carattere inquisitorio/scritto/segreto per poi dopo, comunicare tutti gli atti istruttori all’imputato il quale avrà diritto di

essere assistito da un avvocato.

• Al contumace condannato, vi è la possibilità della riapertura del processo.

• Viene abolita l’imposizione del giuramento/tortura da parte del giudice (in assenza di prove) al fine di ottenere la confessione.

5) LE PENE.

• Viene abolita la pena di morte (sost con la perenne pena ai lavori pubblici).

• Abolizione delle pene mutilanti (sost con pene pecuniarie/frusta pubblica/esilio).

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6) I REATI.

• La rivoluzione è avvenuta con l’abolizione del delitto di lesa maestà, ora punito come delitto ordinario nella rispettiva classe.

• Così come i delitti contro la religione (assimilabili a delitti di lesa maestà) sono puniti con lavori pubblici a tempo/vita.

Il Codice Napoleonico.

(3 libri, 2281 articoli, 21 marzo 1804)

1) Nell’Agosto del 1800 Napoleone Bonaparte incarica una commissione di 4 persone: Meleville-Bigot-Portalis (commissario al

consiglio delle Prede) -Tronchet (presidente dell’Ordine degli avvocati di Parigi) di redigere il Codice Civile.

Ultimato un anno dopo, solo il 21 marzo 1804 il Codice Civile (Cod.Napoleonico) entra in vigore!

2) Il suo processo di formazione prevedeva:

• Discussione del testo presso il Consiglio di Stato (sotto al direzione dei consoli).

• Passaggio al Tribunato (composto da 100 membri che si limitano a discuterlo/esprimere un parere).

• Infine il Corpo Legislativo (300 membri che lo approvano/respingono).

*A partire dal seguente Codice, il diritto romano-ordinanze-statuti-regolamenti cessano di avere eff nelle materie che cost oggetto di questo codice.

3) Il Discorso preliminare di Portalis al Code Civil.

a) Giurista francese, è stato uno dei protagonisti della redazione della grande codificazione voluta da Napoleone. Egli cerca di

ricucire le ferite provocate dalla Rivoluzione tentando di conciliare il vecchio/nuovo ordinamento, affermando che: “Napoleone

ha portato la pace così come il codice garantirà la pace/benessere della Francia”.

b) Se prima in assoluto rifiutava la codificazione “è assurdo superare i legislatori/filosofi della Grecia del passato”, ora invece

dice Si al codice ma a condizione di non censurare il diritto romano. Il codice civile si può realizzare solo se esso venga

concepito come uno “strumento aperto dotato di organi respiratori” (diritto naturale/consuetudine) a cui si ricorre solo in caso di

lacune (inevitabili) in quanto “Le leggi rimangono statiche, mentre gli uomini non si fermano mai”.

c) Secondo lui il legislatore è grande in quanto “Non deve perdere di vista le leggi che sono fatte per gli uomini (non gli uomini per le

leggi) e che devono essere adattate al carattere/abitudini del popolo per le quali sono fatte”.

4) Si divide in 3 libri:

• PRIMO LIBRO : MATRIMONIO-Adozione-Tutela (es: i figli naturali “batards” non sono eredi + non hanno diritti rispetto a

quelli legittimi.. il divorzio può essere chiesto solo tra i 2-20 anni di matrimonio e deve essere manifestato 4 volte durante

l’anno + si possono risposare solo dopo 3 anni.. La moglie è proprietà/sottomessa al marito il quale amministra tutti i beni, può

invocare l’adulterio della moglie mentre costei solo se il marito porta la concubina in casa).

• SECONDO LIBRO : PROPRIETA’(544)-Usufrutto-Uso-Abitazione-Servitù (es: il privato può godere/disporre dei suoi beni

nella maniera più assoluta, purché non ne faccia un uso proibito dalle leggi/regolamenti (tranne che nell’espropriazione per pubblica

utilità) la proprietà è l’elemento cost dell’essere umano in quanto è l’anima universale di tutta la legislazione, essa non si ritrova

nel diritto naturale, ma nasce dal lavoro dell’individuo in seno alla società civile organizzata, che è concepita dalla legge).

• TERZO LIBRO : CONTRATTO(1134)-Successioni-Donazioni-Testamento-Obbligazioni (es: con il contratto le parti sono

obbligate per legge ad esso/tutti i suoi effetti - è la loro volontà, non la forza della legge che dà forza vincolante al contratto).

Principio del consenso traslativo : la proprietà può essere trasferita per effetto del solo consenso delle parti legittimamente manifestato.

Translatio Dominii : cioè il contratto è suff a trasferire la proprietà, dunque la vendita è perfetta anche se la cosa non sia stata ancora

consegnata/prezzo non ancora pagato.

Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.

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Code Criminel.

(4 libri, 5 disp preliminari 484 articoli, 1 gennaio 1811)

1) Corre l’anno 1810 (a seguito dei crimini/briganti/vetture assaltate ogni giorno) il Governo incarica una commissione di giuristi (tra cui

Target) con il compito di redigere un codice criminale tanto severo da intimorire la criminalità (es: introduzione della legge del

taglione, marchio a fuoco, il boia, ergastolo.. il tutto assistito dal popolo e i cadaveri venivano sepolti nel luogo più vicino a quello

dove si era consumato il reato con tanto di cartello scritto).

2) Esso si compone di 4 libri (preceduto da 5 disp preliminari di 484 articoli) ed il 1 gennaio 1811 entra in vigore.

3) Le sanzioni vengono distinte a seconda che il reato commesso sia:

Crimine (morte, deportazione,lavori forzati a vita+marchio/confisca dei beni).

Delitti (prigione 6gg-5 anni, ammenda, sorveglianza della polizia).

Contravvenzioni (prigione 1gg-5gg, ammenda , confisca).

*Al colpevole verrà tagliata la mano destra prima di essere decapitato, verrà condotto nel luogo dell’esecuzione in camicia, piedi nudi e col capo

coperto da un velo nero.

4) Successivamente fu presentato il Codice di Procedura Penale (16 dicembre 1808) che, giunto al Consiglio di Stato, prevedeva

l’introduzione della giuria (più volte osteggiato da Napoleone, e i cui componenti saranno estratti a sorte da una lista di cittadini compilata dal

prefetto, mentre le funzioni svolte prima dal jury d’accusa vengono sostituite da una Chambre de Conseil istituita presso ciascuna corte d’appello e

composta da 3 magistrati togati).

5) Fase istruttoria:

• E’condotta dal giudice istruttore che può interrogare l’imputato/testimoni, mantenendo segreto i fatti di cui è accusato.

• Successivamente si passa alla verbalizzazione delle interrogazioni (principio della scrittura).

• Vi è l’assenza del difensore, il quale è previsto solo nella fase successiva.

Fase Dibattimento:

• L’udienza è orale/pubblica e condotta dal presidente della corte.

• In questa fase l’imputato può beneficiare di un suo difensore.

• Infine i 12 giurati decidono a maggioranza sulla sentenza (principio del libero convincimento).

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Codice di Procedura Civile.

(1042 articoli, 1 gennaio 1807)

1) Fra tutti i codici di Napoleone, quello di procedura civile è il testo più scarno/ridotto.

2) Se PRIMA il sistema del processo era molto ridotto (solo 2 gradi di giudizio, creazioni di giudici di pace, ci fu l’arbitrato come

mezzo ragionevole per porre fine alle liti, obbligo pubblicità/motivazione della sentenza, istituzione del tribunale di Cassazione)…

ADESSO i costituenti decisero di semplificare/velocizzare il processo ulteriormente (le parti si difendevano da sole + obbligo del

giudice di deliberare/opinare ad alta voce sulla base di un semplice atto contenente una breve indicazione dell’oggetto/motivi della

domanda/giorno/ora del processo, il tutto della durata 1 mese)..fu un totale fallimento.

3) Success il docente/avvocato Pigeau (+ altri 3 magistrati) provvede all’edificazione del codice processuale. Discusso in Consiglio di

Stato viene poi diviso in 6 leggi e in 2 parti : disciplina la procedura innanzi ai tribunali(5libri) + procedimenti speciali(3libri).

4) Esso prevede 3 tipi di procedimento:

1) Proc innanzi ai Giudici di pace: Per le materie che non sono di loro competenza, i giudici hanno l’obbligo di conciliare le

parti/farli giudicare da arbitri/o rimetterli al tribunale civile.

2) Proc innanzi ai Giudici di 1°grado : Improntato sul principio della scrittura o (in assenza di prove) del dibattimento orale. Le

parti possono munirsi di un avvocato o di difendersi da soli (a discrezione del giudice). Le udienze sono pubbliche.

3) Procedimenti speciali : Si accenna solo che in materia di separazione/divorzio si mantiene il tentativo di conciliazione.

Codice del Commercio

(Gorneau, maggio 1807)

1) Il diritto commerciale venne concepito per la prima volta in Senso Oggettivo (favorire il commercio) e non in senso soggettivo

(tutelare i commercianti).

2) Sulla base delle critiche ottenute dalle Corti di giustizia/Tribunali/Consiglio di commercio (+ dopo la discussione del Consiglio di

Stato) fu pubblicata una seconda versione del “Progetto Gorneau” (Consigliere della Corte d’Appello) con numerose soluzioni

legislative:

• Fallimento: il commerciante fallito perdeva la gestione del suo patrimonio + arresto immediato (salva la possibilità di essere poi

rilasciato in caso di errore).

• Cambiale (lettre de change): i Tribunali arrestavano il debitore inadempiente (solo però commercianti).

• Diritto Marittimo:

- Assicurazioni marittime (danni incendio/assicurazione sulla vita).

- Società commerciali (autorizzazione del Governo per la loro costituzione).

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La Rivoluzione Francese del 1789.

1) La rivoluzione francese è un insieme di eventi/cambiamenti intercorsi tra il 1789 e il 1799 (tra cui l'abolizione della monarchia

assoluta e la proclamazione della repubblica). L’idea alla base è quella di “costruire un uomo nuovo/felice perché restituito alla

natura, reintegrato dalla legge nei suoi diritti naturali (libertà, uguaglianza, proprietà) ed educato infine dallo Stato legislatore ad

esercitare questi diritti come cittadino virtuoso”. Dunque essa segnò la fine dell'assolutismo e diede inizio ad un nuovo regime in cui

la borghesia (le masse popolari) che si convertirono nella forza politica dominante del paese.

2) Nel 1700 la Francia era il paese più popolato di Europa con quasi 28 milioni di persone (tra la campagna e la città). Già da tempo dal

punto di vista economico Francia era in crisi (il pane era il cibo principale per la maggior parte della popolazione) e gli sprechi della

Reggia Di Versailles erano pagati con le tasse dei poveri a cui si sommavano anche le spese per la guerra contro l’Inghilterra.

3) Con lo scopo di trovare un modo per superare tale crisi, viene convocata l'Assemblea Degli Stati Generali a Versailles il 05 Maggio

1789 (il clero - la nobiltà guerriera - il "Terzo Stato" che indicherebbe i lavoratori) in cui il concetto fondamentale era il “desiderio di

libertà” ma al Terzo Stato non era permesso di partecipare, quindi i rappresentanti si riuniscono tra di loro in Assemblea Nazionale e

decidono di far scattare una rivoluzione con lo scopo di dare alla Francia una nuova costituzione.

4) L'inizio della rivoluzione francese si ha il 14 Luglio 1789 con l'assalto alla fortezza Bastiglia (per procurarsi armi e munizioni) la

quale viene smontata pietra dopo pietra essendo così cancellata definitivamente dalla storia. Successivamente si proclama la libertà di

culto/stampa con la conseguente redazione della “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino” (1789).

5) Non accettando le restrizioni imposte dalla rivoluzione, Luigi XVI firma lui stesso la dichiarazione di guerra contro l’Austria

sperando che la Francia (e con essa i suoi rivoluzionari) perdesse. Accusato-processato-giudicato da un tribunale rivoluzionario,

uccidendo il re i rivoluzionari francesi si troverebbero a lottare contro tutte le altre potenze europee perciò per prendere questa

difficile e delicata decisione di una eventuale uccisione del re si vota (360 persone votano per risparmiare la vita al re e 361 persone

votano per la sua morte), e per un solo voto di differenza Luigi XVI è condannato alla ghigliottina il 21 gennaio 1793 (più tardi,

anche la regina Maria Antonietta viene giudicata e condannata a morte con richiesta che la sua decapitazione avvenga nella Piazza

Della Rivoluzione).

6) La psicosi del tradimento portò ad accusare tantissime persone (il tribunale rivoluzionario escludeva dal suo metodo la presunzione

di innocenza fino a prova contraria) tale che circa 20.000 persone vennero decapitate (tra cui Georges Danton, considerato uno dei

"padri" della rivoluzione francese, e il leader giacobino Robespierre). Pian piano la rivoluzione francese inizia a spegnersi e ad

emergere la figura di Napoleone Bonaparte.

Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.

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ADRIANO CAVANNA

Volume secondo

PARTE PRIMA: DALLA NASCITA AL TRAMONTO DEL DIRITTO

COMUNE

Storia dell’Europa e del diritto: uno sguardo al cammino percorso

CHE COS’E’ L’EUROPA?

Definire cosa sia l’Europa non è una cosa semplice, e richiede una certa riflessione.

L’odierna “Europa”, infatti, non è un a priori etnico-geografico: non esistevano, cioè, fattori di

lingua o di razza, o fattori geografici (come mari, monti e fiumi) in grado di determinare la sua

attuale configurazione territoriale.

Nel mondo antico, dunque, l’europa poteva essere diversa da quella che è oggi perché la geografia

offriva altre possibilità: la cultura romana, ad esempio, la identificava come una identità geografica

incentrata sul mediterraneo, confinane a nord con i fiumi della Germania e a sud con i deserti

dell’Africa.

Ma se l’Europa odierna non è il risultato della etnografia o della geografia, essa è tuttavia un

risultato della storia, e cioè un risultato della volontà e dell’agire umano, nonché dell’intelligenza e

del pensiero dell’uomo: l’Europa è, cioè, un libero prodotto della cultura, un fenomeno culturale.

E’ infatti proprio una certa cultura, la cultura altomedievale (8° e 9° secolo), ad aver disegnato

l’europa come è oggi: quando romanità e germanesimo, cioè, si fondono in un’unica civiltà,

amalgamandosi nell’ambito della spiritualità cristiana.

Se facciamo un passo indietro, infatti, lo scenario che ci troviamo di fronte è quello di un occidente

invaso dai barbari, in cui la società dei latini è regredita a livelli elementari di vita organizzata. Su di

essa incombe la nuova classe dirigente barbarica: una rozza aristocrazia militare, che disprezza le

istituzioni e i valori della romanità, perché questi valori non sono compatibili con la cultura della

forza di cui i barbari sono portatori. Privi del tutto del senso dello stato, possiamo tranquillamente

asserire, dunque, che i barbari avevano distrutto l’orbis romanus, il regno del diritto.

In questo quadro desolato, l’unica ad essere rimasta depositaria del sapere dell’antichità è la chiesa,

semimbarbarita anch’essa (in quanto la sua cultura si riduce poco più che ad un rude latino), ma con

l’incrollabile convinzione che quella tradizione culturale debba essere conservata.

Ha inizio, dunque, l’impresa disperata della conversione dei barbari, una conversione che è

simultaneamente romanizzazione: vangelo e diritto romano, cioè, penetrano insieme nel mondo

barbarico, perché il cristianesimo trova il suo senso profondo nell’uomo, e perché il diritto è la più

alta manifestazione terrena della spiritualità e della razionalità umana.

E’, dunque, attraverso questa combinazione di umanesimo e diritto che la nuova fede viene a poco a

poco accolta dai popoli germanici, e in questa nuova fede, comune a vinti e vincitori, a latini e

germani, avviene l’incontro tra due civiltà diverse e antagoniste: nasce, così, una cultura che non è

più né romana né germanica, ma romanica (e cristiana).

Il nucleo primitivo del concetto di Europa, invece, si forma nell’età carolingia, nel momento in

cui una respublica christiana si contrappone in blocco al mondo islamico: Carlo Magno, imperatore

barbaro divenuto defensor ecclesiae, viene incoronato a Roma nella notte di Natale dell’800. Sotto

la sua autorità, popoli differenti per lingua, per razza, per tradizioni, si ritrovano accomunati dalla

stessa fede religiosa, ed organizzati in un unitario ordinamento istituzionale.

Dunque Carlo Magno, che la chiesa ha scelto come difensore della cristianità, viene esaltato dalla

letteratura e dagli intellettuali del tempo come “padre dell’europa “: il suo impero è sacro e voluto

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da Dio (e consapevolmente opposto all’islam), e l’appartenenza a questo impero è la sola

cittadinanza che l’uomo dell’occidente senta veramente: nella gerarchia delle sue partecipazioni,

cioè, egli si sente prima un cristiano, poi, per esempio, un italico. Questo stato d’animo, dunque,

conta di gran lunga di più dei vari nazionalismi, peraltro informi.

Tuttavia, a fronte al bilancio politico deludente dell’impero carolingio, sgretolatosi in pochi

decenni, si è giunti a parlare di aborto dell’Europa: quel che dobbiamo ricercare nel periodo

carolingio, però, non è un ordinamento europeo realizzato materialmente, ma la presenza di alcune

caratteristiche fondative del pensiero occidentale: il senso del diritto, l’umanesimo cristiano, il

senso di civiltà universalistica (cioè di una civiltà unitaria ed insieme pluralistica), connoteranno per

sempre la nazionalità europea. Gli europei, infatti, non dimenticheranno più che le loro radici

affondano in quel nucleo romanico-cristiano di partenza.

Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.

IL RINASCIMENTO GIURIDICO DELL’EUROPA MEDIEVALE

Tra le aspirazioni non realizzate nell’ambito dell’impero carolingio, ci fu anche quella dell’unità

del diritto: un solo diritto per tutta la cristianità, un solo diritto che si sostituisse alla molteplicità di

leggi nazionali. Unica la fede, unico il regime politico, unico il diritto. La grandezza dell’età

carolingia, cioè, sta proprio nell’aver sentito il problema del rapporto tra il diritto e lo spirito di una

società accomunata da determinati valori.

Eppure, c’era un diritto già pronto da secoli per fungere da legge comune: un diritto capace di

reggere, secondo principi universali e senza connotati di nazionalità, i popoli più disparati: il corpus

iuris iustinianei (6° sec.), che aveva come scopo quello di tramandare al mondo moderno la

sapienza giuridica antica del diritto romano.

• Ma anche se questo diritto, (che racchiudeva le regole fondamentali della convivenza civile,

del governo dello stato, e del senso di giustizia) era pronto, non era altrettanto pronta ad utilizzarlo

la semplificata società altomedievale, per cui quelle norme erano troppo raffinate e quegli istituti

troppo complessi. Senza possibilità di essere capito, dunque, il corpus iuris giustinianeo, era

destinato a rimanere un immenso capitale della giustizia immobilizzato, perché mitizzato dalla

fantasia altomedievale quale frutto di una lontana età dell’oro del diritto.

Il diritto al quale i barbari a poco a poco si accostarono, fondendosi così alle popolazioni latine,

dunque, non fu quello della compilazione giustinianea, ma quello pregiustinianeo, che essi

conobbero sotto la veste deformata e facilitata di diritto romano volgare.

• Momento di risveglio si ha a Bologna nel 1088, tanto che gli storici del diritto, per descriverlo,

parlano di “rinascimento giuridico”. Nella Bologna della fine dell’undicesimo secolo, infatti, il

corpus iuris ritorna in circolazione. La società di fronte alla quale ci troviamo, è una società

animata da un risveglio intellettuale, politico ed economico, è una società comunale, che nasce

dalle macerie del mondo feudale, e che presto risolleva il rapporto tra diritto e valori. E’ una

società che pensa in grande ed agisce in grande, e che disseppellisce e comprende, finalmente, la

Bibbia del diritto, il libro della giustizia: il corpus iuris di giustiniano.

Il merito di questa grande impennata, di questa grande scoperta, è di IRNERIO, maestro di arti

liberali, dedito ad alfabetizzare in qualche scuola del tempo. Anche se dobbiamo dire che dietro

quest’uomo c’è sicuramente il lavoro preparatorio di un paio di generazioni, la leggenda si è

impadronita di Irnerio, concentrando nella sua persona il grande evento della nascita del diritto

comune in europa e creando il buio alle sue spalle.

Quando Irnerio muore, intorno al 1130, il grande movimento scientifico che si concentra sul

corpus iuris, appare inarrestabilmente avviato: è nata la scuola italiana dei glossatori, che

compie senza sosta in lavoro esegetico, cioè interpretativo, intorno al monumentale testo

romano. Irnerio lascia quattro discepoli celeberrimi, che l’Imperatore Federico I chiamerà a

consulto come supremi sacerdoti del diritto. Questi quattro doctores, a loro volta, generano

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altri discepoli. Le tecniche interpretative si affinano, il ragionamento giuridico e gli orizzonti

dottrinali si ampliano, la padronanza del testo diventa sbalorditiva:

questo 12° secolo, insomma, oltre ad essere l’età degli esploratori della compilazione

giustinianea, è anche il più giuridico dei secoli.

Ciò che è importante sottolineare, è il fatto che i glossatori si accostano al testo giustinianeo

con estrema riverenza: ne hanno un culto fideistico, lo stesso tipo di culto che i padri della

chiesa sentono di fronte alla Bibbia. Essi sono certi del fatto che il legislatore romano abbia

promulgato questo testo per volontà e per ispirazione di Dio, e dunque lo vivono come un

esempio eterno, come una rivelazione giuridica, come IL diritto, che in virtù della sua

origine nel volere divino deve governare con forza vincolante l’intera cristianità.

Questi giuristi, dominati dal principio di autorità e privi di senso storico, non avvertono il

problema dell’antichità del corpus iuris, né quello delle contraddizioni, delle lacune, delle

disorganicità in esso contenute: ai loro occhi, infatti, la compilazione giustinianea è un

armonioso complesso di regole infallibili ed eternamente valide.

Con inconsapevolezza, dunque, costoro portano avanti il progetto di trasformare il testo

giuridico romano, antico di secoli e secoli, in una legge del presente, regalando all’europa

cristiana del tempo un diritto comune.

Il testo è smisurato e tecnicamente difficile, ma i giuristi lo muniscono di un commentario

interpretativo che lo rende immediatamente applicabile e accessibile ad avvocati, giudici,

notai, perché fornisce, ad esempio, in modo praticamente preconfezionato, la sentenza da

pronunciare. La ragione dell’enorme potere del giurista medievale, dunque, risiede proprio

nel suo essere mediatore tra il testo giustinianeo e la prassi, con le conseguenze che:

l’autorità del testo si trasferisce sull’interprete

l’opinione dell’interprete tende a sostituirsi al testo stesso.

Nella prassi, dunque, sono le parole dell’interprete che vengono prese soprattutto in

considerazione, in quanto queste danno la versione attualizzata della norma antica: in questo

modo, l’opinione dell’interprete viene accolta come legge, perché egli, ispirandosi all’equità,

conferisce alla norma romana i contenuti, i valori, i significati della realtà a lui

contemporanea.

E’, questo, il fenomeno della giurisprudenzialità del diritto, che per tutta l’età che precede le

codificazioni moderne ci si presenta di continuo: è chiaro, infatti, che nell’interpretazione

che il giurista dà della norma antica, c’è quel diritto nuovo del quale la società del tempo ha

bisogno, e solamente col quale la società del tempo può funzionare.

Del resto, questo fenomeno di sostituzione della parola dell’interprete a quella del testo

interpretato si manifesta anche oggi presso ogni società che si regoli con un codice

stagionato, anche se il fenomeno ha proporzioni meno grandiose:

-il quasi bisecolare code civil napoleonico, ad esempio, governa ancora oggi la società

francese, una società tecnologica ed industrializzata, lontanissima dalla Francia agricola del

1804. Laddove, dunque, i contenuti del codice non siano stati direttamente riformati o

integrati da successive leggi, le vecchie norme ottocentesche sopravvivono immutate, anche

se poi, pur nella loro intatta forma originaria, esse hanno assunto significati, valori e

funzioni che la giurisprudenza ha a mano a mano conferito loro.

-vanno ricordati, inoltre, i codici italiani comparsi durante il fascismo, mantenutisi

formalmente immutati, ed oggi interpretati alla luce della successiva costituzione.

• Cinquant’anni dopo, intorno alla metà del Duecento, la compilazione giustinianea è

completamente glossata, norma per norma e quasi parola per parola.

Alla soglia del Trecento, dunque, si avvierà la scuola dei commentatori destinata a consegnare al

mondo moderno il corpus iuris.

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“UTRUMQUE IUS”

Se i giuristi medievali hanno dimostrato che la compilazione giustinianea poteva reggere il loro

tempo e i tempi a venire, essi hanno anche percepito chiaramente i suoi limiti d’azione.

Il pensiero del medioevo vede l’uomo simultaneamente come spirito e materia, componenti, queste,

che sono unite in un costante rapporto. Così è per l’intera società, al vertice della quale convivono

due supreme potestà, distinte ed insieme coordinate: Chiesa e Impero. Due, dunque, sono anche gli

ordinamenti giuridici che governano gli uomini:

quello che li governa in spiritualibus

quello che li governa in temporalibus

Ci troviamo in una società, dunque, totalmente integrata nella dimensione religiosa, che non

conosce l’idea, prettamente moderna, della laicità della società civile.

Se dunque due sono gli ordinamenti giuridici che governano gli uomini, due sono anche i diritti con

cui essi hanno a che fare: il diritto canonico e il diritto civile.

Tra di essi, non c’è una separazione delle materie e neppure una reciproca irrilevanza, ma piuttosto

un rapporto di alimentazione:

 il diritto canonico, infatti, non disciplina solamente gli aspetti propriamente spirituali

dell’essere umano, ma interviene ogni qualvolta un atto, rilevante per lo ius civile, presenti una

implicazione spirituale.

 Viceversa, esso accoglie tutte le norme del diritto romano che possono funzionare come lex

saecularis della chiesa.

Questo utrumque ius governa l’uomo del medioevo in un duplice e simultaneo senso.

Intorno al 1140 un umile monaco, GRAZIANO, raccoglie in un testo il ricchissimo patrimonio

normativo della chiesa: con il suo decretum, Graziano giganteggia (insieme ad Irnerio) nella veste

di fondatore. Egli riduce ad un sistema coerente la molteplicità dei canoni, dei passi biblici e delle

norme romane che la chiesa aveva recepito: sforzo colossale, questo, se si pensa

-che il materiale che doveva essere ordinato era pieno di contraddizioni

-che Graziano non poteva mettere in discussione i precetti su cui lavorava, ma poteva soltanto

discuterli

-e che egli doveva costruire un diritto canonico che si distinguesse dalla teologia.

Il decretum, in cui Graziano non raccoglie un diritto venuto meno, come quello romano, ma una

tradizione giuridica della chiesa che dal suo sorgere era giunta viva fino al suo tempo, è il pilastro di

base di quello che prenderà il nome di corpus iuris canonici.

E l’utrumque l’ius, da questo momento in poi, può funzionare al meglio.

UNIVERSITA’ E UNITA’ DELL’ISTRUZIONE GIURIDICA CONTINENTALE

Il corpus iuris torna alla luce a Bologna: ben presto, qui, accorrono frotte di studenti e di aspiranti

giuristi da ogni parte del continente.

E’ a Bologna che, in modo non ufficiale, nasce la prima università (se non la prima della storia,

perché Parigi contende con Bologna il primato, quantomeno la prima in cui il diritto): università

come spontanea, libera e privata organizzazione corporativa degli studenti.

Occorre soffermarsi ora sul perché lo studio scientifico della compilazione giustinianea non poteva

avviarsi se non nell’ambito dell’universitas. Le ragioni sono molteplici, e cioè:

perché la notizia che a Bologna era ricomparso il Digesto e che questo era accessibile, portò a far

concludere che chi fosse entrato in possesso della sua conoscenza si sarebbe automaticamente

assicurato potere, ricchezza e prestigio.

perché la cultura medievale considerava il diritto come centrale per la soluzione di problemi

civili, politici e spirituali

perché il corpus iuris, anche se doveva essere applicato, non poteva essere usato con

immediatezza nella prassi per via della sua complessità: occorreva dunque la mediazione tecnica di

un gruppo di dotti che predisponesse il testo per un suo uso pratico.

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Poiché, però, occorreva anche garantire che il sapere giuridico si trasmettesse di generazione in

generazione all’interno di una classe di dotti, questa esigenza naturale porta al sorgere e allo

svilupparsi dell’università, intesa come professionalizzazione e tecnicizzazione dell’attività del

giurista. Questo spiega perché l’università medievale non aveva lo scopo di formare gli studenti per

la prassi, bensì quello di formare nuovi docenti e nuovi interpreti del testo antico: non dei pratici,

insomma, ma delle guide per i pratici.

Dunque per la prima volta diventa chiaro che il diritto è un affare dei giuristi, e che per conoscerlo è

necessario un lungo studio (in quanto si doveva giungere a dominare sia il corpus iuris civilis, che il

corpus iuris canonici).

Quello che avviene nella piccola Bologna dell’11° secolo è qualcosa di straordinario, perché in quel

microcosmo limitato ai problemi locali, si incunea all’improvviso qualcosa di smisuratamente più

grande come l’università, che per sua natura è non locale, ma internazionale e, addirittura,

universale. I circa duemila studenti che affolleranno Bologna saranno i portatori e i destinatari di

una sapere che trascende ogni confine politico all’interno del mondo cristiano. E’, questo, un sapere

che è destinato ad irradiarsi per tutto il continente europeo perché, una volta doctores, coloro che

sono andati a studiare a Bologna

tornano nei loro paesi di origine portandosi come inestimabile bagaglio, oltre alla licenza per

insegnare, anche le tecniche del ragionamento giuridico, le formule di governo dello stato e gli

schemi di amministrazione della giustizia

vanno ad occupare livelli di vertice nell’ambito della classe dirigente

Sul modello di Bologna sorgono come funghi, in Italia ed in Europa, nuovi centri di studio, o

perché voluti ufficialmente da un Papa, da un imperatore o da un re, o perché sorti ancora una volta

liberamente, laddove un professore famoso ha deciso di fermarsi ad insegnare il corpus iuris. Il

vento di questa cultura spira ovunque, perché il corpus iuris non racchiude un diritto che si adatti

agli italiani piuttosto che ai tedeschi, ai francesi o ai polacchi: esso racchiude un diritto per gli

uomini.

Intorno al 1400, di centri universitari di studi giuridici se ne trovano nell’intero continente

(Cracovia, Buda, Orleans, Lisbona, Praga, Siena, Perugina, Napoli ecc ecc), e vengono organizzate

secondo il modello bolognese. Piano di studio, metodo di insegnamento, contenuti didattici e lingua

latina: tutto è identico.

L’europa medievale è l’area di diffusione di un sapere libero, insegnato nelle università.

Dunque si ha:

unità nella istruzione giuridica continentale

unicità della figura del giurista, che diventa un professionista del diritto e dell’amministrazione

pubblica, condividente con altri giuristi cultura, tecniche, lingua, mentalità e, naturalmente, il

diritto.

Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.

DALLA RECEZIONE AL TRAMONTO DEL DIRITTO COMUNE

Quando il diritto del corpus iuris inizia a diffondersi nel continente, la potenza universale che agisce

come sua grande alleata è non tanto l’impero, quanto la Chiesa.

Il corpus iuris, diritto imperiale, è norma vincolante nei territori, appunto, imperiali (Italia e paesi

germanici), ma incontra ostacoli di natura politica nei regni indipendenti dell’impero, in quanto in

questi luoghi il recepimento del diritto romano potrebbe apparire come il segno della accettazione di

una soggezione nei confronti dell’impero. In questi paesi, allora, esso viene accolto ad altro titolo:

quale consuetudine, come diritto regio, o come ratio scripta.

La Chiesa, invece, ha organizzato in tutti i paesi cristiani delle corti giudiziarie, ove si celebra il

rigoroso processo canonico che più tardi sarà fatto proprio anche dai tribunali laici, divenendo così

processo europeo.

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Il diritto romano, dunque, viene accolto ovunque e diventa così, con il suo risvolto canonistico, il

diritto comune di tutti i paesi dell’europa continentale. La ragione posta alla base di questa

recezione da parte di così tanti paesi risiede nel fatto che nessuno di questi possedeva un proprio

diritto nazionale unitario che potesse essere amministrato da un ceto di giuristi. Essi, al contrario,

pullulavano o di primitivi e lacunosi diritti consuetudinari locali configgenti tra loro, o si trovavano

addirittura allo stadio della tradizione orale. La vita sociale, dunque, era impoverita perché mancava

un diritto di grande respiro, nonché organizzazione, certezza dei rapporti giuridici e giustizia.

Ma in ciascuno di questi ambienti

-ad un certo momento compaiono i giuristi: specialisti del corpus iuris, in possesso di razionali

tecniche operative

-entra in funzione l’equo, rigoroso e logico processo canonico, che sotto il profilo spirituale

scandaglia l’uomo nella sua coscienza, e sotto il profilo temporale lo affida al diritto romano, un

diritto assimilabile da ogni comunità che lo voglia accogliere, perché in grado di fornire ovunque le

norme indispensabili ad una società avanzata. Esso non ha la pretesa di soppiantare il diritti locali,

ma semplicemente di colmarli laddove essi siano muti: l’universalismo del diritto romano, cioè, non

nega il pluralismo: è l’età della pluralità degli ordinamenti, e il diritto del corpus iuris si pone come

diritto universale volto a coordinare i diritti particolari.

Così avviene il fatto della recezione: in ogni comunità politica lo ius comune assicura l’unità e la

completezza del diritto. Poiché questo ius comune acquista una specifica configurazione locale,

conferitagli dal suo combinarsi con le leggi e le consuetudini del paese che lo accoglie, ecco

spiegato come i diritti nazionali dell’europa continentale si sono formati tutti in chiave romanistica,

nell’ambito di una giurisprudenza caratterizzata dall’uso universale del corpus iuris.

Un solo paese si sottrae alla sorta che unifica le società europee nel diritto: l’Inghilterra, che matura

invece l’automa e tutta isolana esperienza della common law, diritto prodotto dai giudici, che lo

fabbricavano empiricamente attraverso un metodo casistico. Quando infatti il diritto del corpus iuris

approda sul territorio inglese, in Inghilterra si era già formato un primo rudimentale nucleo della

common law, fissato da un altrettanto rudimentale ceto di giuristi. L’Inghilterra, cioè, era già dotata

di un diritto artigianale valido ed unitario, tale da non richiedere di essere abbandonato a favore del

corpus iuris. Rimanendo estranei, dunque, al diritto del corpus iuris, i paesi di common law sono

rimasti estranei anche all’esperienza che ha concluso la crisi post-medievale del diritto comune: la

codificazione.

Mentre l’Inghilterra, dunque, conserva ancora oggi il proprio diritto di origine medievale,

scorgendo la prova della sua validità nella continuità con cui esso è stato applicato, nel continente

gli stati post-medievali si avviano alla crisi del diritto comune: all’antica concezione del diritto

come rivelazione manifestata nel corpus iuris si sostituisce a poco a poco quella

-della statualità del diritto

-e del primato della legge positiva, manifestazione della volontà di un sovrano nazionale.

Il nuovo dogma, il nuovo principio indiscutibile, ora, è quello della sovranità:

non più universalismo e pluralismo, ma nazionalismo

non più corpus iuris, ma il semplice diritto della ragione, codificato in norma positiva dalla

insindacabile volontà del monarca.

La storia giuridica moderna è la storia di una crisi lunga e grande:

 lunga, perché lo stato assoluto nasce senza un proprio diritto, e dunque per tre secoli è

costretto ad amministrare con l’ormai ingombrante ius commune ereditato dal medioevo.

 grande, perché si passa da una visione del mondo retto da un ordine divino-rivelato, all’idea

di una natura pienamente dominabile dall’uomo attraverso la scienza e la tecnologia. Si passa, cioè,

da una concezione teocentrica dell’esistenza, ad una concezione antropocentrica.

Per giungere ai codici giusnaturalistici, illuministici e borghesi che si sostituiranno al corpus iuris,

ci sarà bisogno di una rivoluzione della società, del diritto e dello stato.

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Eppure i primi tre grandi codici civili comparsi in europa (e cioè i c.d. codici giusnaturalistici: il

code Napoleon, il codice austriaco e il Landrecht prussiano) ci rivelano che il diritto della ragione

aveva ancora una volta trovato fondamento nelle norme romane, e cioè nei diritti naturali

dell’uomo, anche se ripensati e risistemati. E’ il caratteristico fenomeno del travaso del diritto

romano-comune nei codici nazionali, codici che formalmente frantumano l’antica unità giuridica

europea ed iniziano l’età del positivismo giuridico.

Oggi gli inglesi contrappongono la famiglia della common law, alla quale essi appartengono, a

quella della civil law, cui apparteniamo noi: per loro, i paesi della civil law sono quelli vissuti

accomunati per secoli nella tradizione romanistica, e che alla fine si sono dati un codice

sull’esempio del corpus iuris giustinianeo.

IL DIRITTO NELL’EUROPA DELL’AVVENIRE

Gli Europei, oggi, sono tornati a parlare della loro unità e a fissarne la data del raggiungimento. Le

forze diplomatiche, politiche ed economiche operano in tal senso, ed è intuibile che la comunità

europea non sarà veramente tale se non avrà a che fare con un diritto accolto da tutti i paesi che la

compongono.

Ma è anche vero che spetterà alla cultura, prima che alla diplomazia, alla politica e all’economia,

ricostruire le basi di questa unità: l’unità europea presupporrà un ritorno dell’europa alla coscienza

che l’ha generata, anche se alcuni nostri governi si distinguono per politiche di affossamento dello

studio del latino e della storia antica. La cultura, cioè, mostra che l’europa dovrà difendere con tutta

se stessa il patrimonio di saggezza giuridica accumulato: gli europei dovranno tornare ad investire

la propria civiltà nel diritto, e più precisamente nella antica combinazione cristiana di umanesimo e

diritto.

Ricostruzione culturale, questa, che significherà ricostruzione morale, in quanto nei paesi in cui

umanesimo e diritto regneranno davvero insieme, barbarie quali il terrorismo, il razzismo, le guerre

di sterminio, le pulizie etniche (ecc ecc…) non esisteranno.

Le origini dell’idea di codificazione: un inquadramento generale

CODIFICAZIONE DEL DIRITTO: UN CONCETTO DALLE ORIGINI RECENTI

Il tipico modello adottato dagli attuali regimi giuridici continentali è il modello del diritto positivo

codificato.

Questo modello non costituisce da sempre l’unico schema organizzativo di una esperienza giuridica

evoluta:

• basti pensare a come si sono organizzati nel passato o a come appaiono organizzati nel presente

altri ordinamenti con un elevato livello di strutturazione, come ad esempio la Roma classica o

l’Inghilterra medievale e moderna: in questi due modelli di case law non scritta, la norma nasce

dalla soluzione del caso, e non la soluzione del caso da una norma già esistente. L’esperienza

romana e quella dei paesi di common law costituiscono modi molto diversi rispetto alla

codificazione di produrre ed utilizzare il diritto. Quando infatti un diritto affida il proprio sviluppo

all’opera di un ceto di giuristi delegati a produrre via via le norme che occorrono, piuttosto che ad

un legislatore statuale, allora si è lontani dall’idea di diritto codificato.

• La situazione non cambia neanche quando la casistica viene raccolta in un testo scritto, come ad

esempio nel caso del digesto giustinianeo: per dar vita ad un codice non basta che si imponga di

osservare come legge un repertorio di casi dottrinalmente risolti.

In realtà il sistema normativo dei codici, al quale metà della terra affida oggi l’amministrazione

della giustizia, ha una origine recente, seppur radicata nella millenaria tradizione giuridica

occidentale:

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l’idea di codice, infatti, è l’ultima creazione della cultura giuridica europea: il sistema del diritto

codificato ha appena i due secoli di vita, e alle spalle una esperienza giuridica ben differente. Esso è

il frutto del pensiero critico occidentale di ridurre il diritto in principi, di compendiarlo in un testo

dal rigore geometrico, di affidarlo ad un sistema privo di lacune e contraddizioni, sistema creato da

un legislatore sovrano e sottratto, cioè, ad ogni arbitrio dei giudici.

Divenuta una scelta tecnico-politica consapevole, la codificazione ha costituito un traguardo

difficile da raggiungere: in Francia, ad esempio, essa è stata il prodotto della rivoluzione, e ha

segnato la fine di una tradizione di diritto comune, fondata sull’uso del corpus iuris giustinianeo.

ESTRANEITA’ DELL’IDEA DI CODICE ALLA CULTURA GIURIDICA MEDIEVALE

Il concetto di codificazione è completamente estraneo al medioevo: nel pensiero dell’uomo

medievale non c’è posto né per il concetto di unità né per quello di statualità del diritto, né, ancora,

per quello di sovranità, da cui consegua che unico produttore del diritto sia lo stato.

L’esperienza medievale è caratterizzata dall’universalismo e, insieme, dal pluralismo giuridico:

da un lato troviamo il diritto romano comune del corpus iuris, un diritto immutabile costituito

dalla volontà divina, consegnato dalla tradizione ed accettato dagli uomini del medioevo come una

certezza rivelata. L’imperatore è il depositario (e non l’artefice!) di questo capitale di leggi, e la

visione universalistica della compilazione giustinianea ne fa una norma per un’unica ed

indifferenziata repubblica cristiana

dall’altro lato, si pongono i molteplici e frammentari diritti territoriali, cioè i c.d. iura propria:

• le consuetudini del luogo

• i fueros

• i Landrechte

• gli usi feudali

• gli statuti dei comuni

• i diritti delle corporazioni

• i diritti speciali dei ceti (ceti in cui questa società è tradizionalmente stratificata)

Gli iura propria, dunque, esprimono l’autonomia degli ordinamenti giuridici popolanti il mondo

medievale nei confronti di un ordine superiore, governato dallo ius comune, in cui tuttavia essi sono

inseriti. L’uomo del medioevo conosce il diritto della cristianità e insieme quello della sua terra:

così i diritti particolari, che nascono dal basso, si coordinano con il diritto comune che li integra

quando essi tacciono.

In una situazione come questa, fondamentale è il ruolo che svolgono i giuristi: la loro produzione

dottrinale è il motore dell’intera vita giuridica, imperniata molto più sull’interpretazione che sulla

legislazione: il contenuto del testo romano è incessantemente interpretato e reinterpretato da questi

doctores iuris. Quella dei giuristi medioevali, dunque, è una élite di professionisti del corpus iuris,

ideologicamente compatta e presente su scala europea, che tiene in vita un diritto ereditato

attraverso l’uso di un metodo invariato nei secoli: la continuità formale di questo diritto assicura la

continuità del ceto, e la continuità del ceto il riprodursi del diritto stesso.

Il sovrano medievale, dunque, è stretto tra tre componenti giuridiche: il diritto romano, il diritto

canonico e gli iura propria: può effettuare interventi legislativi che cambino qualche elemento del

sistema giuridico, può promulgare una propria compilazione legislativa, ma il controllo

dell’ordinamento nel suo complesso gli sfugge: sarebbe impensabile che egli potesse sostituirlo in

toto con un corpo di norme esprimenti la sua volontà.

Egli è sovrastato da un diritto divino-naturale: non ha, cioè, l’esclusiva nella produzione del diritto.

LA SITUAZIONE D’ANCIEN RÉGIME E LA CRISI DEL DIRITTO COMUNE

Il medioevo consegna allo Stato dei secoli che vanno dal sedicesimo al diciottesimo un regime delle

fonti giuridiche in cui il diritto romano

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-è ancora la norma comune e superiore che colma una miriade di ordinamenti interni allo stato

-assicura, in mancanza di un organico diritto nazionale, quell’unità giuridica che il sovrano

moderno non è in grado di istaurare neppure ora che lo vorrebbe.

Questo fenomeno di sopravvivenza, si spiega se pensiamo all’ambiente politico, sociale ed

economico che fa da sfondo al potere assoluto nell’età dell’antico regime: permane la struttura

giuridica e sociale ereditata dal medioevo basata su una gerarchia della classi, su prerogative

feudali, e su poteri particolaristici che intralciano l’autorità sovrana, dissolvendo l’autorità dello

stato: non c’è nessuna legge uniforme che regola l’insieme dei territori, in quanto l’autorità del

monarca si estende sì in tutte le regioni, ma in ognuna di esse assume aspetti diversi, rispettando le

tradizioni locali. Un mondo che vive di proprie leggi, insomma, si pone sì sotto la legge del

monarca, ma limita comunque la sua onnipotenza, a causa dei propri particolarismi.

Anzi, il diritto comune post-medievale è potenziato dalla comparsa di nuovi protagonisti nella vita

giuridica: i tribunali supremi statuali, collegi creati dai monarchi nell’intento di unificare il diritto

del proprio stato attraverso un potenziamento della giurisdizione.

I magistrati delle corti centrali, con il grande potere di discrezionalità lasciato loro, orientano la

prassi delle corti minori e, vicinissimi alla potestà regale, perché istituiti come esecutori della

giustizia del re, rispecchiano qualcosa della sovranità: essi possono giudicare secondo coscienza,

avvalendosi di quello straordinario strumento di potere che è l’arbitrio equitativo.

Questo potenziamento della giurisdizione, tuttavia, ha generato una forza dell’attività giudiziale

sconosciuta all’esperienza giuridica medievale, esponendo le corti a tentazioni di indipendenza

quali, prima fra tutte, quella di perseguire non il primato della volontà del sovrano, ma quello di una

propria politica del diritto.

E in effetti la giurisprudenza che si svilupperà nei secoli diciassettesimo e diciottesimo deriva solo

in parte da fonti quali il diritto romano, la legislazione del sovrano e le normative particolari: quello

che conta è invece, soprattutto, la prassi giurisprudenziale, vale a dire l’applicazione concreta che i

tribunali fanno liberamente di quelle fonti. Essi non si basano tanto sul dettato della norma antica,

ormai desueta: ciò che per i magistrati ha davvero importanza sono soprattutto le opinioni che i

grandi giuristi medievali e postmedievali hanno dato di quella norma, corredandola di un significato

moderno. Dietro i tribunali di giudici vivi, dunque, vediamo ergersi un tribunale di morti, occupato

dalle ombri dei grandi giuristi del tempo passato, la cui dottrina, citata in aula, è legge.

Tuttavia, se nei secoli dell’età moderna il regime medioevale di diritto comune sopravvive, ciò non

impedisce che in quegli stessi secoli si delineino i segni di una crisi del sistema:

con il progressivo svilupparsi di monarchie e principati in senso assolutistico, infatti, prendono vita

anche dottrine dirette a legittimare i governi autocratici (=assolutistici, tirannici), dottrine, queste,

necessariamente configgenti con la tradizione della pluralità delle fonti e con la loro gestione

giurisprudenziale, poiché fanno emergere il concetto di diritto come legge dello stato e di stato

come unica fonte del diritto.

L’idea di fondo, dunque, non è più quella della natura universalmente cristiana degli stati, ma quella

del primato laico dell’organizzazione, che si concretizza anche nella autosufficienza di ciascuno

stato nella produzione del proprio diritto: universalismo e pluralismo medioevali, dunque, vengono

sgretolati dal nazionalismo moderno.

La politica assolutistica, che mira al pieno controllo dell’ordinamento, genera però il problema della

unificazione delle fonti giuridiche, in quanto la concentrazione del potere nelle mani di uno solo

deve per forza passare attraverso la concentrazione del diritto. La strada obbligata da percorrere,

dunque, diventa quella di riformulare il diritto vigente in modo innovativo, concentrandolo in un

corpo unitario di precetti, che siano

-l’univoca espressione della volontà del re

-l’unica legge nazionale per il suoi sudditi.

Abbiamo a che fare, in pratica, con la formula della sovranità: A Deo Rex, a Rege lex.

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Dunque

se da una parte l’accettazione espressa del principe è la condizione necessaria perché il diritto

comune sia valido all’interno dello stato

dall’altra questo diritto ha, comunque, tutti i caratteri che il plurisecolare lavorio degli interpreti

gli ha impresso, caratteri notevolmente in contrasto con la politica assolutistica: il corpus iuris,

infatti, è stato solo la base originaria di partenza: sopra di esso si sono generate centinaia di opere

dottrinali, che hanno trasformato il diritto comune in un diritto voluminoso, più opinabile,

antinomico e controverso, in quanto per la soluzione dei casi ci sono opinioni dottrinali contrastanti.

Il carattere opinabile delle regole, dunque, sembra condannare all’incertezza l’intero sistema, che

funziona solamente grazie all’arbitrio equitativo dei tribunali supremi.

La norma, dunque, anziché essere statuita all’istante da una autorità ufficiale, si forma lentamente

come risultato di dibattiti dottrinali, creando di continuo problemi per quanto riguarda la certezza.

Occorre, dunque, un testo legislativo compendioso e perentorio, talmente chiaro da escludere il

monopolio interpretativo della dottrina e della giurisprudenza.

E’ in questo modo che a poco a poco l’atteggiamento degli ambienti di governo diviene

antigiurisprudenziale: l’autorità mediatrice del ceto giuridico perde di credibilità e le opinioni

dottrinali, da autoritativo parametro di certezza che erano, si trasformano in null’altro che opinioni

private. Il diritto comune inizia ad assumere le parvenze di un diritto inattuale e impraticabile,

idoneo solo a fomentare la litigiosità della gente. Se

-Muratori, aveva polemizzato contro lo spregiudicato uso del diritto romano da parte di giudici ed

avvocati

-Cesare Beccaria, nella pagina iniziale della sua opera “Dei delitti e delle pene”, compie tutta una

riflessione antigiurisprudenziale: egli trova assurdo, infatti, il fatto che le norme di diritto comune,

“avvolte in farraginosi volumi di oscuri interpreti”, costituiscano la legge. Da sostenitore

intransigente della codificazione, Beccaria contesta il fatto che i giudici possano far considerare

come legge la propria opinione interpretativa.

In realtà ci troviamo di fronte non soltanto ad un regime giuridico che si avvia al tramonto, ma

all’intera società di impianto medievale che entra in crisi: soggetti inquadrati per status, sistema dei

privilegi e concezione per cui la società non è composta di individui ma di corpi giuridici

differenziati non corrispondono al programma di livellamento che lo stato assoluto si propone.

E’ in questa società che si sta sgretolando a poco a poco che si fa strada lentamente e faticosamente

l’idea della codificazione: i codici, con le loro norme generali e astratte, conterranno un diritto

uguale per tutti, e saranno destinati ad un unico e socialmente indifferenziato destinatario. Essi:

-presupporranno una parità giuridica dei consociati

-si sostituiranno in blocco al diritto comune, per sua natura non funzionante se non in relazione ad

una molteplicità di normative particolari: non più tanti diritti per altrettanti ceti sociali, ma

unificazione e statalizzazione del diritto in senso egualitario

-scioglieranno i raggruppamenti comunitari e solidaristici in cui gli individui hanno sempre trovato

identità sociale e protezione: scomparirà, insomma, la struttura associazionistica creata dal

medioevo, e rimarranno gli individui ciascuno da solo: parificati l’un l’altro, ma separati l’uno

dall’altro per la scomparsa delle rispettive comunità di appartenenza e di tutela.

DAL DIRITTO COMUNE AI CODICI: LE PRIME TAPPE DI UN TRAPASSO PROBLEMATICO

La transizione dal regime di diritto comune a quello dei codici si è svolta con molta lentezza, poichè

le forze legate al particolarismo sono riuscite a contrastare per molto tempo gli sforzi accentratori.

Questi sforzi si palesano tra la fine del 16° e quella del 18° secolo: si va dagli isolati provvedimenti

antigiurisprudenziali, ai primi tentativi di riordinamento o di produzione giurisprudenziale nei

singoli stati.

Queste misure, tuttavia, sono volte non tanto a superare il regime di diritto comune, in quanto i

secoli 17° e 18° rappresentano piuttosto l’epoca delle consolidazioni, e cioè di quelle compilazioni

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giuridiche o realizzate privatamente dai giuristi, o volute personalmente dal sovrano, volte a

raccogliere il disperso materiale legislativo già esistente.

Via via su questa strada, per iniziativa di alcuni sovrani, vengono messe a punto diverse

compilazioni raccoglienti una parte della normativa vigente e una parte di precetti nuovi: corpi

legislativi, questi, che comportano

-l’abrogazione di tutte le norme preesistenti in materia e

-l’ammodernamento di vaste aree del diritto, con la conseguente riduzione dello spazio occupato dal

diritto romano e dai diritti particolari.

 Un esempio è dato dalle Ordonnances di Luigi14 (1681), che rappresentano una

ristrutturazione della materia e delle procedure commerciali in base alla politica

centralizzatrice dell’assolutismo francese.

 Si ricordino, altrimenti, le costituzioni piemontesi del 1723, ‘29 e ’70, volte a porre al centro

del sistema delle fonti sabaude le norme regie.

 O ancora, i codici settecenteschi della Baviera e le costituzioni modenesi, volti a sostituire al

regime giurisprudenziale del diritto comune la più grande quantità possibile di norme

sovrane.

Queste consolidazioni, pur rappresentando un passo in avanti verso la codificazione,

concettualmente si collocano pur sempre in una teoria delle fonti tradizionale: pur se messe a punto

con un intento riformatore, esse finiscono per riconfermare il sistema giuridico preesistente, che

risulta sì semplificato, ma non sostituito in blocco!

Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.

I CARATTERI INNOVATIVI OVVERO I REQUISITI TECNICI DELLA CODIFICAZIONE:

LE DUE CONDIZIONI DELLA SUA REALIZZAZIONE STORICA

Ciò che contraddistingue il codice (inteso nel senso tecnico del termine acquisito tra la fine del ‘700

e gli inizi dell’800, quando cioè viene promulgato il codice Napoleone) , rispetto a qualunque altro

testo legislativo è un duplice postulato:

1. La sua unicità come fonte del diritto

2. La unicità tipologica del soggetto giuridico che vi è visualizzato.

Esso rompe definitivamente con il regime di diritto comune, che cessa di essere il sistema di diritto

positivo, in quanto tutto il diritto previgente viene abrogato. Ad esso si sostituisce…

-il compendio di norme codificate come unica fonte di cognizione

-lo stato come unica fonte di produzione

L’elemento di unicità della fonte del diritto (che ha comportato l’emarginazione della consuetudine

e della giurisprudenza) e quello dell’unicità del soggetto di diritto (che ha comportato la scomparsa

dei legami di appartenenza cetuale) sono le due condizioni che hanno reso realizzabile il progetto

dei primo codice civile, progetto che si sostanziava nell’equazione:

“UNIFICAZIONE DEL DIRITTO=UNIFICAZIONE DELLA SOCIETA’”.

D’altronde la volontà di modificare in modo rapido e radicale la struttura della società attraverso il

diritto, non poteva attuarsi se non riconoscendo alla legge la supremazia assoluta di strumento

ordinante. Paolo Grossi, storico del diritto, ha parlato a tal proposito di assolutismo giuridico: né la

consuetudine, né il diritto giurisprudenziale, infatti, avrebbero potuto rivoluzionare l’assetto sociale,

in quanto questi si evolvono lentamente attraverso progressivi aggiustamenti della prassi.

Il codice, dunque, si presenta come un sistema non eterointegrabile (cioè non colmabile nelle sue

lacune normative mediante l’applicazione di leggi appartenenti ad un altro ordinamento giuridico)

di norme generali e astratte, dirette ad un destinatario unico e non qualificato socialmente.

Il principio della completezza del codice implica che in esso si identifichi l’intero diritto positivo: si

viene a parlare, in questo modo, di codicocentrismo. Completezza non significa, ovviamente, che il

codice contenga una previsione per ogni singolo caso, ma piuttosto che esso sia provvisto dei

meccanismi logici per il suo completamento (meccanismi quali, ad esempio, l’analogia).

Completezza, dunque, intesa nel senso di completabilità: si presume, cioè, che la soluzione di ogni

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controversia possa essere reperita all’interno di un sistema di norme non incompatibili tra loro,

perché contenente un’altra serie di norme implicite, ma esplicitabili sfruttando meccanismi di

estensione.

UNA PARENTESI: A PROPOSITO DI UNA ODIERNA TENDENZA STORIOGRAFICA IN

MERITO A “COMPLETEZZA” E CODIFICAZIONE

Alcuni storici del diritto danno, oggi, una interpretazione insolita del fenomeno della lentezza e

della lunga durata del processo di transizione dal regime di diritto comune a quello dei codici.

Secondo costoro, infatti:

-il concetto di codice inteso come testo completo di norme uguali per tutti, si sarebbe venuto a

delineare non solo molto tardi (ossia nel 19°secolo), ma anche per via di concezioni successive

rispetto a quella, prevista in partenza dagli autori delle prime codificazioni, del totale soppianto del

diritto romano

-molti paesi europei approdati alla codificazione, inoltre, spiegavano le norme del codice attraverso

il ricorso ai principi del diritto romano comune, seppure questo fosse stato abrogato.

Tutto ciò suggerirebbe che la tradizionale immagine della codificazione vista come definitivo

superamento del regime di diritto comune andrebbe revisionata, perché secondo costoro…

da un lato, il concetto di codice come compendio non eterointegrabile era estraneo alla cultura

illuminista, che invece aveva concepito programmi più “possibilisti”, più “di compromesso” per

quanto riguarda la codificazione del diritto

dall’altro, la codificazione sarebbe una manifestazione della continuità del diritto comune, e non

la sua soluzione.

Queste audaci ricostruzioni storiografiche hanno il merito di aver evidenziato il fatto che la

tradizione del diritto comune, alla quale larga parte del ceto forense europeo era legata, ha opposto

resistenza ovunque ai progetti di codificazione: questa persistente fedeltà al diritto dell’ancien

regime, infatti, ha reso problematico dapprima il cammino verso la codificazione e poi, avvenuta la

promulgazione dei primi codici, ne ha complicato l’applicazione. Questo perché i giuristi che

vissero l’esperienza del trapasso dal diritto di antico regime a quello dei codici, continuarono a

ragionare secondo gli scemi mentali della tradizione nella quale si erano formato, cosa che generò la

tendenza ad interpretare estensivamente i nuovi testi, alla luce dell’abrogato diritto comune.

Tuttavia queste moderne interpretazioni possono essere obiettabili secondo due punti di vista:

• 1. Perché esse non provano sufficientemente che la cultura giuridica del settecento sia

estranea alla moderna idea della completezza del codice:

 Nel campo del diritto penale…

le codificazioni realizzate alla fine del 18° secolo presupposero pienamente la codificazione,

accogliendo rigorosamente il principio di legalità. Queste codificazioni furono portate a termine

sotto l’influenza dell’illuminismo penale, assolutamente intransigente in proposito. Basti pensare al

codice fisso di leggi che debbono essere osservate alla lettera, di cui parlava Cesare Beccaria

anche quando qualche esponente dell’illuminismo ritenne impossibile la creazione immediata di

un codice penale completo, egli ne auspicò il completamento in pochi anni: si pensi ad Alessandro

Verri, che si lamentava del fatto che a Milano il diritto non consisteva in un codice, ma in una

voluminosa tradizione giurisprudenziale. Egli sostenne

-che per realizzare la certezza del diritto, si doveva abrogare tutto ciò che era stato mal costruito, e

realizzare, in parte con gli stessi materiali, un nuovo edificio, servendosi delle dovute regole

d’architettura.

-che se non era possibile descrivere in un unico codice tutte le azioni che commettono gli uomini,

era comunque vero che i delitti si riducono tutti in classi, e che dunque occorreva fare i dovuti

accostamenti per comprendere i casi simili.

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 Anche nell’ambito del diritto civile, l’ipotesi di un codice completo profetizzata da Leibniz

ha trovato sostenitori nel pensiero giuridico di fine ‘700:

E’ vero che molti giuristi, che non concepivano come ragionevole neppure l’abrogazione in toto

del diritto comune, hanno ritenuto la codificazione impensabile…

ma altri loro colleghi no!

Il problema, dunque, si è posto e si è dibattuto fino a quando il testo napoleonico del 1804 è entrato

in vigore con la pretesa di assenze di lacune.

 Il creatore del termine “codificazione”, Jeremy Bentham, indica che il primo requisito che

un codice deve avere è quello della completezza: esso, cioè, deve essere una redazione completa di

norme, con la conseguenza che tutto ciò che non si trova nel codice (tutto ciò che è extra codicem),

non sarà considerato legge.

Le pagine dell’Introduction di Bentham vengono tradotte in francese, e vanno a ruba tra gli uomini

di legge.

o E’ ovvio che la dottrina del codice completo incontra anche degli oppositori: nella

vecchia scuola di legislazione, che sta lavorando al code civil, non tutti l’approvano:

proprio per questo motivo, fino alla vigilia della promulgazione del codice i giuristi

napoleonici discuteranno se abrogare in blocco o meno il diritto romano,

pronunciandosi, infine, per una totale abrogazione. Tutto il diritto previgente cessa di

avere forza di legge, e diventa solamente un deposito di massime di equità.

Tutti questi dati, dunque, non depongono di certo, come si è invece sostenuto,

-in favore di una totale estraneità delle dottrine del settecento alla questione della completezza

nell’ambito della codificazione,

-né tantomeno in favore di una continuità tra il regime del diritto comune e quello dei codici.

 Se continuando a ragionare di completezza, infine, si vuole davvero controllare l’intero

contesto storico relativo alla nascita dei codici, è necessario non limitarsi alle teorie dottrinali, ma

considerare anche la figura del legislatore:

è vero, infatti, che per quanto riguarda la loro struttura, i codici sono prima di tutto il risultato di un

lavorio dottrinale, ma è anche vero che, terminata la fase tecnica della loro formazione, essi

vengono promulgati come prodotto della volontà di un legislatore sovrano, il quale aspira a renderli

completi ed immuni dalla concorrenza di altre fonti.

Il codice Giuseppino del 1787 venne pubblicato dall’intransigente imperatore austriaco Giuseppe

II, che stabilì non solo, come era naturale, che tutte le leggi fino ad allora in vigore erano da

considerarsi abrogate, ma anche che non ci si poteva rifare ad esse per nessun motivo.

Anche Napoleone nutriva la stessa aspirazione alla non eterointegrabilità del suo codice, e questo

deve aver in qualche modo influito nella sua compilazione, tanto che, ancora una volta, vengono

considerate leggi solo quelle contenute nel codice, e nulle tutte le altre.

• 2. Perché le tesi storiografiche continuiste tendono a ridimensionare l’immagine della

codificazione così come essa è intesa tradizionalmente, e cioè come momento di cesura e svolta

definitiva nella tradizione giuridica europea:

anche se è vero che il vecchio diritto comune, a dispetto di ogni abrogazione, continuò ad essere

considerato come punto di riferimento per l’interpretazione dei codici ottocenteschi, in quanto di

certo non poteva bastare la volontà di un legislatore per interrompere di punto in bianco una

tradizione plurisecolare…

ciò non toglie che con la comparsa in scena del codice voluto da Napoleone siano state poste

tutte le premesse per l’irreversibile affermarsi di un universo giuridico assolutamente nuovo:

l’universo giuridico del diritto codificato, concepito secondo i principi della completezza e

dell’unicità.

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Se non considerassimo come rilevante questa soluzione di frattura, si rischierebbe di dimenticare

che proprio da essa ha preso avvio il fenomeno dell’assolutismo giuridico (che contraddistingue

ancora il nostro tempo), assolutismo giuridico caratterizzato da:

• il monopolio esercitato dal legislatore statuale

• l’esclusione di dottrina e giurisprudenza dal novero delle fonti (e cioè la scomparsa del

pluralismo giuridico

• la sottrazione alla giurisprudenza di una interpretatio che fa legge

Oggi sono sotto gli occhi di tutti i problemi generati da quella che chiamiamo “decodificazione”: le

legislazioni speciali hanno in parte distrutto l’unità del diritto privato, sgretolando la speculare

immagine dell’unità della società civile. C’è da sottolineare, inoltre, che molti sono stati i mali

prodotti da un uso incoerente del monopolio statuale del potere legislativo, che emana di continuo

una miriade di microleggi. L’odierno legislatore, figura incompetente tanto da risultare quasi una

caricatura dei primi grandi codificatori, è incapace di risolvere le questioni poste dalla società postindustriale, e reagisce ad esse moltiplicando i decreti.

In questi anni, tuttavia, una parte della giurisprudenza è divenuta consapevole dei problemi

generatisi dalla caotica legislazione speciale. Poiché ogni progetto di ritorno ad un passato

precodificatorio sarebbe impensabile, si parla allora di una “battaglia per il codice civile” (Irti) o di

una “ricodificazione” (Castronovo), alludendo all’ipotesi di una ricostruzione del diritto privato.

Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.

IL GIUSNATURALISMO, RETROTERRA CULTURALE DELL’IDEA DI CODICE E

FONDAMENTO TEORICO DELL’UNIFICAZIONE STATUALE DEL DIRITTO

Il processo di codificazione incontrò enormi difficoltà tecniche e politiche connesse al problema di

dover sostituire al vecchio regime del pluralismo giuridico, accreditato da una tradizione centenaria,

un unitario sistema di diritto statuale: difficoltà ancora più difficili da superare, in quanto il

pluralismo giuridico era appoggiato dal ceto forense e da quegli ordini privilegiati di ecclesti e

nobili, ai quali una unificazione del diritto avrebbe fatto perdere potere. Tuttavia, c’è da dire, che

anche i contadini restavano aggrappati ai loro privilegi feudali, guardando con sospetto ogni tipo di

cambiamento.

Si può comprendere, dunque, come la codificazione riuscì a superare la forza della tradizione solo

se la si guarda come prodotto di una società in trasformazione e come frutto della profonda crisi del

razionalismo cristiano del 17-18° secolo. Per spiegare cosa abbia spinto la società europea alla

codificazione, cioè, dobbiamo tener conto dei fondamenti filosofico-culturali sui quali il codice si

basa, in quanto se considerassimo soltanto i motivi tecnici avremmo una visione d’insieme

insoddisfacente: non si può pensare, cioè, che la codificazione sia stata solo la risposta ad un

bisogno di semplificazione del diritto.

L’idea di codice, dunque, potè acquistare forza solo sulla base di radici prettamente teoriche e

filosofiche: queste radici si svilupparono nell’ambito della dottrina del giusnaturalismo, dottrina

successivamente in parte assimilata e propagandata dall’illuminismo di fine ‘700.

Ciò vuol dire che i presupposti del giusnaturalismo spinsero aristocratici illuminati, funzionari

del governo, professori universitari (ecc ecc…) a chiedere riforme modernizzatici dell’ordine

giuridico.

In Inghilterra, invece, si ebbe un paradosso: anche se tanti fondamentali contributi alle teorie

giusnaturalistiche (come quelle di Hobbes e Locke), infatti, partirono da questo paese ed andarono,

poi, ad influenzare la cultura continentale, esse poi abbandonarono il loro luogo di nascita. Il motivo

di tutto ciò risiede nel fatto che queste teorie non potevano concretizzarsi se non attraverso la

legislazione, mentre l’Inghilterra era il regno del diritto non scritto e della giurisprudenza, una

giurisprudenza sulla quale il potere del sovrano non poteva prevalere.

Così il mondo dei giudici di common law continuò a risolvere i problemi di diritto con i metodi di

sempre.

Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.

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Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.

Le dottrine giusnaturalistiche furono caratterizzate dal pensiero dominante del razionalismo

giuridico. Esse:

-fecero emergere l’ipotesi di una ristrutturazione scientifica del diritto del tutto indipendente dal

tradizionale ordine giustinianeo

-influenzarono alcune grandi monarchie del continente

-portarono a considerare fattibile la riunione, in un unico testo legislativo, di un diritto chiaro e

semplice, rapportato alla natura dell’uomo.

Il giusnaturalismo lega la sua fortuna soprattutto…

-alla diffusione delle opere di GROZIO (De iure belli ac pacis)

In Inghilterra:

-alle teorie assolutistiche di HOBBES

-e alle teorie liberali di LOCKE

In Germania:

-al razionalismo giuridico di VON PUFENDORF e THOMASIUS, da un lato

-e a quello di LEIBNIZ e WOLFF dall’altro,

che elaborarono costruzioni logico-matematiche del diritto, dalle quale dipesero le codificazioni

civilistiche prussiana e austriaca

In Francia:

-alle sistemazioni scientifiche di DOMAT e POTHIER, i cui schemi di unificazione organica delle

norme costituirono le premesse alla codificazione civile napoleonica.

Anche se questi indirizzi speculativi (riflessivi, teoretici) sono ben differenziati tra loro, le varie

versioni del giusnaturalismo sono accomunate:

-da un identico atteggiamento critico nei confronti degli ordinamenti vigenti, reputati incerti e

confusi

-dalla stimolazione di un intervento che fosse innovativo nell’ambito del diritto

Le idee che, seppur accolte con notevoli varianti, furono alla base del giusnaturalismo sono queste:

1) La presupposizione di un primitivo stato di natura e di convivenza spontanea precedente alla

società civile, in cui l’uomo gode, pacificamente ma rischiosamente, perché senza la protezione di

una autorità pubblica, di alcune fondamentali libertà. Libertà, queste, tanto illimitate, da tradursi in

violenza di tutti contro tutti (Hobbes)

2) L’ipotesi che, per garantire al meglio i propri diritti, gli individui abbiano stipulato un contratto

sociale (Hobbes)

-fondando lo Stato, e cioè una istituzione organizzata secondo leggi positive e

-legittimando il potere politico di un sovrano

3) che le leggi positive debbano riprodurre il diritto di natura, un diritto costruibile

matematicamente come un sistema scientifico rigoroso di diritti soggettivi naturali in capo all’uomo

(Domat, Wolff)

Di questa idea non è partecipe Hobbes, secondo cui, invece, con il contratto sociale tutto il diritto

viene a ridursi a diritto positivo, e cioè alla volontà imperativa del sovrano, ed i diritti dei sudditi

saranno solo quelli che la legge vorrà riconoscere loro.

o Questo filone viene sviluppato in modo differente da Pufendorf, secondo cui le leggi

naturali (poste dalla volontà di Dio), e le leggi positive (poste dalla volontà del sovrano)

sono comandi che prescrivono doveri, doveri al di fuori dei quali si apre l’ambito delle

libertà dell’uomo.

Dunque, è evidente che, seppur nella loro diversa combinazione all’interno dei vari indirizzi

filosofici, tali concezioni indicavano tutte la medesima esigenza di definitivo rioridinamento

razionale del diritto positivo.

Fatte proprie dall’illuminismo, esse verranno utilizzate proprio per raggiungere questo traguardo.

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GIUSNATURALISMO E POSITIVISMO GIURIDICO

Occorre, inoltre, riflettere sulla connessione, costituitasi come conseguenza della codificazione, tra

giusnaturalismo e positivismo giuridico, due concezioni del diritto che oggi vengono spesso

considerate inconciliabili.

le dottrine giusnaturalistiche si esplicavano in una concezione dualistica del diritto: ponevano alla

loro base la presenza della coppia diritto naturale-diritto positivo, assegnando al diritto naturale una

superiorità sul diritto positivo e presupponendo una correzione delle norme positive attraverso il

ricorso ai principi naturali di equità.

 Solo Hobbes annullava questi dualismo, sentenziando che lo Stato, creato con il contratto

sociale, fosse l’unica fonte del diritto.

Tuttavia, con l’avvio del processo di codificazione, con l’entrata in vigore, cioè, dei primi codici,

presero vita delle dottrine basate tutte su una concezione monistica e non dualistica del diritto:

unico diritto è quello positivo. Sorge spontaneo, dunque, chiedersi come possa essere stata, allora,

la filosofia del diritto naturale a suggerire l’idea di codificazione.

Il legame tra le prime grandi codificazioni ed il diritto naturale è molto evidente: le scelte normative

e l’impianto sistematico e razionalistico dei codici civili prussiano, napoleonico e austriaco (che

Wieacker ha chiamato “codici giusnaturalistici”), sono debitori del pensiero di Wolff, di Domat, di

Pothier e in particolare della tripartizione giustinianea tra personae, res e actiones. Il legame con

costoro, d’altra parte, è stato talvolta dichiarato anche dagli stessi autori della codificazione.

Eppure il positivismo giuridico (basato su una concezione monistica del diritto), sorse proprio sul

terreno preparato dal giusnaturalismo (basato, invece, su una concezione dualistica del diritto), e in

continuità, piuttosto che in contrapposizione, con esso.

Il passaggio si ebbe con il codice napoleonico, che Napoleone volle promulgare come un testo in

cui il legislatore era riuscito a racchiudere le regole della ragione naturale. Una volta proclamato,

dunque, che tali regole erano positivizzate nel codice, questo fu presentato come diritto esclusivo,

sottratto ad ogni possibile interpretazione, perché già completo.

Fu in questo modo che naque il positivismo giuridico, e cioè quando:

-il potere politico pretese di aver realizzato un diritto eticamente e razionalmente valido, e

legalmente certo. Si ebbe cioè, una positivizzazione della giustizia naturale ed il conferimento del

primato esclusivo alla (completa) legge statuale.

Il positivismo aveva divorato il proprio padre: il giusnaturalismo.

GIUSNATURALISMO E DIRITTO ROMANO

Ci si potrebbe chiedere, poi, se il diritto naturale (giusnaturalismo), elaborato dai grandi esponenti

del razionalismo in “norme di ragione”, abbia finito per soppiantare o comunque per privare della

sua tradizionale preminenza il diritto romano: ci si potrebbe chiedere, cioè, se nei primi codici civili

le regole elaborate dal razionalismo giuridico avessero sostituito i contenuti dell’antico corpus iuris.

In effetti il diritto naturale era nato come l’alternativa razionale al regime di diritto comune,

divenuto ingombrante, incerto e disperso. Tuttavia, questo antagonismo con esso, si trasformò per

molti aspetti in alleanza: gli esponenti del razionalismo giuridico, infatti, accolsero l’idea di una

concordanza di fondo tra diritto naturale e diritto romano: depurato dalla norme e dagli istituti

ormai superati, il diritto romano, molto spesso, si rivelava ai loro occhi come ragione scritta (ratio

scripta).

Fu così che:

-il diritto naturale operò un vaglio critico del diritto romano

-il diritto romano fornì al diritto naturale materiali abbondanti per la sua costruzione.

Questo spiega

sia la grande quantità di diritto romano nei codici europei,

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sia il fenomeno delle categorie romanistiche, rimodellate secondo lo spirito del razionalismo

moderno.

GIUSNATURALISMO E ASSOLUTISMO POLITICO, OVVERO CONTRATTUALISMO E

STATUALISMO

Dunque fu proprio il giusnaturalismo, fatto circolare dall’illuminismo, la forza culturale che spianò

la strada all’idea di codificazione, in quanto la forza politica del sovrani assoluti da sola non sarebbe

stata sufficiente al compimento di un’opera di unificazione giuridica nazionale di tali proporzioni.

Non era, infatti, un’impresa da poco sopprimere e poi sostituire il diritto comune, che da secoli

trovava la propria disciplina nel corpus iuris e nelle centinaia di volumi di dottrina e giurisprudenza

ad esso collegati.

E neppure appariva facile una riforma che livellasse lo statuto giuridico di terre, corporazioni e

categorie sociali: infatti proprio i privilegi dei ceti conservatori come clero, nobiltà, classi togate,

rappresentavano le tradizionali garanzie di stabilità del potere politico:

Se consideriamo l’atteggiamento conservatore dei togati e dei forensi, ci accorgeremo che

dietro la difesa, ad opera di costoro, del regime di diritto comune, risiedevano in realtà

-sia ragioni di potere e di interessi corporativi

-sia ragioni tecniche, collegate al fatto che il giurista professionista è, per mentalità, legato al

diritto esistente, e dunque non sarà mai un riformatore o un rivoluzionario perché diffida da

ogni diritto nuovo.

E’ dunque impensabile credere che egli volesse sbarazzarsi del proprio strumentario consueto,

ed imparare da capo un diritto sconosciuto: il fatto che il corpus iuris fosse così idealizzato,

rendeva arduo ogni tentativo di progettare una alternativa al sistema tradizionale.

Fu dunque in questo senso che il giusnaturalismo sbloccò la situazione, offrendo un sostegno ai

governi assoluti: i sovrani si sentirono spiegare perché fossero legittimati ad intervenire con

riforme radicali e come dovessero intervenire.

Secondo il giusnaturalismo, il contratto sociale era stato un atto di sottomissione al monarca, ed

un riconoscimento della superiorità delle ragioni dello stato rispetto agli interessi degli individui

e dei ceti. Era proprio questo patto, stipulato per il bene della società, ciò che giustificava

l’esigenza di unificare ogni potere, a cominciare da quello legislativo, nelle mani di una autorità

suprema.

A compiere questo intervento legislativo, però, non doveva essere un legislatore qualunque,

bensì un legislatore illuminato: siamo nello stadio in cui giusnaturalismo entra nella fase

illuministica della sua evoluzione, mettendo a punto ciò che i sovrani avrebbero dovuto fare o

non fare, in cambio della delega loro concessa. Le teorie giusnaturalistiche erano state accolte e

rielaborate in vario modo da molti intellettuali illuministi d’europa, che si erano proposti come

interlocutori e consiglieri dei monarchi: in questo modo, essi, accentuavano gli aspetti non solo

utilitaristici delle dottrine sul contratto sociale, ma anche quelli liberali:

questo era in sintonia con le attese di quella minoritaria borghesia d’ancien regime, interessata

alla libertà di opinione e di iniziativa economica: costoro scorgevano nel diritto della ragione più

che un complesso di regole intese in senso oggettivo, un insieme di diritti soggettivi dei quali

l’individuo gode in vista del proprio utile (quali la libertà di possedere, la libertà di contrattare, la

libertà di professare le proprie convinzioni religiose..) In questa prospettiva, la codificazione

diventava una positivizzazione di questi diritti, e cioè uno strumento per organizzare in modo

razionale una società fondata sugli interessi naturali individuali.

Si poteva però persuadere in questo senso il potere assoluto?

Sicuramente, in quanto la certezza del diritto apportata dalla codificazione avrebbe rafforzato il

potere che l’avesse garantita: la codificazione, dunque, avrebbe significato acquisizione del

controllo dell’ordinamento positivo, che sarebbe stato sottratto una volta per tutte al monopolio

dei giuristi.

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Anche se dunque, per lungo tempo, i sovrani assoluti avevano esitato a muoversi contro i ceti

loro alleati da sempre, ora le argomentazioni di queste élites culturali, che..

-evocavano un contratto sociale come matrice del dello stato

-e che offrivano la loro alleanza al potere politico,

apparivano convincenti.

Gli illuministi mostravano di sapere ciò che avrebbe potenziato lo stato assolutistico:

sapevano che, proclamando la libertà di culto per tutti, e l’uguale condizione di suddito

prescindendo dalla confessione religiosa, lo stato avrebbe ridimensionato il potere della chiesa,

che alla lunga, avrebbe al contrario esteso la propria ingerenza.

sapevano che, concedendo una generale libertà economica, e abolendo dogane interne e

monopoli commerciali, il sovrano avrebbe liquidato il potere delle corporazioni professionali.

In cambio di tutto ciò, si offriva agli illuministi e all’intera società l’effetto garantistico della

certezza del diritto: quando, cioè, si è governati da un codice fisso di leggi che si devono

osservare alla lettera, anche se una di esse può essere illiberale, essa darà comunque ai suoi

destinatari la libertà di compiere tranquillamente ciò che non vieta, permettendo loro di

acquistare sicurezza.

Dunque anche i privati avrebbero sperato, oltre che nella certezza delle nuove leggi, anche nella

loro bontà, perché poste da un despota obbediente ai principi di natura, da parte sua, il sovrano

avrebbe stabilito lui, insindacabilmente, quale fosse il bene dei suoi sudditi.

L’ASSOLUTISMO ILLUMINATO: CENNI ANTICIPATI

Tutto ciò ci agevola nel comprendere, nel complicato clima del ‘700 avanzato, la temporanea

alleanza tra alcuni sovrani assoluti europei e i riformisti cresciuti nell’ambito del giusnaturalismo.

Questa alleanza fu, cioè, un’intesa tra le due opposte forze dello statualismo autocratico

(=assolutistico) e dell’individualismo garantistico, volte entrambe a sostenere l’idea di

codificazione. Poiché di questa alleanza furono mediatrici alcune correnti dell’illuminismo, la

formula politica per definirla prese il nome di assolutismo illuminato, secondo una espressione

inventata dagli storici tedeschi di metà ‘800.

Anche se essa, dunque, era corrente ambigua, rappresentava, però, anche l’etica politica del buon

governo, che si contraddistingueva

-per la forte carica riformistica

-per il fatto di essere lo schema mentale operativo dei burocrati di corte

-per il dinamismo che trasfuse nei disegni politici dei despoti che si servirono di alcune dottrine

illuministiche.

Fu in questo modo che l’assolutismo illuminato cambiò per sempre il volto dello stato e del diritto

in alcune zone d’Europa, aprendo la strada al moderno stato di diritto: le tecniche di governo e i

moduli di razionalizzazione amministrativa creati dall’illuminismo, infatti, sopravvissero anche alla

sua fine, continuando a funzionare nel tempo anche nell’ambito di ordinamenti a struttura liberale.

E’ proprio in questa atmosfera culturale caratterizzata da opposte ideologie che il concetto di codice

prende corpo, concretandosi in monumenti legislativi, rispetto ai quali i sovrani illuminati dissero di

aver voluto tradurre il diritto di natura in norme positive. Il fenomeno della codificazione, punto di

svolta nella millenaria tradizione giuridica occidentale, ebbe inizio nei decenni dell’assolutismo

illuminato, costituendo il filo conduttore della politica del diritto dei sovrani che si erano appropriati

delle teorie dei lumi.

I codici avrebbero dovuto formalizzare il nuovo assetto della società, governata interamente dal

“paterno despota”: questo grandioso disegno volto a liquidare di colpo secoli e secoli di tradizione

giuridica in nome della ragione, però, nell’assolutismo settecentesco non riuscì che in parte, sia per

via di difficoltà tecniche intrinseche, sia per la resistenza della tradizione stessa.

Attorno al 1780, la monarchia asburgica riuscì a realizzare la codificazione del diritto penale e

processuale, nonché una parziale e provvisoria codificazione del diritto civile (il noto codice civile

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Giuseppino). La lunghissima opera di progettazione del codice civile austriaco, iniziata per volontà

dell’imperatrice Maria Teresa nel 1753, si sarebbe conclusa solo nel 1811, secondo schemi tecnici e

presupposti politici lontani da quelli originari.

Per quanto riguarda la monarchia prussiana, invece, essa riuscì a terminare la codificazione del

processo civile, promulgando un celebre testo legislativo abbracciante il diritto civile, il diritto

penale, e alcune parti del diritto pubblico: l’Allgemeines Landrecht del 1794. Si trattava di un

capolavoro di tecnica giuridica, che però rimaneva legata, sotto molti aspetti, al particolarismo

giuridico-sociale d’antico regime.

Se, dunque, teniamo conto dei pochi codici entrati in vigore, il bilancio della codificazione

settecentesca appare piuttosto scarno. Tuttavia, il fatto che essa si fosse realizzata, fu il fenomeno

che costituì la base per la storia giuridica dell’ottocento europeo.

LA MAPPA DELLA CODIFICAZIONE ASSOLUTISTICA: LA GRANDE ASSENTE

I paesi europei interessati alle codificazioni promosse dall’assolutismo illuminato, dunque, furono

essenzialmente dell’aria germanica.

 Aggiungiamo a questi il Regno di Napoli e gli Stati italiani soggetti agli Asburgo (e cioè

Lombardia e Granducato di Toscana), investiti dal riformismo legislativo avviatosi nell’impero

austriaco.

 Teniamo conto anche degli echi dell’illuminismo registratisi in Russia e in Polonia, in cui i

rispettivi sovrani abbozzarono un qualche programma di riforma legislativa.

 Resta, però, completamente fuori dal campo dell’assolutismo illuminato la FRANCIA, culla

culturale dell’illuminismo, che poi si era diffuso in tutta l’europa. Essa…

-pur vantando la legislazione accentratrice di Luigi 14

-pur essendo il paese di Pothier, le père du code civil

-pur essendo la patria dell’enciclopedia e la terra da cui si erano irradiate le teorie di Montesquieu,

Voltaire, e Rousseau

non conobbe codici dell’assolutismo.

Questo mancato appuntamento con la storia è tanto più singolare, quanto pensiamo che, già nella

Francia del 17° secolo, il Re Sole, Luigi 14, era divenuto famoso per la formula l’état c’est moi.

Dunque, non è cosa semplice spiegare i motivi dell’assenza della monarchia francese

all’appuntamento con la codificazione, spiegazione che appare ancora più difficile se guardiamo al

comportamento di due sovrani come Luigi 15 e Luigi 16

-che rivendicano un potere supremo affidato loro da Dio,

-e che sono entrambi grandi riformatori e modernizzatori

Ma le pur radicali innovazioni introdotte dalla monarchia francese, risultarono comunque

disorganiche, disordinate ed incomplete: non inserite, cioè, in un progetto globale di riforma.

In particolare Luigi 16 si trovò a dover affrontare una crisi finanziaria di tipo esplosivo: alla

gravissima depressione economica che impoveriva il popolo, si accompagnava il malcontento

del Terzo Stato, e cioè il malcontento di quella larga fascia di sudditi che a differenza dei due

ordini privilegiati, sopportava pressoché interamente gli oneri di una irrazionale ed ingiustamente

distribuita imposizione fiscale. Fu così che:

-frustrato dagli instabili interventi di riforma economica e legislativa

-ostacolato dalla sistematica contestazione delle corti di giustizia che, da custodi delle leggi,

pretendevano di rappresentare la nazione

-danneggiato nell’immagine da numerosi scritti diffamatori, volti a screditarlo

-abbandonato, in ultimo, anche dal clero e dalla nobiltà (forze, queste, che diedero il via alla

rivoluzione)

il potere monarchico si trovò in una situazione disastrata. A proposito di questa situazione di

decomposizione del regno e di dissolvimento del carisma monarchico, si è perfino parlato di “prerivoluzione francese” e di “dispotismo della debolezza”. Ecco il motivo per cui in Francia

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l’assolutismo illuminato non ha potuto trasformarsi in una forma politica compiuta e le teorie dei

lumi sono in gran parte rimaste enunciazioni astratte.

Fallita dunque il Francia la formula dell’assolutismo illuminato, perché la codificazione si avviasse

ci volle, invece, una rivoluzione. Rivoluzione che, al suo culmine, avrebbe liquidato l’assolutismo,

proclamando la legge, e non il re, sovrana della nazione: la loi, espressione della volontà generale, e

non le roi.

In Francia, il primo assolutismo che possiamo chiamare, approssimativamente, “illuminato”,

sarebbe stato quello di Napoleone Bonaparte.

Dunque, il filone francese del processo di codificazione del diritto in Europa, non passò attraverso

nessuna corte illuminata, ma ricevette forza dalla rivoluzione, e, finita questa, sfociò nel grande

code civil del 1804. Esso appare tanto più importante in quanto gli si affiancò, cosa che non

avvenne nell’area germanica, un simultaneo processo di costituzionalizzazione: il primo processo

di codificazione costituzionale, questo, avviatosi sul continente europeo.

C’è un collegamento tra le costituzioni rivoluzionarie e il codice civile, che mette la parola fine alla

rivoluzione in età napoleonica: Mentre infatti…

nelle costituzioni rivoluzionarie, ritroviamo come principale elemento dello stato liberale

ottocentesco il principio della divisione dei poteri

il codice civile è ispirato ai principi dell’uguaglianza e della pari capacità giuridica dei soggetti.

Esauritisi i filoni dell’assolutismo illuminato e quello rivoluzionario e poi napoleonico, il solo

legame che rimane col passato è da scorgersi nella basilare ispirazione romanistica delle

codificazioni sette-ottocentesche, che per questo loro carattere possono essere qualificate come

romanistico-borghesi.

Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.

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PARTE SECONDA:

DIRITTO E POLITICA NELLA CULTURA DELL’EUROPA DEI LUMI

GennaroAcquario1980

([email protected])

SEZIONE I:

L’ILLUMINISMO GIURIDICO

Il tribunale della ragione

ILLUMINISMO IN GENERALE E “ILLUMINISMO GIURIDICO”

Le parole di Gaetano Filangeri, illuminista napoletano di fine ‘700, che disse che “la legislazione

era l’oggetto comune di coloro che pensano” ci suggeriscono cosa sia stato l’illuminismo giuridico.

Mentre l’illuminismo, e cioè quella corrente della storia giuridica europea che occupa la seconda

metà del ‘700, infatti, era caratterizzato dal diritto (“la legislazione”), e dallo spirito raziocinante

delle élites culturali (“coloro che pensano”),

l’illuminismo giuridico non è caratterizzato da questi due elementi considerati singolarmente,

ma dal fatto che essi costituiscano una coppia: coloro che pensano (le classi colte), collocano il

diritto tra i temi primari delle loro riflessioni.

Non è cosa semplice dare una definizione sintetica dell’illuminismo, movimento di pensiero il cui

nome corrisponde:

-al tedesco: aufklarung

-al francese: lumières

-e all’inglese: enlightenment

L’illuminismo, più che una dottrina con un unico ed eterogeneo significato, è un atteggiamento

mentale. Di solito ci si riferisce alla formula in cui Kant, rispondendo al quesito su cosa fosse,

appunto, l’illuminismo, disse: “sapere aude!” (“Abbi il coraggio di servirti della tua personale

intelligenza!”).

Kant intende l’illuminismo come l’uscita dell’uomo da uno stato che non è mancanza di ragione,

ma mancanza di coraggio di servirsene.

Se, tuttavia, intendiamo quel “sapere aude!” come coraggio di pensare da sé, come invito, cioè, a

ricercare una verità non dogmaticamente precostituita da autorità esterne, allora questa formula può

benissimo rappresentare un illuminismo che si esprime in un progetto emancipatorio dell’umanità:

la conquista dell’autonomia intellettuale dell’uomo e la libertà da ogni autorità che voglia imporgli

e rivelargli la verità.

Questa idea di Kant dell’illuminismo come coraggio di servirsi della propria personale intelligenza,

però, contiene delle inquietanti possibilità di sviluppo:

In quanto progetto liberatorio esclusivamente umano (perché privo di ogni legittimazione divinorivelata), l’illuminismo possiede capacità nichiliste.

Se l’uomo è l’unico padrone del proprio pensiero…

 allora egli lo è anche dei propri giudizi:

La morale che egli può darsi, cioè, può identificarsi

-o in un umanesimo di stampo cristiano, ma secolarizzato (come avviene proprio con Kant)

-o nella morale dell’assenza di ogni morale (come avviene, ad esempio, con Sade).

 spetta ad una elite di filosofi il compito di guidare filantropicamente l’umanità verso la

liberazione:

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questo elitismo pedagogico, però, può capovolgersi negativamente, risolvendosi nella pretesa di

educare le masse dall’alto, attraverso tecniche di manipolazione.

L’illuminismo, dunque, ha due volti:

-uno umanisticamente nobile

-l’altro pericolosamente oscuro

Tuttavia, questo straordinario fenomeno culturale non può essere spaccato in due, perché frutto

dell’inestricabile pensiero occidentale.

Secondo gran parte degli illuministi, le capacità della ragione umana

 sono contenute entro i limiti dell’esperienza: ogni ipotesi metafisica che trascende il mondo

sensibile direttamente osservabile, è al di fuori dalle possibilità di conoscenza e di dominio

dell’uomo e dunque, appartenendo al mito, l’uomo deve rinunciarvi.

 ma sono grandi entro i limiti dello studio sperimentale: l’uomo deve liberarsi dalla

soggezione ai dogmi e alle credenze che non hanno fondamento nella ragione, bensì nella

tradizione o nella rivelazione. Dunque nell’ambito di una (pur se problematica) ricerca della

verità, la ragione ha il primato sulla tradizione e sulla rivelazione.

Di solito si imputa all’illuminismo anche un radicale antistoricismo, e cioè un rifiuto del passato,

da considerarsi come una realtà che deve essere superata del tutto.

In realtà, però, il vero bersaglio della critica illuminista non è tanto la storia, concepita come un

progresso ininterrotto delle facoltà umane, ma la tradizione, e cioè quel bagaglio di regole ed

opinioni ricevute dal passato senza un controllo critico della ragione.

Alla volontà di porre il sapere proveniente dalla tradizione al vaglio della ragione, si collega il

tipico atteggiamento pragmatico dell’illuminismo: la cultura illuministica, infatti, è più pratica che

speculativa (riflessiva).

L’illuminismo, progetta una nuove immagine del mondo, antropocentrica e desacralizzata.

Questa corrente vuole,

-attraverso il potere illuminante della ragione

-attraverso il sapere tecnologico

-e attraverso la sua attitudine sperimentale

trasformare attivamente il mondo e

rigenerare l’uomo, creatura perfettibile.

o Mentre a volte, però, questa rigenerazione è intesa negativamente, quale, cioè,

manipolazione dell’uomo stesso, concepito come oggetto passivo di trattamenti

pedagogici.

o Secondo altre correnti, il concetto di rigenerazione degli individui si ispira ad ideali

umanitari, nel senso che l’uomo deve essere illuminato dai detentori del sapere

-sulla propria libertà e

-sulla propria autonoma capacità di crearsi una identità

In ogni caso, l’illuminismo si concreta in un dibattito avviato da un variegato gruppo di intellettuali,

(i philosophes), che considerano le loro idee e i loro scritti come un’arma

-per il rinnovamento della società e

-per il potenziamento delle facoltà dell’uomo.

La forza del movimento illuminista, è l’idea di progresso [o come la chiama Condorcet, “la marcia

dello spirito umano”]. Per progresso si intende la convinzione che l’umanità possa essere fatta

progredire verso forme di benessere e di incivilimento via via sempre più elevate. In una parola, la

convinzione che l’umanità possa essere fatta progredire verso la felicità.

Questo progresso, naturalmente, non è affidato ad una insindacabile provvidenza soprannaturale ma

ad un progetto razionale…

-controllato dall’uomo e

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-ispirato al principio di utilità: la morale illuministica è fortemente utilitaristica: l’agire umano è da

ritenersi tanto più giusto quanto più esso sia diretto al perseguimento della felicità. In questa ottica,

bene e male coincidono con ciò che è utile o nocivo alla società, intesa come una società

pienamente realizzata. E’ dunque interesse dell’uomo essere virtuoso, perché la virtù, che si

acquisisce attraverso l’uso della ragione, è la sola cosa che ci permette di vivere la nostra vita meno

male.

E’, questa, una utopistica matematizzazione della morale.

Uno spiccato spirito di riforma mette l’illuminista nell’ottica di poter fabbricare un nuovo tipo

morale e civile di uomo, attraverso una educazione programmata.: occorre riformare, secondo i

principi dettati dalla natura, il complesso delle istituzioni che disciplinano l’esistenza associata,

MA, POICHE’ OGNI RIFORMA COSTA UN PREZZO, E NON SONO IMMAGINABILI TRASFORMAZIONI

INDOLORI…

non si può aspirare a riformare il sapere tradizionale, senza che questo comporti il sovvertimento

delle basi secolari su cui si poggia

non si possono progettare nuovi modelli di società improntati all’utilità e alla felicità, senza

mettere in conto una riprogettazione che coinvolga anche l’ordinamento in cui si vive.

Ecco perché, nei discorsi degli illuministi, la parte progettuale è sempre bilanciata da una parte

distruttiva, da una polemica contro i valori medievali che sostengono l’assetto sociale di antico

regime, caratterizzato dalla tradizionale alleanza di trono e altare, di stato e chiesa. Riformare

questo assetto, significa cambiarlo radicalmente.

• E’ in questa ottica che va inquadrata l’idea illuministica di laicizzazione e

razionalizzazione dello stato, e cioè:

-al sovrano viene negata la legittimazione sacrale che la tradizione da sempre gli aveva

conferito

-va proclamata, invece, la natura giuridica dello stato, vale a dire la sua specifica natura di

strumento giuridico per realizzare il bene comune.

Con l’illuminismo, cioè, si configura un assolutismo di nuovo stampo: il potere del sovrano

non è più fondato sulla volontà divina, ma è fondato sul contratto sociale, e cioè sulla delega

che i consociati hanno conferito al monarca, affinché questi assicuri il bene dei suoi sudditi.

Il re, insomma, non viene che ad essere un servitore dello stato.

• In questa luce si colloca anche l’idea di riduzione del potere ecclesiastico e

razionalizzazione della religione. A seconda delle correnti, l’illuminismo ha un diverso

rapporto con la religione:

 l’illuminismo francese tende a privare la religione dell’autorità di sapere rivelato,

mirando a ridurla

-o a strumento utile ad assolvere una funzione di disciplinamento sociale

-o a mero fanatismo

 l’illuminismo delle aree spagnola e germanica, invece, non assume mai i caratteri di

campagna apertamente antireligiosa:

-nella Germania protestante e cattolica, l’obiettivo è quello di purificare e semplificare la

religione, insistendo dunque sulla dissociazione tra scienza e fede

-nei territori del cattolico impero austriaco, invece, ove l’ingerenze dello stato sulle

questioni ecclesiastiche è sempre più forte, il deismo o l’ateismo francesi sono respinti

come moralmente pericolosi.

• Diversificato nelle sue differenze nazionali e nelle opinioni dei singoli esponenti,

l’illuminismo non si identifica in un coerente sistema filosofico dottrinale, ma è piuttosto

una mentalità, il modo di ragionare tipico della intellettualità settecentesca europea, e frutto

dei ragionamenti di moda presso questa stessa intellettualità.

E poiché l’illuminismo sottopone in primis il diritto al vaglio della ragione, ecco che nelle

accademie, nei salotti di conversazione, nei circoli culturali prendono a circolare quelle

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teorie relative al diritto che noi chiamiamo illuminismo giuridico: diritto come “oggetto

comune di coloro che pensano”.

Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.

L’ILLUMINISMO GIURIDICO: CARATTERI COMUNI E DIFFERENZIAZIONI INTERNE

NEL GIUDIZIO DELLA STORIOGRAFIA

Come non è possibile dare una definizione esauriente dell’illuminismo in generale, così non è

possibile trovare una formula unitaria che indichi i caratteri essenziali dell’illuminismo giuridico.

Se dunque non si vuole rinunciare all’uso di questa espressione, occorre accogliere l’idea che questi

philosophes abbiano condiviso un determinato patrimonio di concetti generali relativi al diritto.

Nonostante ciò, tuttavia, appare difficile accertare se questo complesso di idee comuni ha generato

una dottrina provvista di una propria unità di fondo.

A) Mario Cattaneo è lo studioso che è riuscito ad approfondire di più questo studio.

Egli è partito dalla constatazione che l’illuminismo ha ricevuto profonde influenze dal

giusnaturalismo, e in base a ciò ha individuato due presupposti fondamentali dell’illuminismo

giuridico:

-il postulato (=presupposto) razionalistico, che ispirerebbe la concezione illuministica del diritto

naturale

-il postulato volontaristico, che ispirerebbe la concezione illuministica del diritto positivo

• POSTULATO RAZIONALISTICO:

In base al primo postulato, l’illuminismo affermerebbe l’esistenza di un diritto naturale-razionale,

costituito da un complesso di principi universali di giustizia:

più che ad un diritto naturale, gli illuministi penserebbero ad una serie di diritti naturali della

persona umana (concezione soggettivistica del diritto naturale). Solo la ragione può insegnarci cosa

sia la giustizia, giustizia che a sua volta si traduce nel riconoscimento all’individuo dei diritti

naturali che ineriscono alla sua persona: diritto alla vita, diritto alla sicurezza, alla proprietà.. ecc...

• POSTULATO VOLONTARISTICO:

Il postulato volontaristico si collegherebbe, invece, alla nozione illuministica di diritto positivo: il

diritto positivo non è altro che la traduzione storica dei diritti naturali individuali, e consiste nella

manifestazione della volontà del legislatore statuale, volontà non arbitraria ma ispirata dalla

ragione.

Cattaneo ha osservato che la coppia diritto naturale-diritto positivo non dà luogo ad un contrasto,

ma ad un rapporto di equilibrio, lontano dall’odierna antitesi tra giusnaturalismo e positivismo

giuridico.

Questo rapporto è la sintesi fra giustizia e legalità:

da un lato si ha il primato della giustizia naturale, in quanto la legge è intesa come manifestazione

della razionalità giuridica

dall’altro si ha il primato della legislazione, in quanto la legge viene esaltata come unica fonte

dell’ordinamento positivo.

Siamo agli antefatti del positivismo giuridico che vedrà, poi, la sua nascita con la codificazione

napoleonica: comparso il codice civile napoleonico, si pretenderà prima che esso racchiuda la

giustizia naturale, ma poi che a quegli stessi principi venga negata una essenza giuridica. A questo

punto, quando sarà “diritto” unicamente la norma positiva, l’illuminismo giuridico avrà terminato il

proprio cammino.

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-Cattaneo concepisce in termini di omogeneità l’illuminismo giuridico, dando importanza alle

sollecitazioni umanitarie e legalitarie che hanno finito per influenzare i diritti dell’uomo, dando il

via allo stato di diritto.

-Inoltre, la sua tesi ha il merito di mostrare che nel contesto delle varie teorie giuridiche

illuministiche, almeno due concetti, e cioè quello di razionalismo e quello di volontarismo, sono più

generalizzati degli altri.

B) Vi sono poi altri studiosi (come Giovanni Tarello), che considerano l’espressione “illuminismo

giuridico” come plurivalente (con più significati), e anziché dare rilievo ai caratteri di omogeneità,

sottolineano le differenze tra le molteplici dottrine illuministiche, che si sarebbero variamente

atteggiate a seconda delle specifiche realtà nazionali:

Secondo Tarello, la locuzione “illuminismo giuridico” è ingannevole, in quanto presupponendo

una lista di idee comune a tutti gli illuministi e a tutti gli ambienti politici europei, tende a suggerire

uno schema applicabile indistintamente a tutti costoro.

Questa lista di idee comuni, comprendente

-l’esistenza di diritti naturali dell’individuo che sono imprescrittibili

-la loro evidenza secondo il metro della ragione

-e la loro traducibilità in una legge chiara e certa

è invece il frutto di una razionalizzazione operata dal tardo illuminismo francese.

Secondo lui, dunque, occorre distinguere all’origine almeno due illuminismi giuridici:

quello di area germanica, in cui le teorie dei lumi ispirano un programma di governo definito

assolutismo illuminato, e divengono operative attraverso uomini con esperienza amministrativa

quello francese, costituito da un complesso di idee non ascoltate o comunque non tradotte in

pronti e risoluti interventi: in Francia le idee illuministiche non generano un assolutismo illuminato,

e perciò si prestano di più alla formulazione astratta, piuttosto che al realismo operativo. Prive di

influenza concreta, esse danno luogo non a dottrine di sostegno, ma a dottrine di opposizione

all’assolutismo.

Dunque queste due interpretazioni storiografiche (l’una che fa capo a Cattaneo, l’altra che fa capo a

Tarello), differiscono per il modo in cui si pongono, in quanto

-una, sottolinea le idee più ricorrenti nelle diverse dottrine giuridiche illuministiche

-l’altra, invece, sottolinea le differenze tra queste stesse idee, a seconda dell’ambiente in cui esse si

sviluppano (a seconda, cioè, che rimangano enunciazioni di una elite di intellettuali, o vengano

utilizzate dal potere politico).

Le due prospettive, dunque, si compensano l’una con l’altra.

DUE MODI DI PENSARE LE STESSE IDEE: IL CASO ESEMPLARE DELLA LOMBARDIA

AUSTRIACA, TERRA DI ILLUMINISMO E DI ASSOLUTISMO ILLUMINATO

La Lombardia austriaca del secondo settecento, costituisce un esempio significativo di come le due

prospettive (quella che tende a comporsi entro gli schemi del razionalismo, e quella che invece si

carica di una diversa valenza ideologica a seconda di dove opera) si compensino tra loro: infatti….

vi nasce una sorta di “summa” delle idee più diffuse fra gli illuministi francesi

di queste idee piene di potenzialità liberali, tuttavia, si impadronisce il potere assoluto, che le

rende poi funzionali alla propria politica del diritto.

A Milano, un gruppo di patrizi intellettuali accoglie e propaganda le idee riformistiche dei

philosophes francesi:

• Pietro e Alessandro Verri, danno vita ad un salotto di conversazione (l’Accademia dei

pugni) e ad un giornale satirico e battagliero (Il caffè): sono giovani, questi, che si concepiscono

come una elite pensante, capace di formare l’opinione pubblica sulle nozioni di giustizia e di

bene comune.

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• Uno di questi illuministi, Cesare Beccaria, rielabora le teorie giusnaturalistiche e

utilitaristiche sintetizzandole così bene che il suo libro, Dei delitti e delle pene, diviene un po’ il

manifesto in cui tutto l’illuminismo europeo, per un verso o per l’altro, si riconosce. Le sue

teorie giuridiche, influenzano anche i sovrani austriaci, concordi sulla necessità di sottomettere

ad un’unica legge e ad un’unica giurisdizione l’intera società, eliminando il sistema dei

privilegi: questo farà venire meno le prerogative del ceto togato, delle chiesa, degli ecclesiastici,

della nobiltà feudale sulle masse contadine…

Dunque queste idee dei lumi, importate prima in Lombardia, e poi diffusesi a Vienna,

trasformano il tradizionale dispotismo austriaco in un assolutismo illuminato, diventando il

credo politico di Casa d’Austria.

Queste nuove idee, tuttavia, sono accolte dalla corte di Vienna per quanto erano utili

all’assolutismo: venne cioè depotenziata la loro valenza individualistica, in favore di quella

statualistica.

Così, le riforme varate da Giuseppe II, appaiono concepite secondo uno schema pianificato

esclusivamente dal sovrano, che determina lui stesso contenuti e limiti delle libertà dei sudditi,

risultando dunque delle riforme estranee a coloro che le avevano invocate:

gli intellettuali milanesi, ai quali pareva possibile l’alleanza con un potere politico da loro

illuminato, avevano chiesto, in base a quanto detto da Beccaria, un codice fisso di leggi da

osservarsi alla lettera, che garantisse la sicurezza dei cittadini. Si pensava, cioè, ad un legislatore,

che in vista del bene dei propri sudditi, codificasse quelle libertà che lo stato era tenuto a tutelare:

queste dottrine dell’illuminismo lombardo, cioè, autorizzavano sì il sovrano ad esercitare una piena

autorità, ma solo subordinatamente a premesse liberali.

Tuttavia, sia i codici effettivamente promulgati in Lombardia, sia quelli che il sovrano austriaco

programmò di porre in vigore, furono elaborati ispirandosi ad un illuminismo germanicizzato,

accolto, cioè, in funzione del potere accentrato e soffocante del despota.

Eppure erano proprio i punti fermi del liberalismo dei Verri e Beccaria (primato della legge,

certezza del diritto, subordinazione del giudice alla legge) i principi che stavano alla base di questi

testi legislativi, anche se poi era esclusivamente la volontà del sovrano a fissare i diritti dei sudditi e

la misura del loro esercizio.

Il monarca assoluto, cioè, non aveva avuto bisogno dei philosophes come autori di una propaganda:

Cesare Beccaria, luminare della scienza dei delitti e delle pene, si vide consegnare il severissimo

codice penale Giuseppino a lavoro finito, già tradotto in italiano. Era questo l’assolutismo

illuminato!!!!

ALLE RADICI COMUNI DI ILLUMINISMO E ASSOLUTISMO ILLUMINATO: IL

CONTRATTUALISMO

Proprio per via della sua particolarità dunque, il caso della Lombardia austriaca permette di fare

qualche osservazione sull’entità dell’illuminismo giuridico.

L’etica politica dell’assolutismo illuminato prussiano e austriaco e l’etica di molti illuministi

d’ambiente o ispirazione francese, hanno una base comune, perché entrambe le culture si nutrono

del pensiero giusnaturalistico: questa teoria politica comune si può individuare nella dottrina

sull’origine contrattuale dello stato. L’idea di fondo è che l’individuo sia il perno della società: i

singoli uomini, unitisi, hanno creato, attraverso il contratto sociale, l’ordinamento politico, ponendo

fine allo stato di natura. Dunque lo stato ha ricevuto il potere che esercita non per diritto divino, ma

grazie al consenso degli individui, potere, questo, necessario a provvedere alla sicurezza e al

pacifico godimento dei diritti dei membri che lo compongono.

In questa concezione dei rapporti individuo-stato, si ritrovano…

-sia le premesse della teoria liberale dello stato di diritto

-sia le premesse di una moderna e razionale esaltazione dell’assolutismo.

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Dunque individualismo e statualismo, due termini agli antipodi, si ritrovano ad essere strettamente

congiunti. E’ proprio a partire da questo nodo, che l’illuminismo giuridico si scinde in correnti

differenziate:

da una parte i vari filosofi e accademici, che sognano di far coincidere volontà del legislatore e

principi di natura

dall’altra i programmi operativi dell’assolutismo riformatore. Sono, questi, programmi basati

sulla logica del servizio:

-se gli individui (e cioè il popolo), hanno delegato al sovrano il compito di assicurare il bene

comune e i diritti di ciascuno, al sovrano spetta un potere incondizionato per adempiere il compito

che gli è stato affidato.

-a questo potere, tuttavia, corrisponde un obbligo altrettanto ferreo: quello di emanare leggi certe

per quanto riguarda i diritti dei singoli e il bene della società civile, leggi che, una volta promulgate,

debbono essere rispettate non solo dal giudice, ma anche dal sovrano stesso.

E’, cioè, il sovrano, l’unico incontrollato interprete del bene dei sudditi: egli, dunque, si postula al

servizio dello stato, e non gli basta concedere ai suoi sudditi la libertà necessaria a che ciascuno di

essi cerchi la propria felicità personale, ma ha il dovere di dire come devono essere felici: così, il

bene dei sudditi diventa ciò che il sovrano vuole che il popolo voglia.

L’esito paradossale dell’etica del servizio risiede nel fatto che tutto è nelle mani del suo “servitore”.

Non avrebbero, altrimenti, altro significato le definizioni che tanti sovrani danno di se stessi:

 Giuseppe II d’Austria, “primo impiegato dello stato”.

 Leopoldo II (suo successore), “il sovrano non è che un delegato e un impiegato del popolo”.

 Federico II di Prussia, “domestico dello stato”.

Antropologia e diritto nell’illuminismo

LA NOSTRA LETTURA DELL’ILLUMINISMO GIURIDICO IN PROSPETTIVA

ANTROPOLOGICA: DIRITTO E PROBLEMA DELLA LIBERTA’ DELL’UOMO NELLA CULTURA

DEL TARDO SETTECENTO

Se Cattaneo ha individuato i due postulati più comuni, ritrovabili generalmente a fondamento

delle dottrine illuministiche, e cioè

-quello razionalistico (diritto naturale)

-e quello volontaristico (diritto positivo)

e Tarello ha invece sottolineato il diverso atteggiarsi di queste dottrine, in funzione dei vari

programmi e delle varie politiche del diritto…

noi, invece, porremo sotto osservazione le anime dell’illuminismo utilizzando una ulteriore

chiave di lettura: cercheremo, cioè, di spiegare attraverso quali percorsi gli illuministi si siano

accostati al “fenomeno diritto”, individuandolo come una problematica di fondamentale interesse.

1. POLITICA E VALORI

La politica è la sede principale in cui si realizza il valore della giustizia: la giustizia si concretizza

nel momento in cui realizza la maggiore felicità pubblica possibile (secondo la formula

dell’illuminista irlandese Francis Hutcheson “The greatest happiness for the greatest number”).

E’ proprio l’accoglimento di questa formula il primo grande punto dell’illuminismo giuridico.

Tuttavia, ci si trova di fronte ad un serio interrogativo, e cioè quello dato dal chiedersi se ciò che è

utile ai più sia automaticamente anche sempre giusto.

Anche se ne parleremo successivamente, ci saranno…

coloro che ripudiano la formula giusto=utile comune= bene

e coloro che, invece, manterranno ferma quella formula

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Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.

2. DIRITTO E ARTE DELLA LEGISLAZIONE

La politica deve realizzare l’obiettivo del bene comune attraverso il diritto, termine che designa il

modo di organizzare razionalmente l’esistenza associata (in quanto tra gli uomini non ci può essere

giustizia senza diritto).

Il nesso tra diritto e massima felicità dei cittadini (ossia l’equazione diritto buono=felicità=giustizia)

è un dogma del pensiero settecentesco.

Quella del sovrano legislatore/benefattore/artefice, insomma, è una immagine centrale

dell’illuminismo. Tanto che Helvétius, uno dei padri dell’illuminismo francese, chiama…

-capolavoro delle leggi, la felicità pubblica e

-arte della legislazione, la capacità del legislatore di far convergere nelle legge il piacere egoistico

degli individui.

3. BASILARITA’ DELL’OPINIONE PUBBLICA

Ciò che “costruisce” il potere e gli dà il monopolio del diritto, tuttavia, è l’opinione pubblica che, a

sua volta, deve costruirsi ed organizzarsi: infatti, è proprio l’opinione pubblica ciò che procura al

legislatore il consenso ad agire da parte del popolo, legittimatore supremo delle scelte politiche.

4. ELITISMO PEDAGOGICO

E’ dalla premessa dell’opinione pubblica, che deriva l’idea della aristocrazia della cultura e del

ruolo primario degli intellettuali nella società. Gli intellettuali, infatti, sono i costruttori

dell’opinione collettiva e i mediatori delle decisioni dell’autorità per il bene comune.

Costoro, cioè, sono contemporaneamente:

-gli elaboratori delle ideologie di sostegno al potere

-i programmatori della gestione del diritto

Il cuore dell’illuminismo, infatti, è proprio questa congiunzione di sapere e potere attraverso il

diritto.

La Frase di Filangeri “La legislazione è l’oggetto comune di coloro che pensano” esprime al meglio

l’idea degli illuministi secondo i quali esiste una ristretta minoranza pensante, da loro costituita, che

svolge una funzione pedagogica nei confronti di un duplice interlocutore:

nei confronti del sovrano, a cui essi indicano gli obiettivi e i mezzi giuridici ottimali per

raggiungerli

nei confronti del popolo, che deve essere educato a capire l’essenza della felicità perseguita dalla

legge.

Questa idea, dunque, del controllo dei processi educativi come compito esclusivo di una minoranza

colta prende il nome di elitismo pedagogico.

5. L’INFANTILIZZAZIONE DELLE MASSE

E’ chiaro che l’elitismo pedagogico sia in grado di conferire potere ad una oligarchia di intellettuali

e di politici legittimati a decidere per tutti. Secondo lo storico francese Martin, ciò si traduce in una

infantilizzazione delle masse, considerate come incapaci di compiere, da sole, scelte razionali.

Altro luogo comune della cultura illuministica, è il compatimento per le masse che non sanno e che

dunque debbono essere abituate alla libertà da coloro che pensano:

secondo Voltaire, il popolo francese sarà sempre un popolo debole ed ignorante, bisognoso di

essere guidato dal piccolo numero degli illuminati.

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Federico II di Prussica, si ritrova perfettamente d’accordo con quanto detto da Voltaire, tanto che

sostiene che il popolo deve essere trattato come un bambino ammalato.

6. PEDAGOGIA E PERFETTIBILITA’ DEL GENERE UMANO

Si parla di perfettibilità del genere umano, e della sua progressiva elevazione morale come frutto

di un opportuno trattamento pedagogico, quando ci si riferisce all’idea del progresso umano come

opera della ragione. In questo concetto rientra:

-il fatto che un gruppo elitario di pensatori possa modellare con i propri scritti l’opinione pubblica,

guadagnando il potere politico di cui ha bisogno attraverso una opportuna propaganda.

-la pretesa di illuminare il potere politico sul bene collettivo da perseguire con le leggi

-la certezza che il popolo, immaturo e mosso da spinte puramente sensibili, debba essere innalzato

alla virtù, e cioè a comprendere come si possano raggiungere libertà e felicità.

Dunque, riassumendo, abbiamo a che fare:

 con l’idea di una elite che pensa per conto della massa, stabilendo ciò che per questa è utile,

buono e giusto

 con l’immagine del legislatore illuminato, che fa funzionare al meglio una società di sudditi

virtuosi

 con il concetto di perfettibilità

 con l’ottimismo sul progresso dell’umanità attraverso l’educazione.

7. IL PROBLEMA DELLA LIBERTA’ DELL’UOMO: ANTROPOLOGIE RIDUTTIVE

Se l’uomo, tuttavia, è totalmente modificabile attraverso tecniche educative mirate a perfezionarlo,

qual è allora la sua natura originale? E’ egli un essere pre-morale, passivo e manipolabile, che può

essere fatto oggetto di una omologazione forzosa?

Molti illuministi, specialmente quelli francesi, risolvono il problema della libertà dell’uomo in

termini riduttivi:

secondo gli illuministi francesi, infatti, nella natura dell’uomo di innato non c’è la libertà, ma una

predisposizione ad essere educato alla felicità, predisposizione che, tuttavia, deve essere attivata

attraverso l’intervento benefico dello stato, creatore di giustizia.

l’illuminismo d’area germanica, invece, accoglie la dottrina del contratto sociale, collegandovi

l’idea della necessaria libertà degli individui, identificata in un ideale stato di natura: si spiega in

questo modo il perché sia necessaria una concreta azione di governo per condurre i sudditi ad essere

liberamente felici in una giusta società.

Certo, vi sono delle ECCEZIONI anche in ambiente francese:

la più importante è quella costituita dal pensiero di Jean Jaques Rousseau, che crede

nella originale libertà dell’uomo, inteso non come un essere passivo, ma come un essere

attivo ed intelligente. .

Risulta inquietante, tuttavia, il fatto che Rousseau conceda talvolta poteri di manipolazione

psicologica

-al precettore, che deve educare il fanciullo ad esercitare la sua libertà

-al legislatore, autorizzato ad obbligare i singoli individui a conformare la loro volontà alla

ragione.

Contraddizioni a parte, tuttavia, Rousseau resta un pensatore importante dell’ambito del

paesaggio dei lumi francesi.

Concezione antropologica decisamente meno ottimista di quella di Rousseau è quella di

Voltaire, che risolve in modo negativo il problema dell’immortalità dell’anima, postulando

che l’uomo dipenda da un “dio orologiaio” che lo ha creato esattamente come un

meccanismo, e lo ha abbandonato poi a se stesso: anche se dunque è vero che Voltaire si

interroga spesso sul problema della libertà dell’uomo, è comunque evidente il suo

complessivo scivolamento verso un determinismo privo di speranze.

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“Siamo delle macchine fatte per andare per un po’ e come piace a Dio” dice Voltaire.

Altri giganti dell’illuminismo francese si spingono poco più in là:

Per Diderot la parola libertà è un termine privo di senso

Per D’Holbach, esponente dell’illuminismo materialista, invece, la libertà è una

chimera (=utopia), e l’uomo non è mai libero in nessun momento della sua vita,

perché è sempre guidato dai vantaggi reali o presunti che egli pensa potrebbe trarre

dalle scelte che compie.

Anche per Helvétius l’uomo è un essere puramente fisico: secondo lui, dunque, le

idee che esso ha e le azioni che compie non hanno altri moventi che l’interesse

personale e l’amore di sé. Secondo lui, dunque, a prevalere è il lato fisico, tanto che

uomini e animali sono accomunati per quanto riguarda, invece, il lato morale:

-se si potessero fornire mani ai cavalli, questi avrebbero capacità umane

-e, al contrario, se l’uomo fosse stato dotato di zoccoli, sarebbe un animale.

Ci troviamo dunque di fronte al primato delle pulsioni, e alla concezione che la

ragione sia solamente uno strumento accessorio e servente rispetto alla volontà: è

così che, sommando i vari scopi particolari, si possono individuare gli scopi generali.

Questo filone c.d. sensistico dell’illuminismo, si sostanzia in un materialismo

meccanicista, che nega il libero arbitrio all’uomo, riducendolo a un fascio di

sensazioni, e dunque ad una macchina manovrata da chi ne conosce bene le pulsioni

animali, e sa quindi sfruttarne positivamente gli istinti egoistici: una macchina

manovrata, insomma, da “coloro che pensano”.

Agendo sull’uomo in base ad un calcolo delle sue reazioni meccaniche, costoro

-sono in grado di educarlo fino a fargli credere di essere libero,

-e possono condizionarlo a sua insaputa inducendolo a comportarsi in un determinato

modo.

E’ da sottolineare il fatto, però, che “coloro che pensano” sono sottratti alle

condizioni proprie dell’uomo comune di passività e di programmazione

all’obbedienza:

semmai costoro rivendicano per sé (e non per tutti!) la libertà di fronte al potere,

privando così l’illuminismo di una delle principali caratteristiche che generalmente

lo connotano: la caratteristica individualistica, intendendo per “individualismo” la

rivendicazione, da parte dell’uomo, della libertà e della possibilità di

autodeterminarsi in quanto supremo diritto naturale che gli è proprio.

8. LE DOTTRINE ISPIRATE A UN UMANESIMO POSITIVO

Nonostante il filone sensistico, nell’illuminismo troviamo anche alcune dottrine antropologiche

meno riduttive quali, ad esempio, l’illuminismo lombardo di Pietro ed Alessandro Verri e di

Cesare Beccaria: anche costoro che in un primo momento ammirano i philosophes, infatti, si

muovono in bilico sul filo del sensismo, non percorrendo, però, questa strada fino in fondo.

9. LA GRANDE ILLUSIONE DELL’ILLUMINISMO

Se è vero che la concezione dei Verri e di Beccaria si distacca dal sensismo grazie alla

dissociazione tra la sfera morale e quella fisica, e tra quella della giustizia e quella dell’utile, è

altrettanto vero che la concezione dell’elitismo pedagogico resta presente anche nell’ambiente

illuminista milanese. L’elitismo pedagogico, infatti, è da considerarsi un mito. La più grande

illusione dell’illuminismo, cioè, è proprio il credere in una pedagogia giuridica della felicità, nel

perfezionamento delle virtù umane attraverso la legge, legge praticata da una elite di direttori di

coscienza dei monarchi e di costruttori dell’opinione pubblica.

L’illuminismo, in altre parole, non si è mai arreso

-a prendere atto dell’impossibilità di guidare la storia addomesticando il potere,

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-né al fatto che il potere ha delle ragioni tutte sue, che sono spesso le ragioni della forza che, il più

delle volte, fagocitano le filosofie politiche che gli si accostano troppo.

L’esempio è quello di Voltaire, che intrattiene un ultraquarantennale rapporto con Federico II di

Prussia, di cui diviene commensale e consigliere letterario, e che si illude di poter influenzare,

esercitando su di lui il proprio fascino, e adulandolo. Caduto in disgrazia, riceve in cambio

solamente penose mortificazioni, e ne esce con l’ego distrutto. Agli intellettuali che lo

corteggeranno in nome della ragione, Federico II risponderà sempre: “ragionate quanto volete, e su

tutto ciò che volete, ma obbedite”.

Gli altri colossi dell’assolutismo illuminato, d’altronde, si muovono sulla stessa linea:

Alla intelligente, cinica e spietata Caterina di Russia ancora Voltaire si rivolge come all’eroina

nata per cambiare la faccia del mondo, professandosi sacerdote del suo tempio. Egli si ritroverà a

confessare, alcuni anni dopo, di essere stato preso in trappola dalla zarina, grande giocatrice al

tavolo della politica.

Stessa cosa vale per Giuseppe II d’Austria, sovrano discepolo della ragione, che per lungo tempo

medita sulle lezioni di efficientismo burocratico impartitegli dai consiglieri illuminati. Quando però

Pietro Verri, adulandolo, invoca fiduciosamente da lui la riforma volta a cambiare le mal

funzionanti istituzioni lombarde, egli si ritrova non solo deluso nelle sue speranze, ma anche

silurato da Giuseppe II che, da despota che si rispetti, ha sì ascoltato Verri e Beccaria, ma poi ha

agito secondo i propri piani autoritari, in vista del bene dello stato.

A dispetto di ciò, l’utopia del dialogo tra cultura e potere non è mai scomparsa dal pensiero

politico dell’occidente tanto che, nonostante tutto, si può scorgere in questa idea un nocciolo

positivo: il credere, infatti, che il potere possa considerarsi legittimo solo attraverso un sapere che lo

renda simile ad un ordine naturale-razionale, significa, in fondo, credere in una ideale armonia tra

etica e politica.

Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.

GRANDEZZA DEL LEGISLATORE, RELIGIONE DELLA LEGGE E CONOSCENZA DELLA

NATURA UMANA: IL PUNTO DI SNODO DELLE CORRENTI GIURIDICHE

ILLUMINISTICHE

Nel pensiero dell’illuminismo, abbiamo detto, la legge può funzionare come strumento di

rigenerazione sociale a condizione che il sovrano legislatore conosca esattamente i bisogni e la

natura dell’uomo, rapportando, appunto, ad esso le norme, in modo da perfezionarlo in vista del

bene comune.

Il punto di incrocio tra i configgenti itinerari della cultura illuministica, dunque, è proprio

l’antropologia che il legislatore deve presupporre, in quanto è in questo ambito che entra in gioco

la questione relativa all’esistenza o meno di diritti naturali umani.

Occorre dunque chiedersi, ora, quale sia la natura dell’uomo.

SENSISTI E MATERIALISTI

La natura dell’uomo è la condizione di un essere non libero, che meccanicamente è portato a

ricercare il piacere attraverso le proprie sensazioni.

Secondo i rappresentanti sensisti e materialisti dell’illuminismo, dunque, il legislatore deve

trasformare le pulsioni dei singoli in qualcosa di socialmente utile, in modo che gli uomini,

facilmente influenzabili, saranno portati a collaborare a loro insaputa alla realizzazione del bene

comune.

L’ILLUMINISMO LOMBARDO

La natura dell’uomo è quella di un essere non libero, ma capace di libertà grazie alla virtù innata

della perfettibilità:

spetta al legislatore-educatore, dunque, il compito di elevarlo alla libertà, garantendogliene

l’esercizio per contratto, in quanto..

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in una comunità di uomini liberi, cioè che è socialmente utile, sarà anche socialmente giusto.

E’, questa, l’opinione di illuministi come Pietro Verri o come Cesare Beccaria, che dunque

percepiscono l’attività legislativa come perfezionamento del fondamentale diritto dell’uomo della

vocazione alla libertà.

LA CORRENTE WOLFFIANA

La natura dell’uomo, essere votato alla perfezione, è composta da un sistema di libertà e di obblighi

innati che egli ha, che corrispondono a inderogabili leggi naturali.

E’, questo, il credo degli illuministi d’area germanica, che si raccolgono sotto l’ala del razionalismo

wolffiano, a sua volta ispirato al pensiero di Leibniz.

Del razionalismo wolffiano occorre mettere in risalto alcuni punti chiave:

• attraverso una serie di sillogismi, è possibile dimostrare che tutti i diritti dell’uomo derivano

dalla sua natura

• non c’è contraddizione tra leggi naturali e cristianesimo

• il metodo dimostrativo che viene utilizzato nel diritto naturale deve essere reimpiegato nel

campo del diritto positivo, con la conseguente costruzione di un sistema di norme di diritto civile

perfettamente razionali.

• la trasformazione delle leggi che regolano la natura dell’uomo in leggi dello stato deve

avvenire per mezzo di un sovrano, che ha il compito di guidare tutti i sudditi a quella felicità

materiale e spirituale che spetta loro per natura.

I FISIOCRATICI

Il postulato “conoscenza della natura umanalegislazione conseguente a tale conoscenza” viene

accolto anche dal filone economico-giuridico dei fisiocratici.

Costoro asseriscono che le leggi di produzione e di circolazione della ricchezza di uno stato devono

obbedire ad un razionale ordine della natura: quella dei fisiocratici è una concezione del diritto

naturale incentrata sui diritto di proprietà e carica di potenzialità liberali (libero sviluppo della

produzione agricola, libertà di commercio ecc ecc…), MA

-l’asserire che una buona legislazione non sia altro che la riproduzione di un immutabile ordine

naturale, non fa altro che richiamare la prospettiva wolffiana.

IL FILONE ANGLO-SCOZZESE

Il filone anglo-scozzese sviluppa in modo ottimista le dottrine di Hobbes.

L’uomo è una creatura che si muove sotto la spinta delle sue passioni fondamentali, passioni, però,

che devono essere bilanciate con i fini sociali: un legislatore saggio, infatti, può conciliare queste

passioni con l’interesse pubblico, senza pretendere di rendere l’uomo virtuoso.

Se per Mandeville, la prosperità sociale dipende dal modo con cui chi governa sa indirizzare le

passioni umane attraverso regole di ordinata convivenza,

A.Smith, invece, parte dal fatto che il dato costitutivo dell’uomo sia l’egoismo: esso, tuttavia, è

indotto a partecipare alle passioni, alle gioie e alle sofferenze altrui immaginandole come proprie.

L’uomo di Smith, dunque, è un uomo centrato su se stesso, ma simpatetico con le passioni altrui,

con la conseguenza che

• le relazioni sociali non sono altro che rapporti tra soggetti attori e soggetti spettatori, con un

alternarsi dei ruoli.

• poiché gli attori hanno bisogno della approvazione degli spettatori, questo bisogno favorisce

le passioni socialmente approvabili e scoraggia quelle riprovevoli, con il risultato che l’intera

società nel suo complesso viene ad essere munita di un potere di autoequilibrio e di

autodisciplina.

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MORELLY

Nel famoso “codice della natura”, Morelly vuole far ritornare l’uomo alla sue felicità originaria…

sopprimendo l’istituzione artificiale della proprietà

e istituendo un’organizzazione della società civile radicalmente egualitaria.

VOLTAIRE

 La concezione volterriana dell’uomo oscilla verso un pessimismo negatore o riduttore della

libertà.

 Dobbiamo tuttavia tener conto anche degli scritti di Voltaire studiatamente riservati al

grande pubblico, scritti che hanno dato vita ad un messaggio “patinato” che sopravvive

ancora ad oggi: in queste pagine, infatti, Voltaire mostra di accogliere l’idea di un diritto

naturale immutabile ed universale: affidato dalla natura a tale diritto, l’uomo nasce libero e

provvisto della capacità di distinguere il bene dal male e il giusto dall’ingiusto.

Chiamiamo “leggi naturali” quelle leggi che la natura rivela in tutti i tempi a tutti gli uomini,

e che sono volte a conservare la giustizia che essa ha impresso nei nostri cuori.

Voltaire condanna in blocco il diritto positivo, visto come la pura riformulazione di quello

naturale: esso non è altro che un caos di leggi contraddittorie e illiberali, fatte da legislatori

dominati dall’interesse politico. Occorre dunque che un nuovo legislatore promulghi un

diritto diverso, chiaro e semplice, come semplice è il diritto naturale.

Ancora una volta, dunque, troviamo il concetto che nessuna legislazione può essere buona se

il legislatore non la adegua alla conoscenza della natura dell’uomo.

ROUSSEAU

Rousseau, illuminista anomalo, non condivide affatto la concezione dell’assolutismo illuminato, in

quanto egli professa una (originale) dottrina politica, carica al contempo di valenze e democratiche

e totalitarie.

Per ciò che, tuttavia, riguarda l’onnipotenza costruttiva del legislatore, Rousseau si muove nella

direzione di tutti gli altri illuministi. Così come dice nelle pagine del contratto sociale…

l’uomo allo stato di natura è un bruto, un essere dotato di bontà congenita, ma guidato dal solo

istinto.

Ecco dunque

 intervenire la stipulazione del contratto sociale, che dà inizio

-al comportamento razionale degli individui,

-allo stato

-e alla sovranità

 profilarsi la figura del legislatore-meccanico, che ha il compito di inventare la macchina

dello Stato, e cioè il grande Tutto, composto da tutti gli individui associati.

 apparire di nuovo il ritornello illuministico: chi è preposto all’organizzazione normativa

dello Stato, deve conoscere la natura originale dell’uomo, per cambiarla. Ciò che Rousseau

affida al legislatore, cioè, è la trasformazione dell’uomo da libero selvaggio in libero

cittadino.

CONDORCET

Il pensiero di Condorcet, uomo politico della Rivoluzione, radicalmente ateo e anticlericale, è in

senso cronologico ed ideologico, l’ultimo dei grandi illuministi.

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Il suo credo è un po’ la summa dei moduli mentali ricorrenti nei diversi filoni dell’illuminismo, e

ciò spiega come nel suo “saggio di un quadro storico dei progressi dello spirito umano” si sia soliti

ravvisare un po’ il testamento dell’intero secolo dei lumi.

Ancora una volta torna l’assioma secondo cui la conoscenza della natura dell’uomo è condizione

fondamentale per una benefica legislazione:

egli è certo che…

-la conoscenza della dignità che appartiene ad ogni uomo

-e una educazione basata sulla conoscenza approfondita della nostra struttura morale

…renderanno i principi della giustizia comuni a tutti gli uomini.

Condorcet non enfatizza la figura del legislatore come quella di un impotente ed infallibile direttore

della condotta dei cittadini, in quanto egli proclama che “un redattore di leggi non è altro che un

uomo”.

UNA SINTESI: L’ESITO CONCLUSIVO DEL DIBATTITO ILLUMINISTICO SULL’UOMO,

LA SOCIETA’ E LA GIUSTIZIA

A partire dalla metà del 18° secolo, nasce una elite di intellettuali, “coloro che pensano”, che

ritroviamo in tutta Europa. Costoro si trovano particolarmente addensati nella città di Parigi, in cui

approdano anche influenze culturali germaniche, inglesi e italiane.

Questi philosophes hanno l’ambizione di illuminare il potere politico circa le riforme sociali,

economiche ed istituzionali da intraprendersi per il perseguimento del bene comune.

Se MOLTI di costoro predicano la dottrina del contratto sociale quale atto di cessazione dello

stato di natura e di fondazione dello stato, per mezzo della delega del potere politico al sovrano…

…TUTTI ritengono che lo strumento fondamentale per realizzare il bene degli uomini

nell’ambito della società sia il diritto.

Poiché si pensa che la gestione del diritto sia stata affidata esclusivamente al sovrano, si ritiene

che il diritto positivo sia la diretta manifestazione della volontà del sovrano stesso, e venga ad

identificarsi con la legge dello stato.

Tutto ciò si risolve in una gigantizzazione della figura del legislatore e in una sorta di religione della

legge: sono, questi due parametri, i denominatori dell’intero illuminismo.

A prescindere dalla diversità del loro pensiero, tutti gli illuministi si orientano secondo queste

prospettive:

• occorre porre in atto una riforma giuridica della società

• l’obiettivo è quello del bene comune

• la legge è il fondamentale strumento per il raggiungimento di questo obiettivo (religione

della legge)

• per realizzare il meglio del bene comune, la legge deve fondarsi su determinati presupposti

antropologici (deve fondarsi, cioè, sulla conoscenza della natura umana).

A questo punto, però, c’è una divaricazione di correnti:

• secondo alcuni, la legge deve adeguarsi alla natura umana (Wolff, Condorcet)

• secondo altri, la legge deve cambiare la natura umana

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• una grande differenziazione si ha anche riguardo ai contenuti sostanziali della legge:

 coloro che sono mossi dall’etilismo pedaogico, si illudono che i contenuti della legge

siano quelli della libertà individuale e della giustizia

 i despoti illuminati, invece, si presentano come unici interpreti e servitori del bene

comune, nozione da loro accolta e trasformata in quella di “bene dello stato”: i contenuti

della legge si atteggiano in funzione di questa formula.

• La forza portante che ha mosso le varie correnti illuministiche verso un’unica direzione, e cioè

quella della discussione attorno al diritto, è stata la formulazione del concetto di codificazione e,

conseguentemente ad esso, il concreto avvio del processo operativo che ha condotto ai codici.

L’apparizione dei codici ha comportato:

-l’evoluzione dello stato ad unica fonte del diritto

-la subordinazione di dottrina e giurisprudenza alla legge

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SEZIONE II:

I PILASTRI FRANCESI DELL’ILLUMINISMO GIURIDICO

Montesquieu

MONTESQUIEU: LA NOZIONE DI DIRITTO

Se è vero che l’origine di quasi tutte le teorie filosofiche dell’illuminismo francese si ritrova nel

pensiero inglese (principalmente in Hobbes, Locke e Hume)

è altrettanto vero che è in Francia che le massime illuministiche si sono sviluppate, diffondendosi

poi in Europa attraverso l’Enciclopedia e giornali di propaganda.

In Francia, dunque…

-non solo si trova la fonte di irradiazione dell’illuminismo in generale,

-ma si trova anche la culla dell’illuminismo giuridico.

Se immaginassimo l’illuminismo come un edificio ideologico, allora dovremmo prendere atto del

fatto che tre dei suoi quattro principali pilastri si trovano in Francia, e sono Montesquieu, Voltaire e

Rousseau. Il quarto pilastro è Beccaria.

Di MONTESQUIEU si può dire che egli interpreta il diritto, vale a dire che lo analizza e ne

classifica i meccanismi vitali: pressoché tutte le teorie giuridiche dei lumi hanno qualche radice

nella sua celebre opera “L’esprit des lois”, un capolavoro destinato a diventare la base del pensiero

giuridico europeo.

“Le leggi, dice Montesquieu, sono i rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose”: le

leggi, cioè, sono le regole che determinano i rapporti tra tutti gli esseri umani, secondo una logica

della natura. Queste leggi sono, ad esempio,

-l’istinto della pace,

-la ricerca del proprio sostentamento,

-l’attrazione sessuale,

-la disposizione alla socievolezza.

Come si può notare, dunque, si tratta di tendenze derivanti dalla conformazione biologica e

psicologica dell’uomo, e non da norme “di ragione”. Quello di Montesquieu, dunque, è un

giusnaturalismo di tipo non razionalistico, ma empirico: l’idea che esistano leggi universali di

giustizia dettate dalla ragione è esclusa.

Una volta che la società civile si è formata, le leggi naturali vengono sostituite da quelle positive.

Anche queste sono “i rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose”, in quanto è in esse

che si traducono le relazioni naturali e necessarie che si stabiliscono tra gli uomini.

Queste relazioni sono naturali e necessarie perché il loro contenuto è sempre necessariamente

determinato, in ogni società, da delle variabili empirico-naturalistiche:

-il clima del paese,

-la morfologia del territorio

-la religione

-la forma di governo (ecc ecc)

Dunque, secondo Montesquieu, le leggi sono sempre in un rapporto di imprescindibile dipendenza

con fattori geografici, sociali e culturali che le influenzano profondamente: esse, dunque, mutano da

popolo a popolo e da paese a paese in funzione di questi fattori ambientali.

Lo spirito di una legge, dunque, è il rapporto tra la legge e le variabili di cui si è detto.

MONTESQUIEU: LE FORME DI GOVERNO

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In ogni società, la variabile principale con la quale le leggi entrano in contatto è la forma di

governo.

In ragione della sua struttura, ogni governo richiede certe leggi e non altre: ad esempio le leggi sul

diritto di voto sarebbero impensabili in uno stato autocratico, mentre sono necessarie in un governo

democratico.

La non corrispondenza delle leggi alla forma di governo comporterebbe il declino dello stato e la

decadenza della popolazione.

Montesquieu individua tre tipi essenziali di governo:

1. il governo repubblicano, in cui il potere appartiene

-a tutto il popolo (democrazia)

-o a parte del popolo (aristocrazia)

Il valore sociale fondamentale è la virtù, intesa come amore per la patria e per le leggi. Queste:

creano condizioni di uguaglianza giuridica ed economica tra i cittadini

comminano pene proporzionate ai delitti

sono applicabili alla lettera per mezzo di tribunali popolari

2. nel governo monarchico, fondato sul sentimento della fedeltà al proprio rango e al sovrano, ogni

potere deriva dal monarca, che governa, però, secondo leggi fisse in grado di limitarne l’azione.

Esse si rivelano tanto più consone a questa forma di governo quanto più favoriscono

l’ineguaglianza dei ceti sociali.

3. nel governo dispotico il potere è esercitato da una persona sola secondo la sua volontà e i suoi

capricci: mancano, cioè, delle leggi fisse.

In questo tipo di governo, un uomo solo è tutto, è gli altri sono nulla.

Il sentimento dominante nella collettività è la paura.

Qui le pene sono durissime e spietate, e gli uomini obbediscono ad un altro uomo “che vuole”.

MONTESQUIEU: LA NOZIONE DI LIBERTA’

Tutte le forme di governo, e dunque tutti gli stati, hanno lo stesso fine, e cioè quello di conservarsi.

A questo punto, tuttavia, Montesquieu opera una distinzione tra stati moderati e stati non moderati,

asserendo che “moderati” sono quehli stati che realizzano un certo grado di libertà (cosa che si

verifica nelle forme di governo repubblicano e monarchica).

Alla domanda che cosa sia la libertà, dunque, Montesquieu risponde dicendo che la libertà politica

non consiste nel fare ciò che si vuole MA

nel diritto di fare tutto ciò che le leggi permettono. E’, questo, il diritto di compiere, in piena

tranquillità, qualunque azione che non sia vietata dalla legge. L’individuo, cioè, è libero di agire nei

tanti modi leciti possibili, perché egli ha la garanzia che nessun altro cittadino potrà disturbarlo o

opprimerlo.

MONTESQUIEU: LE CONDIZIONI POLITICHE DELLA LIBERTA’ E IL PRINCIPIO DI

SEPARAZIONE DEI POTERI

Secondo Montesquieu la libertà è resa possibile da due requisiti:

un certo tipo di legge penale

un certo tipo di costituzione.

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Per ciò che attiene a questo requisito, inerentemente allo stato moderato, capace di garantire la

libertà e di rendere impossibile l’abuso di potere, famosa è la teoria della separazione dei poteri,

poteri che in ogni stato sono invariabilmente tre: legislativo, esecutivo, giudiziario.

La libertà del cittadino dipende dalla dislocazione dei tre poteri presso organi diversi e separati.

Il fatto che queste tre potestà vengano attribuite in esclusiva ciascuna ad un organo determinato, e

il fatto che questo organo deve limitarsi all’esercizio delle attività rientranti nel suo ambito senza

invadere l’ambito altrui, assicura, per una sorta di meccanismo di reciproco controllo, che il

potere sia sempre limitato dal potere.

MONTESQUIEU: LA COLLOCAZIONE DEI TRE POTERI

POTERE LEGISLATIVO

Secondo Montesquieu, il potere legislativo dovrebbe essere nelle mani di tutto il popolo per intero.

Poiché, tuttavia, tutto ciò si dimostra impossibile sia nei grandi stati, che nei piccoli, allora occorre

che il popolo eserciti questo potere per mezzo dei suoi rappresentati, conferendo una delega a

costoro.

Inoltre, sostiene Montesquieu, sarebbe bene affidare il potere legislativo anche ai nobili,

permettendo loro delle assemblee e delle deliberazioni a parte, con il diritto di arrestare le

deliberazioni del popolo, come il popolo avrebbe il diritto di arrestare le loro (diritto di veto).

Montesquieu giustifica tutto ciò asserendo che se i nobili venissero confusi con il popolo, essi non

avrebbero interesse a difendere la libertà comune, in quanto la maggior parte delle deliberazioni

sarebbe contro di loro.

POTERE ESECUTIVO

Affidato ad un monarca, il potere esecutivo deve essere in grado di bloccare le iniziative del

legislativo, regolando la convocazione e la durata delle assemblee rappresentative. Questo perché,

altrimenti, il potere legislativo diventerebbe un potere dispotico, capace di annientare tutti gli altri

poteri.

Al contrario, invece, il potere legislativo

-non deve avere la facoltà di bloccare il potere esecutivo, in quanto avendo l’esecuzione dei limiti

per la sua stessa natura, limitarla sarebbe inutile, MA

-deve avere il potee di esaminare in quale modo siano state eseguite le leggi che esso stesso ha fatto

POTERE GIUDIZIARIO

Quanto al potere giudiziario, le osservazioni di Montesquieu si sostanziano nella famosissima teoria

della giurisprudenza meccanica, e nella integrale sottoposizione del giudice alla legge.

Il potere giudiziario, ad avviso di Montesquieu, non deve essere affidato ad un corpo permanente di

magistrati professionisti, ma deve essere affidato a persone del popolo che formino un tribunale che

duri solo quanto lo richiede la necessità.

In questo modo, non essendo il potere giudiziario legato ad un ceto, esso diventa, per così dire,

invisibile, tanto che si finisce col temere la magistratura e non i magistrati.

Dunque temporaneità e non professionalità della funzione giudiziaria.

La carica di giudice deve essere temporanea e non connessa a nessuna professione perché solo in

questo modo il magistrato è passivo di fronte alla legge, e perché solo così è possibile la garanzia

della libertà del cittadino. In caso contrario, infatti, i magistrati costituirebbero un ceto di funzionari

in grado di intervenire nella sfera del potere legislativo, fissando arbitrariamente regole giuridiche al

posto di questo.

MONTESQUIEU: LO STILE DELLE LEGGI

L’integrale sottoposizione del magistrato alla legge

P:53

53

e l’interpretazione come una meccanica attività dichiarativa,

dipendono interamente dalla preesistenza al giudizio di un diritto tassativo semplice, chiaro anche ai

non specialisti.

Un libro dell’esprit des lois, non a caso, è dedicato al modo di comporre le leggi:

nelle istruzione per la tecnica della legislazione, una importanza fondamentale è rivestita dalla

formulazione chiara dei precetti:

• Lo stile deve essere coinciso e semplice

• Nelle norme non devono comparire dettagli inutili o espressioni vaghe

• Essendo fatte per gente di mediocre intendimento, esse non devono essere troppo elaborate,

ma dovrebbero parlare come parla un padre di famiglia.

Riassumendo:

separazione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario

non professionalità del giudice

certezza della norma, chiara e precostituita al giudizio

natura meccanica dell’interpretazione.

MONTESQUIEU: LA CONCEZIONE DEL DIRITTO PENALE

L’altro requisito che Montesquieu considera necessario per ottenere la libertà è la bontà delle leggi

penali.

Ciò che deve interessare noi, tuttavia, non è tanto l’esatta interpretazione del pensiero penalistico di

Montesquieu, quanto la concorde interpretazione che i riformatori del diritto penale hanno dato

delle sue teorie, rifacendosi ad esse come ad un Vangelo di diritto penale.

Dalla bontà del diritto penale dipende la libertà del cittadino:

se da un lato, infatti, la posta in gioco è altissima, perché le norme interessano la vita stessa delle

persone

dall’altra, la libertà dei cittadini consiste nel poter fare senza paura tutto ciò che le norme non

vietano.

Occorre, dunque, che i comportamenti vietati e le norme che li puniscono siano tassativamente e

anticipatamente indicati: il postulato della certezza del diritto assume, in questo caso, particolare

vigore.

Tuttavia Montesquieu afferma che le leggi penali debbono essere non solo certe, ma anche buone, e

cioè non tiranniche.

♣ Tiranniche sono…

le leggi inutili, e cioè quelle leggi che, reprimendo comportamenti penalmente irrilevanti,

restringono l’area della libertà individuale senza che questa restrizione sia però necessaria.

le leggi che comminano pene crudeli, obbedendo ad una politica criminale di terrorismo

intimidatorio.

La severità delle pene, osserva Montesquieu, è più propria del governo dispotico, dominato dal

principio del terrore, che di quello monarchico o repubblicano, in quanto in queste ultime due forme

di governo ci si dedica di più a prevenire i reati piuttosto che a punirli.

le leggi che comminano pene non proporzionate al delitto.

Buone, invece, sono quelle leggi che istituiscono un rapporto razionale tra gravità del delitto e

severità della pena

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♣ L’ossequio al principio proporzionalistico, porta Montesquieu a pensare che i delitti contro

la religione debbano essere repressi con sanzioni meramente religiose, e cioè con pene canoniche:

in questo campo tutto si passa tra l’uomo e Dio, il solo che sa la misura e il tempo della sua

vendetta.

Dunque ci troviamo di fronte all’idea della laicità del diritto penale, e della punibilità delle sole

azioni esterne.

♣ Per ciò che riguarda il rapporto tra libertà e processo penale, e cioè per ciò che riguarda il

problema delle garanzie processuali, Montesquieu ritiene che le formalità processuali in campo

penale costituiscano (al contrario del campo civile, in cui è auspicabile una procedura snella) una

protezione per i diritti individuali:

più sono complesse le regole di acquisizione e valutazione delle prove, più i diritti della difesa della

persona sono al riparo dai soprusi.

MONTESQUIEU: ALCUNI SPUNTI ANTICIPATORI DEL CONCETTO OTTOCENTESCO DI

“STATO DI DIRITTO”

Le pagine liberali dell’esprit des lois hanno contribuito alla focalizzazione del concetto di stato di

diritto.

I meccanismi garantistici dello stato di diritto consistono nell’insieme delle tecniche di controllo

del potere, applicate nei confronti del potere dello stato, in vista della libertà del cittadino.

Il liberalismo classico parte dal postulato della limitazione delle funzioni dello stato: il miglior

paradigma dello stato è quello di “stato minimo”, il peggiore è quello di “stato massimo”. Occorre

dunque che il potere statuale sia esercitato secondo regole giuridiche che:

lo dividano: principio della separazione dei poteri

ne rendano l’azione prevedibile

lo spersonalizzino: in quanto il modello opposto dello stato di diritto, è quello dello stato

personale, in cui la personalizzazione del potere fa venir meno l’imparzialità.

In quanto modello teorico, dunque, la formula dello stato di diritto si riassume nell’idea della

protezione del cittadino, assicurata dal diritto, nei confronti del potere statuale.

A questo punto, dunque, possiamo vedere sia ciò che è presente, che ciò che è mancante nello “stato

di diritto” di Montesquieu.

 È presente l’idea di bilanciamento del potere

 E’ assente l’idea strettamente liberale di libertà, in quanto quella concepita da Montesquieu

è la libertà garantita dalla legge non contro lo stato, ma contro gli altri cittadini: lo stato non

è ravvisato come potenziale nemico della libertà dei singoli e perciò come necessitante di

ridimensionamento, ma come il protettore della libertà stessa.

MONTESQUIEU E L’IDEA DI CODIFICAZIONE: ACCOGLIMENTO E CRITICA

DELL’ESPRIT DES LOIS DA PARTE DELL’ILLUMINISMO

Occorre ora valutare l’influenza esercitata dall’opera di Montesquieu sul processo di codificazione

del diritto.

Montesquieu…

da un lato parte storico del liberalismo, per via della sua ispirazione anti-assolutistica

dall’altro palesemente conservatore, in quanto solidale con l’immagine di una società

geratchizzata e cetuale..

aveva espressamente escluso la scelta della codificazione, in ossequio all’idea di relatività e

variabilità del diritto: codificazione avrebbe significato unificazione giuridica.

La duplice valenza del libro di Montesquieu è straordinaria:

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55

• da un lato, teorizzazione dei presupposti dell’idea di codificazione

• dall’altro, ostacolo all’affermarsi di tale idea.

Nel momento in cui l’idea di codificazione doveva essere tradotta in fatti, Montesquieu venne

accusato di conservatorismo: egli apparve a molti innovatori come un difensore dei privilegi del suo

ceto, sostenitore dell’ormai superato sistema giuridico esistente.

L’ ”enciclopedia”

L’ “ENCICLOPEDIA”

L’enciclopedia o Dizionario ragionato della scienza, arti e mestieri, viene pubblicata tra il 1751 e il

1777, ed è il più noto e celebre dizionario del sapere occidentale.

Questa impresa spettacolare è stata concepita e diretta da DIDEROT e da D’ALEMBERT.

In questa opera collettiva sono state convogliate tutte le energie degli intellettuali del momento.

Secondo quanto detto da D’Alembert nel primo volume, l’enciclopedia aveva il compito di:

 fare il punto dei progressi conseguiti dal pensiero umano

 compendiare le conoscenze tecniche, scientifiche e filosofiche in un corpus universale

 mettere queste conoscenze a disposizione di un pubblico mediamente colto.

L’enciclopedia è un’opera-simbolo, una sorta di Bibbia della scienza. Essa è lo strumento di lotta e

di propaganda dell’illuminismo, in quanto “coloro che pensano” vi hanno contribuito con i loro

scritti al fine di illuminare una umanità prigioniera dell’ignoranza e della superstizione.

Nonostante

divulghi ideologie politiche non completamente sovvertitrici

e nonostante la sua strategia, innegabilmente acattolica e antiecclesiastica, non si traduca mai in

una aggressione ai dogmi..

…. nel 1759, l’Enciclopedia viene condannata dal Parlamento di Parigi ad essere bruciata per mano

del boia.

LE VOCI GIURIDICHE

Nell’enciclopedia ritroviamo anche voci giuridiche.

Le più rappresentative si devono a JACOURT, un medico (!), che non disdegna le nozioni di

teologia e di matematica e, naturalmente, neppure quelle di diritto. Eccettuato Diderot, Jacourt è il

più produttivo degli illuministi.

Se leggiamo alcune voci impegnative redatte da lui, noteremo come Jacourt cerchi di combinare

-le idee di Montesquieu sulla natura meccanica dell’attività giudiziale

-con quelle di Voltaire sulla semplicità e la chiarezza delle norme

-e con quelle di Rousseau sull’impersonalità della legge.

Voltaire

VOLTAIRE: LA POLEMICA PER LA LIBERTA’

Voltaire è ritratto dalla storiografia come la figura più rappresentativa dell’illuminismo in generale.

In effetti egli rappresenta la migliore incarnazione del clima intellettuale dei lumi.

• primato della ragione sulla tradizione

• sottoposizione alla ragione di ogni dogma rivelato

• dissacrazione di miti, pregiudizi e superstizioni a base teologico-autoritativa

• diffusione del sapere scientifico a beneficio dell’educazione dell’umanità,

Voltaire, all’unisono con il pensiero dei lumi, è tutto questo ed altro ancora.

• In lui si manifesta al meglio la tipica concezione elitistica della cultura, e cioè l’idea della

supremazia dei pochi che pensano

P:56

56

Voltaire è un polemista nato, un maestro della critica attraverso la satira. E il tema unico della

critica volterriana è la libertà:

libertà da tutte le leggi e le istituzioni che si frappongono alla libertà intellettuale, culturale e

religiosa.

VOLTAIRE: LO “STILE” DELLA POLEMICA

Lo stile impiegato da Voltaire è lo stile giornalistico, caricaturale, informale e irrispettoso dei

pamphlet: la prosa leggera, scorrevole e limpida fanno si che il ragionare ironico dell’autore abbia

effetti micidiali.

Con le sue parodie, Voltaire vuole demolire, e non semplicemente scalfire, il suo bersaglio, sia

questo una persona, una dottrina o una istituzione. Questa passione dissacratoria, si manifesta in una

irriverenza nei confronti di tutte le cose, irriverenza apparentemente alleggerita dalla bonarietà.

Litigioso, spudorato e mentitore, ma capace di farsi leggere dalla gente, che è indulgente nei suoi

confronti.

E’ proprio grazie al suo stile accattivante che Voltaire è riuscito ad esercitare una grande influenza

sull’opinione pubblica del suo tempo.

Occorre ricordare, infine, che se la velenosità dei suoi giudizi gli ha portato popolarità, essa gli ha

procurato anche…

-nemici potenti

-censure

-carcerazioni alla bastiglia

VOLTAIRE: IL TEMA DELLA TOLLERANZA RELIGIOSA

Il valore di fondo per il quale Voltaire combatte, dunque, è la libertà.

Questa passione per la libertà, tuttavia, appare molto singolare se si considera che le opere e le

lettere di Voltaire mostrano come per tutta la vita egli abbia dubitato della capacità di libera

autodeterminazione dell’uomo.

Non è la nostra volontà ad essere libera, ma la nostra azione: noi, secondo Voltaire, saremmo liberi

di agire quando ne abbiamo il potere.

Voltaire reclama il potere di agire per sé e per gli altri intellettuali come facoltà di denunciare

-gli abusi e le imposture del clero

-i pregiudizi della chiesa, visti come ostacolo al progresso del genere umano.

Scorgendo nella chiesa, e nel controllo della cultura di cui questa dispone, un grosso ostacolo,

Voltaire critica un po’ tutte le articolazioni del diritto ecclesiastico:

 Il diritto canonico, che sottrae allo stato l’importantissima disciplina del matrimonio

 I privilegi del clero, che sono innaturali

 Le istituzioni monastiche, che sono organismi parassitari ecc ecc..

 Le pratiche e i rituali religiosi, dietro i quali si cela un sistema dogmatico, che dunque,

proprio perché dogmatico, è da considerarsi irragionevole.

 Ma è la questione della tolleranza religiosa, il tema centrale della polemica di Voltaire in

nome della libertà. Secondo lui, infatti…

la religione è socialmente utile, e la credulità delle masse è comprensibile

il fanatismo del clero, persecutorio e inquisitoriale, invece, è assurdo e barbaro.

Con il suo stile brillante e corrosivo, Voltaire si batte in favore della tolleranza religiosa e del

riconoscimento a ciascuno del diritto di professare le proprie convinzioni.

VOLTAIRE: IL TEMA DELL’EGUAGLIANZA (OVVERO: L’OSCURAMENTO DEI LUMI E LA

VITTORIA DEL PREGIUDIZIO)

Esiste da sempre una diffusa, ma inconsistente, tradizione storiografica, che associa alla battaglia

condotta da Voltaire per la libertà religiosa, un suo corrispondente impegno civile a favorire

l’uguaglianza. Tuttavia si tratta di uno dei tanti miti costruito intorno alla sua figura.

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Quando Voltaire invocò un codice penale che ponesse fine al pluralismo delle fonti, egli non potè

non annettere all’evento della codificazione la sua automatica conseguenza, e cioè la parità

giuridica dei soggetti a cui il codice sarebbe stato destinato.

Ma questo postulato dell’uguaglianza giuridica dei consociati Voltaire lo lasciò, per così dire, in

disparte, mentre si preoccupò di argomentare al meglio quattro idee antiegualitarie:

Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.

LA DISPARITA’ DELLA CONDIZIONE ECONOMICA DEGLI INDIVIDUI

Per quanto riguarda la disuguaglianza delle fortune, Voltaire non ha dubbi:

nel mondo ci sarà sempre una gran parte di uomini che già al loro nascere partono in una posizione

di svantaggio e di subordinazione rispetto agli altri.

LA DIVERSITA’ GENETICA E INTELLETTIVA DELLE RAZZE UMANE

Quanto alle convinzioni razziste di Voltaire, questo è un grosso rospo da inghiottire per coloro che

fanno di tutto l’illuminismo un momento di battaglia per l’emancipazione dell’umanità.

Voltaire parla dell’inferiorità dei neri e della loro naturale destinazione a servire i bianchi: gli

europei, infatti, non fanno altro che trarre conseguenze pratica dalla congenita attitudine dei neri a

vendersi e subordinarsi.

L’INFERIORITA’ DEL POPOLO EBREO

Anche l’antisemitismo di Voltaire viene considerato un tabù imbarazzante da parte di quella

storiografia volta a glorificare illuminismo come il movimento per i diritti dell’uomo.

In una prospettiva capovolta, Voltaire esibisce il proprio disprezzo per gli ebrei, come un

sentimento di pena che la persona tollerante prova per il popolo più intollerante del mondo

L’IMMATURITA’ E L’ABBRUTIMENTO DELLE MASSE POPOLARI

Riguardo, infine, al Voltaire spregiatore delle masse e convinto antidemocratico, occorre precisare

che quello di Voltaire è un iper-elitismo che non si può neppure definire pedagogico:

secondo lui è opportuno che il popolo sia guidato e non che sia istruito, in quanto esso non è

degno di esserlo.

VOLTAIRE: IL DIRITTO E IL PROBLEMA DELLA GIUSTIZIA

Le pagine di Voltaire, che si tengono ben lontane da aspetti troppo tecnici del diritto, divulgano una

dottrina facilmente assimilabile dai vari strati dell’opinione pubblica interessata ad una unificazione

e certificazione del regime vigente.

 1. La critica di Voltaire all’ordinamento giuridico vigente, parte dalla convinzione che esista

una giustizia naturale, razionale ed universale, e cioè un evidente sentimento del giusto e

dell’ingiusto che si contrappongono alle leggi positive.

Questa giustizia rivelata dalla natura, è fatta di pochi divieti essenziali, con la conseguenza che

laddove essa tace, regna la libertà.

Le leggi umane, però, finiscono sempre per allontanarsi da questa superiore intuizione del giusto e

dell’ingiusto: “non c’è un buon codice in nessun paese del mondo”, asserisce Voltaire. Per questo

motivo, le leggi e le consuetudini locali appaiono confuse, mal fatte e contradditorie.

Sono dunque la frammentazione del diritto e la diversità delle giurisprudenze che colpiscono

Voltaire, il quale, da buon polemista, esagera gli aspetti assurdi della situazione sostenendo che

-la Francia abbia più leggi di tutta l’europa messa insieme

-nei dodici grandi tribunali di Francia ci siano dodici giurisprudenze diverse

-occorrerebbe chiedersi se una stessa persona abbia ragione in uno stato e torto in un altro.

P:58

58

 2. La critica di Voltaire è seguita dall’indicazione di una soluzione simultaneamente costruttiva

e distruttiva: fare tabula rasa del vecchio regime giuridico e sostituirlo in blocco con un diritto

nuovo. Se è vero, pensa Voltaire che si può essere liberi solo dipendendo dalle leggi, allora l’unica

scelta possibile per ottenere la libertà è quella di rifare da capo il diritto:

ogni nuova legge deve essere chiara, coerente e precisa, in quando poi interpretarla significa quasi

sempre corromperla.

Con la massima certezza del diritto=libertà, il teorema antigirisprudenziale di Voltaire è definito,

e le sue caratteristiche sono:

• supremazia della legge su consuetudine, dottrina e giurisprudenza

• necessaria chiarezza della legge

• sottrazione della legge a qualsiasi manipolazione dottrinale o giudiziale tramite il divieto di

interpretazioni extra-letterali.

 3. Voltaire accennò almeno una volta alla codificazione, a proposito della parte dell’ordinamento

positivo che, a suo giudizio, aveva più bisogno di essere cancellata e rifatta: il diritto penale e

processuale penale.

Secondo Voltaire, il nuovo diritto non poteva essere promulgato che dal sovrano, un sovrano

illuminato che cercasse soltanto nella ragione

-il modello di legislazione

-e la fonte di legittimazione

del diritto.

Da sostenitore della dottrina dell’assolutismo illuminato, Voltaire era convinto che la legge

proveniente da un monarca-filosofo non potesse non essere che una legge buona e giusta, oltre che

certa:

guidato da una elite pensante nella creazione di una legislazione conforme alla natura umana, il

sovrano assoluto avrebbe garantito libertà e felicità ai propri sudditi elargendo loro un codice.

Conscio della propria supremazia intellettuale, Voltaire non ebbe dubbi sul fatto che egli avrebbe

potuto agire da protagonista nell’ambito di questo rapporto tra potere e cultura. E così, confidando

eccessivamente in sé, egli corteggiò alcuni sovrani riformatori interessati alle idee dei lumi sulla

codificazione, illudendosi di poter influire, attraverso di essi, sulla vita politica del suo tempo.

Nell’attuazione delle loro riforme, invece, furono i despoti a servirsi della filosofia dei lumi,

laddove questa aveva creduto di servirsi di essi.

 4. Vediamo ora come Voltaire concepisca la codificazione della materia criminale.

Essa significa:

• formalizzazione del diritto e del processo penale sulle basi del principio di legalità

• razionalizzazione della repressione criminale, in ossequio all’idea che il diritto penale sia tanto

più utile alla società quanto più esso contempli pene miti e proporzionate ai delitti:

un uomo impiccato non è buono a niente, mentre un uomo condannato ai lavori pubblici è ancora

utile al suo paese, oltre ad essere un esempio vivente, asserisce Voltaire.

Profondamente influenzato dalla lettura del testo di Cesare Beccaria, egli pubblica un

“Commentario” alle pagine dell’illuminista lombardo e poi, successivamente, redige anch’egli un

proprio trattatelo sui delitti e sulle pene.

In entrambi gli scritti l’adesione alle tesi di Beccaria è quasi totale:

la misura e la qualità della pena devono essere proporzionate alla gravità del crimine

P:59

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nella repressione penale, razionalità significa anche laicità, e dunque le pene debbono punire

solamente gli atti dannosi alla società: i c.d. delitti contro la religione non sono reati ma peccati, e

dunque da abbandonare alla giustizia divina (e cioè da depenalizzare).

anche le atroci e macabre pene-supplizio, la cui esecuzione è offerta alla folla come uno

spettacolo, sono riprovate da Voltaire, perché inumane e dannose per lo stato (in quanto queste

sembrano essere state inventate dalla tirannia più che dalla giustizia).

altro tema affrontato da Voltaire in perfetta concordanza con Beccaria è il fatto che tanta parte

della procedura criminale abbia bisogno di radicali riforme:

il regime probatorio promulgato in Francia, ha dato vita esclusivamente alla rovina degli imputati:

secondo questo regime, infatti, in mancanza di una prova piena e convincente della colpevolezza

dell’inquisito, ai fini della sua condanna

-si accumulano mezze prove, mezze prove che, in fondo, non sono altro che dei dubbi, perché le

mezze verità non esistono.

-poi si raccolgono anche i quarti e gli ottavi di prove, che corrisponderebbero alle cose sentite dire

-Ed infine si somma il tutto, e da otto dicerie si ottiene la prova concreta, che serve a mandare sul

patibolo l’imputato.

per quanto riguarda la tortura, Voltaire ne critica l’uso, considerandola solo come uno strumento

volto ad ottenere la confessione: non si sa ancora nulla della colpevolezza degli imputati, e pur

nell’incertezza del loro delitto li si punisce in anticipo con un supplizio molto più spaventoso della

morte.

Qui, tuttavia, Voltaire si discosta da Beccaria in quanto:

 Beccaria, chiede l’abolizione senza eccezioni della tortura

 Voltaire riserva la tortura a coloro che abbiano assassinato un padre di famiglia o il padre

della patria, e ai quali si debba distorcere il nome dei complici.

Anche a proposito della pena di morte, la posizione di Voltaire non coincide con quella di

Beccaria.

 Beccaria, infatti, afferma che la pena di morte, in normali condizioni di ordine, sia

-ingiusta: perché non necessaria e non autorizzata dal contratto sociale e

-inutile: perché inefficace come deterrente

 Voltaire, invece, si limita a proporre una riduzione dell’uso della pena di morte, da sostituire

con la più socialmente vantaggiosa alternativa dei lavori forzati: un uomo impiccato non

serve a nulla.

 5. A Voltaire deve essere riconosciuto il merito di essersi impegnato per il miglioramento della

giustizia penale del tempo:

egli infatti si impegnò

-sia nella denuncia di clamorosi errori giudiziari

-sia nella protesta contro alcune condanne alla pena capitale, enormemente sproporzionale rispetto

al delitto commesso.

Rousseau

ROUSSEAU: UNA QUESTIONE PREGIUDIZIALE

 Se Voltaire è il più grande sostenitore della formula dell’assolutismo illuminato,

 Rousseau personifica, in base ad una concezione democratica della legge, il più radicale

ripudio di quella formula.

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Anche le ceneri di Rousseau, come quelle di Voltaire, furono trasferite al Panteon: in questa doppia

apoteosi si è scorta la prova del rispettivo contributo intellettuale offerto dai due illuministi alla

Rivoluzione Francese.

-Voltaire, combattente per la libertà e per le riforme giudiziarie, sarebbe stato presente negli spiriti

dei rivoluzionari nel periodo 1789-1791

-l’influenza di Rousseau, invece, sarebbe divenuta dominante nel triennio successivo (sino al 1794),

nell’ispirare l’egualitarismo e il totalitarismo giacobino.

E’ facile escludere l’immagine dell’antidemocratico Voltaire, cortigiano del re, e contrario ad una

violenta sovversione sociale, dall’ambito di ispiratore della Rivoluzione.

Furono infatti i rivoluzionari del tempo ad impadronirsi della sua figura, imprimendole un

contenuto ideologico che essa non possedeva affatto.

Più problematico, invece, è valutare l’uso che la Rivoluzione fece delle pagine di Rousseau:

se infatti non si può negare che le sue idee affiorino nel modo più disparato nel corso della

Rivoluzione, in quanto questa condivide con lui…

-un generico egualitarismo

-il primato della legge

-il concetto di sovranità popolare

-la definizione di legge quale espressione della volontà generale

si può invece escludere che la Rivoluzione abbia tradotto in programma i modelli di tecnica

politico-costituzionale indicati da Rousseau: come osservava il Solé egli, per sua fortuna, morì

prima di sapere ciò che gli altri avrebbero fatto delle sue teorie.

Dunque gli uomini del 1789 non fecero la rivoluzione su ispirazione di Rousseau, ma piuttosto,

messasi in moto la spirale rivoluzionaria, essi ritrovarono nelle sue pagine un tramite

-per illuminare la loro vicenda storica e

-per raffigurare le proprie scelte politiche secondo alcuni miti:

La predicazione di Rousseau, quindi, pur non avendo di certo causato la rivoluzione francese, ha

tuttavia incitato gli uomini del 1789 a comprendere la loro situazione come un crisi.

ROUSSEAU: IL CONTRATTO SOCIALE

“L’uomo è nato libero, e dovunque è in catene”: con questo brillante incipit inizia il celebre

Contratto sociale di Rousseau.

Questa frase vuole significare che, in qualsiasi luogo l’uomo si trovi, egli è comunque vittima di un

ordine sociale fondato sulla disuguaglianza, in cui il più debole è sempre oppresso dal più forte.

Partendo dunque dal fatto che gli uomini erano per loro natura liberi e uguali, Rousseau si chiede

come possa essere avvenuto questo cambiamento.

La risposta che egli si dà è un secco “lo ignoro”: a prescindere dal fatto che vi siano stati o meno,

nella storia, dei contratti di organizzazione della società mal stipulati, ciò che a Rousseau interessa

visualizzare è il contratto ideale:

così, egli parte dal presupposto logico di uno stato di natura, per teorizzare poi il suo schema di

contratto. Egli mostra:

a) quale soluzione contrattuale si sarebbe dovuta affrontare affinché si salvaguardassero libertà

ed uguaglianza tra gli uomini

b) che questa soluzione potrebbe costituire una via praticabile in futuro

c) che questa soluzione è l’unica logicamente possibile, se si vogliono superare le disuguaglianze

accumulatesi fino al presente.

Nel contratto sociale, insomma, Rousseau presenta un ideale rifacimento da capo della storia.

P:61

61

• Secondo Rousseau nella storia giunge un momento in cui, senza sapere quando, come e

perché, la libertà naturale dell’uomo non è più garantita.

• Per non soggiacere al più forte, e mantenersi liberi, occorre trovare una forma di

associazione

-che difenda, con la forza comune che la caratterizza, ciascun associato e i beni di questo

-in nome della quale ciascun associato resti libero come prima:

è, questo, il problema fondamentale a cui il contratto sociale dà una soluzione.

Il presupposto del contratto è l’uguaglianza;

lo scopo: la libertà. Si tratta di una libertà civile, che l’associato riceve in cambio della propria (non

più garantita) libertà naturale: la libertà civile, infatti, ha il vantaggio di essere tutelata

giuridicamente dal contratto.

Con il contratto si dà vita ad un corpo politico, composto di tanti membri quanti sono i contraenti,

in cui ciascun associati si annulla e insieme si identifica: nasce, cioè, un ente, provvisto di una

volontà generale, unitaria e sovrana.

Nella formula di Rousseau, governanti e governati non risultano più contrapposti, per iol semplice

fatto che si identificano:

-i sudditi divengono i cittadini

-i cittadini formano il popolo

-il popolo è il nuovo sovrano: di garanzie nei confronti dello stato, dunque, non c’è più bisogno.

Il fine dello Stato nato dal contratto e l’unico obiettivo della volontà generale, dunque, è il bene

comune.

A sua volta la volontà generale si esprime attraverso la legge: nasce cioè l’idea totalmente

democratica della legge come espressione della volontà generale.

Per volontà generale si intendono due cose:

-per quanto riguarda l’origine: che essa deriva da tutti

-per quanto riguarda la destinazione: che essa si applica a tutti, senza distinzioni.

La volontà generale, cioè…

non può essere fatta solo da alcuni, perché pochi non possono costringere l’intera collettività

non può essere fatta solo per alcuni, perché si violerebbe il principio di uguaglianza, conferendo

dei privilegi particolari.

E’ per questo motivo che la legge deve essere fatta di norme astratte ed impersonali.

Inoltre, il fatto che il popolo sia soggetto alle leggi di cui è autore comporta che la legge…

1. sia sempre giusta per definizione, in quanto nessuno può essere ingiusto nei confronti di se stesso

2. sia garanzia di libertà, perché obbedire al sovrano significa obbedire a se stessi

3. sia garanzia di uguaglianza, perché ciascuno si sottomette alla legge alle stesse condizioni a cui vi

si sottomettono gli altri.

Che cosa succede, però, se un individuo dissenziente si rifiuta di obbedire alla volontà generale

(e cioè a se stesso)?

A questo punto, dice Rousseau, egli sarà costretto da tutto il corpo politico ad aderire alla volontà

generale:

le decisioni della maggioranza, cioè, obbligano anche gli oppositori in quanto, aderendo ciascun

cittadino ad un contratto sociale stipulato all’unanimità, egli ha fatto propria in anticipo la volontà

generale, considerandola giusta per definizione.

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ROUSSEAU: IL PROBLEMA DELLA RAPPRESENTANZA E L’ESERCIZIO DEL POTERE

LEGISLATIVO

L’ostilità nei confronti della nozione di rappresentanza è uno degli aspetti tipici del pensiero di

Rousseau: egli, infatti, è convinto che nel momento in cui un popolo si dia dei rappresentanti,

questo non sia più libero.

Tuttavia, a dispetto di queste sue radicali convinzioni, egli non pensa che il potere legislativo debba

essere attribuito al popolo, ma ricorre alla mitica figura del “grande legislatore”:

Rousseau, infatti, si chiede come una moltitudine cieca, che spesso non sa quello che vuole, possa

eseguire da sé un’impresa così grande come quella della legislazione.

Poiché, dunque, gli uomini sanno raramente ciò che è bene per loro, l’intervento di un legislatore

sapiente si pone come necessario e decisivo.

L’immagine del grande legislatore, come abbiamo già visto, è quella di un uomo straordinario,

una sorta di meccanico che inventa la macchina del corpo sociale, capace di cambiare la natura

umana, trasformando l’uomo in cittadino.

Se invece ci poniamo in una prospettiva differente rispetto a quella del comando umano,

noteremo che se questa funzione è indispensabile è perché la volontà generale non coincide con la

volontà di tutti:

• Mentre infatti la volontà generale è una sorta di ragione pubblica, una regola del bene collettivo,

depurata da qualsiasi interesse particolare o occasionale

• La volontà di tutti è una specie di “viziosa sorella minore” della volontà generale, e corrisponde

agli interessi particolari che i consociati, tutti insieme, possono avere, giungendo ad ingannare loro

stessi su quale sia la volontà generale, scambiando cioè la volontà di tutti per volontà generale.

Questa geniale concezione è, tuttavia, il colmo dell’astrazione, come astratto è pensare che possa

esserci un super legislatore che non riveste alcuna carica costituzionale e che si colloca al di fuori

dello stato (e cioè al di fuori del popolo).

Nella legislazione, dunque, si trovano due forze incompatibili:

-da un lato, un’impresa al di sopra delle forze umane

-dall’altro, un’autorità che non è niente per eseguire questa impresa

 Una volta che, dunque, il legislatore ha fatto la legge, permettendo alla volontà generale di

concretizzarsi, essa deve essere sottoposta ai voti del popolo:

in questo modo la formula della democrazia referendaria garantisce il principio per cui la

sovranità non può essere rappresentata.

 Per quanto riguarda, invece, il problema della legislazione in uno stato ormai costituito e

funzionante, Rousseau ricorre alla figura del commissario:

i deputati del popolo non possono essere i suoi rappresentanti, ma sono soltanto i suoi

commissari. Essi non possono concludere nulla in modo definitivo, in quanto ogni legge che

non sia stata ratificata dal popolo in persona è nulla.

Il sistema anti-rappresentanza sognato da Rousseau, tuttavia, risulta chiaramente applicabile in una

grande nazione moderna, come è ad esempio la Francia.

Il suo ideale, infatti, era quello della piccola repubblica, sul tipo della Sparta antica.

ROUSSEAU: CODIFICAZIONE E INTERPRETAZIONE DEL DIRITTO

L’occasione per parlare di codici e del connesso problema del rapporto tra giudice e legge venne

offerta a Rousseau dal governo polacco, che gli chiese di redigere un testo costituzionale.

In questo scritto Rousseau propose un programma di unificazione delle fonti del diritto che gli era

stato suggerito dall’osservazione della realtà francese.

P:63

63

Occorre fare due considerazioni:

I. L’insistenza di Rousseau sul fatto che il breve e chiaro contenuto dei codici

(intesi come…

-esclusivo deposito della legge

-e manifestazione scritta della volontà generale)

debba essere insegnato, tramite la scuola e l’università, a tutti i cittadini, mostra che egli attribuisca

alla legge codificata una influenza educativa.

Prima ancora di essere il compendio delle regole di una società, infatti, il codice è un manuale

pedagogico volto a formare una collettività sociale immune dalla corruzione ed educata ai valori

della libertà e dell’uguaglianza:

cittadini formati dallo stato attraverso una pedagogia rigenerativa.

II. Con l’idea di lasciare ai giudici un certo margine di discrezionalità per giudicare gli eventuali

casi non contemplati dal codice, Rousseau si isola rispetto alla comune opinione illuministica in

tema di interpretazione, secondo la quale era necessaria la più rigorosa subordinazione dei

magistrati alla legge.

Ciò non toglie il fatto che egli non chieda una garanzia contro l’arbitrio giudiziale, garanzia che egli

scorge nel carattere temporaneo, e dunque non professionale, della funzione di magistrato.

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64

SEZIONE III:

L’ILLUMINISMO ITALIANO

Lumi lunari

CONFIGURAZIONE COMPLESSIVA DELL’ILLUMINISMO GIURIDICO ITALIANO: LE SUE

ANTICIPAZIONI “PREILLUMINISTICHE” E LE SUE DERIVAZIONI FRANCESI

Nel paesaggio dell’illuminismo, gli stati italiani appaiono quasi come province culturalmente

periferiche, in quanto la capitale è la Parigi dell’Enciclopedia.

Salvo delle eccezioni, nel pensiero degli illuministi italiani sono presenti due dati:

la soggezione all’egemonia intellettuale francese

la conseguente recezione dei modelli ideologici e dei modi di ragionamento francesi: è, questa,

una recezione che avviene attraverso una massiccia importazione di libri, giornali e pamphlets

francesi.

Questa apertura dell’illuminismo italiano a quello francese colpisce ancora di più se pensiamo che

alcuni suoi atteggiamenti si scorgono già in quella stagione della cultura italiana detta

“preilluminismo”. Qui noi ritroviamo figure ragguardevoli quali:

VICO

GIANNONE

DORIA

RADICATI DI PASSERANO

MURATORI

Quando i temi dibattuti da questi preilluministi vengono ripresi, alcuni anni dopo, dall’illuminismo

italiano, questi ci appaiono comunque sviluppati secondo le formule dell’illuminismo francese.

 Il fatto che l’illuminismo giuridico italiano prenda vita soprattutto per influenza

dell’illuminismo francese piuttosto che per influenza del preilluminismo ci porta a pensare, dunque,

che quello italiano sia una variante poco significativa dell’illuminismo giuridico:

le sue luci, insomma, ci appaiono come luci lunari, ossia come luci riflesse.

 In un solo ambito i lumi italiani appaiono invece come lumi solari, e cioè nell’ambito del

diritto penale.

E’, questa, una eccezione di straordinaria importanza: nel campo penalistico, infatti, domina

incontrastato il libro più famoso, importante e rappresentativo dell’intera età dei lumi, e cioè “Dei

delitti e delle pene”, di Cesare Beccaria. Questa sorta di manifesto del diritto penale viene tradotto

in più lingue e fa il giro d’Europa, influenzando profondamente le idee sul diritto e sulla giustizia e

facendo dell’Italia la culla indiscussa del diritto penale.

Occorre tuttavia precisare il fatto che magnificare quasi esclusivamente Cesare Beccaria non

significa sottovalutare l’importanza delle idee di altri uomini dell’illuminismo italiano che, anche se

non sono stati portatori di nuove idee, hanno comunque reso possibile la partecipazione dell’Italia al

grande dibattito sul diritto in corso in Europa.

UOMINI, AMBIENTI E IDEE DELL’ILLUMINISMO GIURIDICO ITALIANO. LA NAPOLI

DEL MATURO SETTECENTO

Una delle città italiane da cui, nella seconda metà del 700, si irradia di più la cultura illuministica è

Napoli. Qui troviamo:

 GENOVESI, illuminista di tendenze moderate.

P:65

65

Nel suo scritto egli afferma l’esistenza di un immutabile diritto naturale, il che è un luogo

classico dell’illuminismo; ma poi, contrariamente alle idee illuministe, asserisce che il giudice

debba necessariamente fare una interpretazione integrativa ed extra-letterale del diritto civile.

 PAGANO, che

-da giovane sostiene la necessità della codificazione statuale come rimedio all’incertezza e alla

confusione della vigente legislazione a base giustinianea.

-più tardi, come politico, propugna invece l’idea di un codice civile modellato sulle leggi di

natura, che raccolga i principi universali del diritto e del processo penale.

 GALANTI, che critica amaramente la situazione del diritto e della giustizia italiana,

amministrata senza scrupoli da avvocati non preparati: occorre, dunque, riorganizzare in modo

radicale il potere politico, abrogando il regime di diritto comune e fondandone uno basato sul diritto

naturale.

 Da menzionare, infine, sono altri due esponenti del riformismo napoletano, GALIANI e

DELFICO, che sostengono che la tradizione giustinianea vada rimpiazzata con un codice universale

ispirato alla natura dell’uomo.

GAETANO FILANGIERI

La personalità sicuramente più importante della Napoli dell’illuminismo è quella di Gaetano

Filangieri.

 Nella Napoli messa in crisi dallo strapotere giuridico della magistratura, il ministro Tanucci

ha ottenuto da Ferdinando IV due dispacci sconvolgenti:

che d’ora in avanti, i magistrati partenopei motivino le loro sentenze, basandole sulla legge e non

sulle opinioni dottrinali, che hanno reso incerto il diritto.

che in caso di lacuna, i magistrati si rivolgano al sovrano.

Non curandosi dello sdegno dei magistrati, il giovane Filangieri dedica a Tanucci le sue

“Riflessioni politiche”, con l’intento di celebrare la saggezza del provvedimento.

 L’incompiutezza dell’opera maggiore di Filangeri, “Scienza della legislazione”, non

impedisce che essa ottenga un grande successo europeo, successo testimoniato da un susseguirsi di

edizioni in Italia e di traduzioni in Germania, Spagna e Francia.

Ancora oggi si discute del successo di questo testo, dal momento che esso è sì provvisto di vari

spunti di originalità, ma manca comunque, nel complesso, di una spinta creativa autonoma che lo

animi nel suo insieme come un totale progetto innovativo.

Dunque il suo successo si deve probabilmente

al grandioso disegno strutturale dell’opera, che ha l’ambizione di illustrare un sistema di

legislazione universale capace di produrre una rigenerazione globale di tutte le società

al fatto che in Filangeri prende forma l’idea illuminista del rapporto tra la tendenza ad elaborare

astratti progetti ideali e quella a suggerire proposte immediatamente operative: in Filangeri questa

duplicità è rappresentata al meglio, e dunque anche in ciò consiste la forza di attrazione delle sue

pagine.

Secondo Filangeri occorre elevare la legge a manifestazione della ragione universale, in quanto

questa prescrive in tutti i tempi le medesime norme con il fine di ottenere la pubblica felicità:

questa associazione tra norme positive e principi universali della natura è ciò che Filangeri chiama

bontà assoluta delle leggi.

Le norme positive, tuttavia, debbono possedere anche una bontà relativa: essere, cioè, consone alla

forma di governo, alla religione, all’economia e alla cultura di ogni singolo paese.

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66

Sembra, in un certo senso, di sentir parlare Montesquieu. MA:

-mentre Montesquieu si è limitato a DESCRIVERE le varie legislazioni,

-Filangeri vuole PRESCRIVERNE la migliore, facendone una scienza sicura: se si vogliono buone

legge, occorre mutare completamente l’ordinamento giuridico tradizionale, e cioè l’ordinamento

giustinianeo.

 La promulgazione di un diritto nuovo, tuttavia, presuppone la risoluzione di vari problemi di

fondo:

• Sviluppo economico, demografico e finanziario

• Problema della cattiva distribuzione della proprietà, concentrata nelle poche mani dei baroni

feudali e degli ecclesiastici: problema, questo, che paralizza il formarsi di una società in modo

ordinato.

Il presupposto della riforma dell’organizzazione giudiziaria, dunque, è proprio la ribellione al

sistema feudale, in quanto:

nel meridione, la giurisdizione è ripartita tra feudatari e magistrati

sono i baroni feudali che nelle loro terre esercitano in modo inquisitoriale il diritto penale,

lasciandosi corrompere in cambio della concessione della grazia.

E’ dunque solo con la liquidazione da questa tirannide feudale e con la riconduzione

dell’amministrazione della giustizia allo Stato che potranno prendere vita le garanzie che Filangeri

vuole introdurre nel processo penale.

 Tuttavia le pagine di Filangieri che hanno interessato di più la cultura giuridica europea sono

le pagine penalistiche.

La parte penalistica della Scienza, infatti, deve molto al pensiero di Beccaria, le cui parole, a volte,

sono riprese alla lettera: siamo nell’ambito, occorre ricordarlo, dei c.d. “lumi lunari”.

Nonostante ciò, Filangieri non manca, comunque, di operare alcuni innesti originali:

per quanto riguarda il fine che la pena deve avere, ad esempio, se il legislatore oltrepassa il

confine della severità minimo necessaria, egli cade nella tirannide, in quanto se la società deve

essere protetta, allora i diritti degli uomini devono essere rispettati.

Dunque occorre sì neutralizzare il delinquente infliggendo ad esso una pena, ma occorre anche che

la sanzione sia prporzionata alla gravità del reato.

UOMINI, AMBIENTI E IDEE DELL’ILLUMINISMO GIURIDICO ITALIANO. LA MILANO

DEL CAFFÈ

Milano, capitale della Lombardia austriaca, è una città da tenere in considerazione nell’ambito

dell’illuminismo italiano, perché è qui che..

nasce l’opera di Beccaria

viene organizzato, per opera di Pietro Verri, un gruppo di giovani che propaganda le

rivoluzionarie idee dei lumi, ribellandosi

-ai valori autoritari delle proprie famiglie

-agli interessi e alla mentalità delle classi forensi

-alla tradizione culturale dei benpensanti in genere.

E’ appunto in seno a questo gruppo che si origina il libro di Beccaria, Beccaria che, appunto, senza

le sollecitazioni e gli incoraggiamenti degli amici, non avrebbe scritto neppure una riga del suo

capolavoro.

Gli uomini del circolo di lettura e conversazione, che la sera si riunisce in casa Verri, e che

scherzosamente viene battezzato Accademia dei Pugni (con allusione alle accese discussioni su

diritto, economia e politica) sono tanti.

Per due anni, questo club si impegna e si diverte anche a pubblicare un periodico di stampo

polemico-riformista: il famoso Caffè, i cui articoli sono mirati

P:67

67

sia ad attirare l’attenzione delle autorità viennesi

sia a provocare l’opinione pubblica, la magistratura e l’intero mondo forense milanese.

PIETRO VERRI, è il leader indiscusso del gruppo. Lui e suo fratello Alessandro sono i figli di

Gabriele Verri, il più autorevole, illustre e conservatore magistrato di Milano.

Mentre la sera, al piano terra di casa loro, i due non amati figli dissacrano con gli altri cospiratori la

giurisprudenza per cui il padre nutre una fede incontrollata, al piano superiore Gabriele rumina

strategie di difesa con la Bibbia o con il Digesto. L’illuminismo lombardo, insomma, gli sta

praticamente nascendo in casa.

 Se lo consideriamo esclusivamente sotto il profilo del pensiero giuridico, a lui e ad

Alessandro deve essere riconosciuto, innanzitutto, un merito indiretto: quello di aver suggerito a

Beccaria il tema da trattare, consigliandolo ed incitandolo durante tutta la stesura dell’opera.

 Di Verri è opportuno ricordare almeno tre scritti di contenuto giuridico:

1. L’Orazione panegirica sulla giurisprudenza milanese

Questo scritto è da leggersi in chiave capovolta in quanto Verri, usando il registro dell’ironia e

del sarcasmo, finge di parlare nelle vesti di un magistrato di convinzioni conservatrici (difficile

non scorgere in questa immagine quella del padre): questi strilla a favore della giurisprudenza

giustinianea contro Montesquieu, Voltaire, Rousseau e l’enciclopedia.

2. Un articolo pubblicato nel Caffè sull’interpretazione delle leggi, articolo che costituisce una

sorta di summa delle ideologie dell’illuminismo, relativamente al problema dei rapporti tra

giudice e legge.

 Il punto di partenza è quello dell’assoluta separazione del giudice dal legislatore (legislatore

che è il solo sovrano)

 Compito esclusivo del legislatore, dunque, è quello della legislazione

 Compito del giudice, invece, è quello di far eseguire la legge

 In pratica: il legislatore comanda; il giudice fa eseguire il comando: se i due compiti vengono

scambiati, allora viene meno la libertà del cittadino.

 La conseguenza di tutto ciò è il divieto di interpretazione, in quanto interpretare significa

sostituirsi a chi ha scritto la legge, vale a dire fare più di ciò che il legislatore ha detto.

 Quindi, per ciò che riguarda il magistrato…

nelle cause penali, egli ha il divieto assoluto di interpretare: tanto che chi ha commesso una

violazione non prevista come crimine dalla legge deve restare impunito (secondo il principio:

“nullum crimen, nulla poena sine lege”)

nelle cause civili, invece, egli può integrare una eventuale lacuna creando la regola, in modo

equitativo, per ogni singolo caso.

3. Le Osservazioni sulla tortura

Si tratta di una disquisizione contro l’uso della tortura, e cioè contro quell’uso giudiziario

finalizzato all’estorsione della confessione da parte dell’imputato.

Con questo scritto, Verri intende dimostrare che la tortura non è

né utile ad accertare la verità

né giusta per quanto riguarda la presunzione di innocenza

-Se Verri si sforza di assumere un atteggiamento indulgente nei confronti dei giudici,

giustificandoli per il fine che essi vogliono raggiungere attraverso la pratica della tortura,

P:68

68

-egli è invece durissimo nei confronti dei giuristi di diritto comune, che hanno elevato la tortura a

una vera e propria scienza del tormento, raffinandone la capacità di produrre sofferenze.

Per quanto riguarda ALESSANDRO VERRI, invece, egli è la mente più giuridica dell’intero

gruppo, e tende a pesare quindi le parole…

A) sia nel condurre la polemica contro il regime di diritto comune

B) sia nel proporre interventi pratici ai fini della codificazione

A) Nell’articolo pubblicato nel Caffè “Di Giustiniano e delle sue leggi”, Alessandro:

-riconosce che dal corpus giustinianeo possano trarsi molte nozioni per la formazione di un nuovo

volume di leggi MA

-ciò che di importante egli sottolinea è che, appunto, un nuovo codice deve essere redatto in ogni

caso.

B) Il discorso di Alessandro sulla necessità di una codificazione continua in altri articoli pubblicati

sul Caffè:

secondo lui, infatti, per raggiungere un codice perfetto alcune leggi di diritto romano potranno

anche essere utili, MA, in linea di massima, il regime di diritto comune, che fa perno sul corpus

giustinianeo, deve essere sostituito, in quanto esso rappresenta soltanto un ammasso di frammenti di

leggi che non posseggono né una unità né una completezza: di fronte ad un sistema giuridico che

non si sostanzia in un codice, non si potrà giungere mai alla certezza del diritto.

Lumi solari

CESARE BECCARIA FRA GIUDICI E LEGGI NELLA MILANO DEL SETTECENTO

Per comprendere come sia nato il fortunatissimo libro di Beccaria, occorre chiedersi come si

amministrasse la giustizia penale a Milano e nella Lombardia austriaca quando prese corpo l’idea di

scrivere il libro.

In prima battuta la risposta è facile: la giustizia penale era amministrata secondo un modello

comune all’intera Europa caratterizzato:

-dall’arbitrio dei grandi tribunali, presenti negli stati assoluti

-dall’imporsi della giurisprudenza di questi tribunali come fonte primaria nell’ambito del diritto

comune

Tuttavia questo diritto comune che si era mantenuto, aveva assunto anche una tipica impronta

regionale o nazionale, che gli derivava dal modo in cui ogni singola corte coordinava i vari tipi di

norme.

Ebbene, anche il diritto penale praticato a Milano era un diritto comune europeo, a cui si univano,

però, dei particolari connotati derivatigli dall’aggiunta di componenti locali: anch’esso, cioè, era la

risultante di un coordinamento tra le norme di tradizione romanistica e le norme contenute nelle

fonti lombarde.

I giudici del tribunale supremo dello stato lombardo provengono tutti da ranghi privilegiati e sono

tutti ottimi giuristi e magistrati, legittimati dai sovrani a giudicare in loro nome e con i loro stessi

insindacabili poteri. Essi giudicano in base

- agli statuti criminali delle varie città lombarde

-e al testo incartapecorito del corpus iuris, un complesso di norme vecchissime, ma applicate

comunque quotidianamente dai magistrati in quanto, quando esse non sono sufficienti a giudicare, i

giudici decidono secondo coscienza.

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69

Si ha, dunque, il primato della giurisprudenza sulla legge, perché la legge coincide con i testi

normativi ufficiali solo in apparenza: è negli usi dei giudici, infatti, che risiede il diritto realmente

vigente.

Il sistema di giustizia penale posto sotto accusa da Beccaria è un sistema caratterizzato da un corpo

di magistrati…

abilitati a sostituire alla legge la propria coscienza, considerata come infallibile.

gratificati dal consenso e dal timore reverenziale della popolazione, che non dubita minimamente

del loro potere.

Non è affatto necessario che costoro siano corrotti: quando infatti in una società

 ogni garanzia di giustizia dipende dalla coscienza dei giudici

 la pena è vista come un castigo esemplare, che deve colpire il criminale per riaffermare la

forza dello stato

 la sanzione capitale è vista come la pena più giusta e il deterrente più efficace per alcuni tipi

di delitti

…allora questo tipo di giustizia penale, priva di umanità, genera nella società una sofferenza molto

più grande di quella prodotta dalla criminalità dei singoli delinquenti.

Ed è proprio contro una situazione come questa che Beccaria si scaglia.

Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.

CESARE BECCARIA nasce a Milano da una famiglia di fresca nobiltà.

• Laureatosi in giurisprudenza, esce dalla facoltà di legge con un insuperabile disgusto per

l’avvocatura e le professioni forensi.

• Sposatosi contro la volontà del padre con una ragazza non nobile, Beccaria ha due figlie,

Giulia e Maria.

• Cacciato di casa, e catastroficamente al verde, egli frequenta le riunioni dell’Accademia dei

Pugni e, spronato da Pietro e Alessandro Verri, inizia a documentarsi e a scrivere sulla giustizia

penale in Lombardia:

• Poco dopo viene pubblicato, anonimo, il libretto “Dei delitti e delle pene”, e prendono avvio

i fogli del Caffè.

• In pochissimo tempo le pagine di Beccaria

-scandalizzano gli ambienti conservatori di tutta Europa, MA

-provocano consensi nell’ambito degli illuministi e dei sovrani assoluti di stampo riformista.

Dei delitti e delle pene diventa così, di colpo, una sorta di proclama generale dell’illuminismo

europeo:

gli illuministi francesi lo invitano a Parigi per esprimergli la loro ammirazione

e Caterina II di Russia lo invita a Pietroburgo.

• Beccaria, tuttavia, resta a Milano, prediligendo la tranquillità di professore di scienza delle

finanze al clamore.

• Tre eventi segnano questa abitudinaria seconda parte della sua vita:

1. le sue nozze con un'altra donna, avvenute dopo che egli era rimasto vedovo

2. il matrimonio combinato della figlia Giulia con il conte Pietro Manzoni, unione dalla quale

nascerà Alessandro.

3. la nomina, da parte di Leopoldo II, a membro della commissione delegata alla redazione di un

progetto di codice penale per la Lombardia austriaca.

P:70

70

Impressionante, dunque, il contrasto tra la mediocrità dell’esistenza vissuta, e la genialità del

libro scritto:

un libricino di pochi paragrafi, quello di Beccaria, che però produsse una rivoluzione nel rapporto

tra stato e individuo, ribaltando la concezione dell’intero ordine giuridico penale.

Beccaria scrive il suo capolavoro “per disperazione”: annoiato e incline a deprimersi, chiede ai

fratelli Verri un tema di cui occuparsi, tema che, prontamente, i due illuministi milanesi gli

assegnano, vale a dire la tradizione giuridica nel suo complesso.

E’ così che le pagine di Beccaria sono rimaste nella storia, entrando ancora oggi nella giustizia

penale di ogni moderno stato di diritto.

CESARE BECCARIA: LA CRITICA DEL DIRITTO PENALE VIGENTE

L’attacco al diritto vigente che Beccaria fa nel suo libricino sprigiona non poche polemiche.

Secondo Beccaria, infatti, il diritto penale allora in vigore era caratterizzato:

 dal millenario diritto romano, che stava alla sua base

 dal successivo innestarsi, su di esso, di leggi ed usi locali

 da tante e caotiche interpretazioni dottrinali sviluppatesi su questa massa normativa

 dal dissolvimento della figura del legislatore e dalla conseguente sostituzione, a questo, delle

arbitrarie opinioni degli interpreti

 dall’interazione tra dottrina e giurisprudenza, a cui era affidata la vita dei cittadini.

Anche se Beccaria, dunque, avesse calcato di proposito la mano nel fare la sua diagnosi, il suo

scopo è quello

di sostenere gli interessi dell’umanità,

di stabilire i confini del giusto e dell’ingiusto, e cioè di ciò che è utile e ciò che è dannoso alla

società.

Dunque la formula giustizia=utilità sociale è presente anche nel pensiero di Beccaria, anche se egli

tende a sostituire l’utilità sociale con il parametro “massima felicità per il maggior numero dei

consociati” (e cioè: giustizia= massima felicità per il maggior numero dei consociati).

Poiché però l’utilità sociale non è interscambiabile con la difesa dei diritti dell’uomo, da questo

scambio nasceranno evidenti risultati di incoerenza:

incoerenza che, però, verrà risolta, quando Beccaria dissocerà esplicitamente l’utile dal giusto.

L’IPOTESI CONTRATTUALISTICA: FONDAMENTO E LIMITI DEL POTERE DI PUNIRE

SECONDO CESARE BECCARIA

Sulle orme di Rousseau, Beccaria indica l’abbandono dello stato di natura come il momento di

origine della società retta dalle leggi.

Le leggi sono le condizioni con le quali gli uomini, isolati, indipendenti, e stanchi di vivere in un

continuo stato di guerra, si uniscono in società, sacrificando una parte della libertà di cui

dispongono per godere della restante parte con sicurezza e tranquillità.

Da tutto ciò discende che:

I: la somma di tutte le porzioni di libertà singolarmente sacrificate ha formato la sicurezza e il bene

comune, dando origine alla sovranità, in quanto l’amministratore della sicurezza e del bene comune

è il sovrano.

II: poiché la sicurezza pubblica può essere messa in pericolo dall’aggressione di singoli criminali, il

sovrano deve difenderla in base al contratto:

da questo dovere, deriva il diritto del sovrano di punire i delitti.

P:71

71

III: i delitti commessi sono punibili attraverso le pene, che vengono stabilite dal sovrano per

scoraggiare i potenziali infrattori della legge.

Le pene sono dei motivi sensibili: ciò significa che per prevenire il crimine, lo stato minaccia uno

specifico male di cui l’uomo ha materialmente timore.

Si ha una concezione formalizzata del diritto penale: ciò significa che…

-le pene vengono tassativamente e previamente fissate

-esiste un limite al potere di punire, valicato il quale questo potere diventa illegittimo

IV: Poiché gli uomini, al fine di stipulare il contratto sociale, hanno ceduto solo il minimo

indispensabile della loro libertà,

e poiché la misura del diritto di punire è data dalla somma di tutte le minime porzioni di libertà

cedute,

ALLORA anche la misura del diritto di punire è minima: il diritto di punire, cioè, si riduce a ciò

che è strettamente necessario per la difesa sociale.

Dalla dottrina dei limiti del diritto di punire discendono due conseguenze:

♣ il diritto penale deve consistere in una legislazione minima necessaria, che consideri “reati” i

soli atti realmente nocivi alla società, la difesa dei quali appare irrinunciabile.

♣ quanto alla singola pena, per far si che essa ottenga il suo effetto, basta che il male che da

essa scaturisce sia superiore al beneficio che deriva dal delitto di quel tanto che basta a far

apparire al potenziale delinquente svantaggioso compiere il fatto criminoso.

IL PROBLEMA DELLA FUNZIONE DELLA PENA: L’IMPOSTAZIONE UTILITARISTICA DI

CESARE BECCARIA

Il fatto che Beccaria consideri la sanzione penale come la sofferenza minima necessaria apre il

dibattito sullo scopo da perseguire attraverso tale sanzione.

• Beccaria, infatti, esclude che lo scopo della sanzione penale sia quello della retribuzione, e cioè

del compenso del male con il male: il fine della pena, non è né di tormentare né di affliggere

l’essere umano. Dunque, anche se è impossibile scindere dalla pena una certa dose di

sofferenza, la sofferenza non ne è lo scopo ultimo. Per Beccaria, insomma, la pena non è vista

come una compensazione volta a ripristinare l’ordine giuridico violato in base ad una esigenza

etica di giustizia.

• Il fine della pena, invece, non è altro che quello di

impedire al reo di fare nuovi danni ai suoi cittadini

dissuadere i consociati dal fare gli stessi danni fatti dal reo

La pena, dunque, non guarda al passato, ma guarda al futuro, in quanto

-il colpevole non viene punito per ciò che ha commesso, ma viene punito perché non ricada nel

crimine

-i consociati vengano dissuasi dal delinquere perché intimiditi dalla prospettiva della sanzione.

Beccaria, dunque, accoglie la teoria che affida alla pena una funzione

 e di prevenzione generale, e cioè di intimidazione dei consociati

 e di prevenzione speciale, e cioè di neutralizzazione del delinquente

Egli percepisce l’idea della prevenzione penale come realizzabile a due livelli:

1. attraverso la minaccia legislativa della pena

2. attraverso l’inflizione giudiziale della pena stessa, in quanto è inevitabile che lo stato applichi la

sanzione che ha comminato.

• Nel pensiero di Beccaria, inoltre, non trova posto la c.d. teoria dell’emenda, che assegna alla

pena un compito di rieducazione e di risocializzazione del colpevole.

Il silenzio di Beccaria non può spiegarsi che in due modi:

P:72

72

che egli, sostenitore della laicità del diritto, ripugnava l’idea di assegnare allo stato un compito di

valutazione morale della coscienza del colpevole

che egli considerava la pena-emenda pericolosa per quanto riguardava la certezza del diritto:

poiché, infatti, la pena dovrebbe prolungarsi fino a quando non si sia verificata la rieducazione

dell’individuo, il giudice non potrebbe fissare previamente la sua estenzione, al punto che essa

potrebbe anche prolungarsi in eterno.

La dottrina di Beccaria, che rappresenta un po’ tutto l’illuminismo penale, tende a conciliare due

elementi altrimenti inconciliabili: quello utilitaristico e quello umanitario, vale a dire:

-il massimo contenimento della criminalità, a vantaggio della società e

-il minimo di afflizione per il deviante.

Concependo la pena esclusivamente come un mezzo di prevenzione, la dignità dell’uomo corre

gravi rischi: il delinquente, infatti, è “utilizzato” come deterrente collettivo. Entrando in questa

logica, si può giungere, in estremo, a giustificare anche la punizione dell’innocente.

E’ per questo motivo che il diritto penale odierno tende a basarsi su teorie miste, e cioè su teorie che

combinano insieme retribuzione e prevenzione.

I PRINCIPI POSTI A FONDAMENTO DELLA PENA DA CESARE BECCARIA

 LEGALITA’ DEL DIRITTO PENALE

Il principio della subordinazione del diritto penale alla legge viene interpretato da Beccaria

con talmente tanta intransigenza, che la sua forza percorre tutto il libro che ha scritto.

Ciò che a Beccaria interessa veramente, dunque, è il rispetto del principio di legalità:

separazione del potere legislativo da quello giudiziario, ed esclusione dei giudici da qualsiasi

attività interpretativa: secondo Beccaria la funzione dei giudici è esclusivamente quella di

-valutare se l’azione dei soggetti sia conforme o meno alla legge

-erogare o meno la pena a seconda, appunto, del comportamento difforme o conforme alla legge

Dietro questa teoria della giurisprudenza meccanica è difficile non scorgere l’ombra di

Montesquieu.

Interpretazione letterale della leggeaccertamento del fattoformulazione automatica del

giudizio.

La codificazione,

-comportante l’automatica liquidazione di consuetudine, dottrina e giurisprudenza,

-e realizzata attraverso norme chiare

è, dunque, la condizione indispensabile per la certezza del diritto che, a sua volta, è la

condizione indispensabile per la libertà dei cittadini.

Secondo Beccaria, dunque, la certezza del diritto è utile perché in questo modo i cittadini

possono calcolare esattamente gli svantaggi che derivano loro dal delitto: la minaccia della

punizione, infatti, può funzionare da deterrente solo se i consociati conoscono in anticipo

l’elenco tassativo dei reati e

la misura esatta delle pene corrispondenti

In questo modo, inoltre, si impedisce che le pene siano arbitrarie.

 PROPORZIONALITA’ DELLA PENA AL REATO

Secondo Beccaria, il legislatore, nel creare il codice, deve predisporre una scala di crimini in

termini di gravità:

P:73

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-ai gradini più alti, le lesioni sociali caratterizzate da un grande disvalore

-ai gradini più bassi, le lesioni caratterizzate da un disvalore minimo.

A questa scala di delitti graduata per gravità, dovrebbe corrispondere una serie di pene

graduate per severità.

Ad ogni crimine la sua pena.

Nel fare ciò, il legislatore dovrà tenere conto del fatto che:

 Se a due delitti diversi, corrisponde una pena uguale, gli uomini non si faranno

scrupoli a commettere il delitto più grave.

 L’unica misura dei delitti è il danno fatto alla nazione, tanto che, chi considera che la

misura dei delitti sia l’intenzione di chi delinque, sbaglia: questa svalutazione della volontà del

reo, verrà rimproverata a Beccaria da criminalisti successivi, e costituisce, in effetti, il punto più

fallace di tutta la sua costruzione.

La valenza utilitaristica del proporzionalità della pena al reato è indiscutibile, in quanto la

proporzione è volta

-a prevenire il crimine

-a difendere la società.

Tuttavia, anche in questo caso, alla valenza utilitaristica si affianca quella umanistica, in quanto

si sente l’esigenza di non reprimere con pene eccessivamente severe infrazioni di lieve

rilevanza.

 PRONTEZZA E INFALLIBILITA’ DELLA PENA

Secondo Beccaria, quanto la pena sarà più pronta (più vicina in termini di tempo) al delitto

commesso, tanto essa sarà più giusta e più utile.

Per lui, infatti, la pena assolve la sua funzione a patto che essa segua in tempi brevissimi il

delitto, generando nella società

l’associazione tra i due momenti

la certezza dell’infallibile consequenzialità della pena al delitto.

Uno dei freni più grandi a commettere un delitto, infatti, non è la crudeltà delle pene, ma

l’infallibilità di esse.

 UGUAGLIANZA DELLA PENA PER TUTTI I CONSOCIATI

Nel nostro ordinamento, il destinatario delle norme penali è espresso dal termine “chiunque”,

termine con il quale ha generalmente inizio il testo degli articoli del codice:

esso si riferisce, senza distinzione, a tutte le persone fisiche che si trovano nel territorio dello

stato, e che sono provviste della c.d. capacità di diritto penale.

Ai tempi di Beccaria, invece, le cose stavano diversamente: il diritto era caratterizzato dal

particolarismo, particolarismo in virtù del quale il diritto penale variava a seconda

-dello status sociale del reo o

-della persona offesa dal reato.

Gli appartenenti alla nobiltà o al clero, ad esempio, beneficiavano di pene più miti.

Tutto ciò comportava una mancanza di unità del diritto penale: era una società stratificata in

classi, quella di Beccaria; una società gerarchizzata attraverso privilegi di ceto.

Nel suo scritto, invece, Beccaria prevedeva che ad ecclesiastici ed aristocratici venissero erogate

le stesse pene di tutti gli altri cittadini.

P:74

74

 PERSONALITA’ DELLA PENA

Beccaria proclama il principio secondo cui la responsabilità penale è personale, in modo tale

da escludere la responsabilità per il fatto altrui: chi soffre la pena, cioè, deve essere

esclusivamente colui che ha commesso il crimine.

Beccaria dichiara tutto ciò quando denuncia la sostanziale ingiustizia della pena della confisca

dei beni del reo da parte dello stato: questa sanzione, infatti, comportava come conseguenza

automatica anche la rovina economica dei familiari del colpevole.

 PUBBLICITA’ DELLA PENA

Altro concetto sul quale Beccaria ha insistito è il fatto che: la giustizia penale è un affare tra

Stato e reo, in cui non c’è posto per l’offeso dal reato.

Questo comporta due conseguenze:

• L’esclusione di qualunque ipotesi di remissione privata del reato:

in Lombardia, infatti, per i delitti di minor gravità si soleva liberare il reo dalla pena

quando la parte offesa lo perdonava.

Beccaria si scaglia contro questa pratica, certo del fatto che il diritto di far punire non è il

diritto di uno solo, ma è il diritto di tutti.

• L’inflizione della pena deve essere la conseguenza di un processo celebrato tutto

pubblicamente, e dunque un processo suscettibile di controllo esterno.

 LAICITA’ DEL DIRITTO PENALE

Secondo l’idea della separazione del diritto penale dalla morale teologica, la giustizia umana

deve limitarsi a punire le azioni esterne, fattualmente lesive della società.

Solo la giustizia umana può

qualificare dei comportamenti come reati

esprimere un giudizio sulla loro colpevolezza giuridica.

Pertanto i reati sono tali non in quanto peccati, ma in quanto fatti puniti dalla legge.

La tendenza alla separazione dei due ambiti ha il fine di affrancare la libertà di pensiero

dell’individuo in campo morale e religioso da ogni ingerenza dello Stato.

Questi principi liberali, che implicano la depenalizzazione dei peccati, si pongono

controcorrente rispetto alla tradizione del diritto penale comune. Esso, infatti:

punisce con la pena del rogo i crimini di lesa maestà divina (come l’eresia)

e reprime con estrema durezza la bestemmia, le violazioni della morale sessuale, il tentato

suicidio.

Su questo terreno, Beccaria si muove con estrema prudenza.

Egli, tuttavia, si oppone alla tradizionale concezione che faceva del diritto penale lo strumento

per tutelare le cose religiose nel mondo.

 UMANITA’ DEL DIRITTO PENALE

l’umanizzazione del diritto penale e

la riduzione dell’afflittività delle pene allo stretto necessario

sono i motivi di fondo di tutta l’opera di Beccaria.

Beccaria insiste contemporaneamente anche sul motivo utilitaristico:

lo scopo del diritto penale è quello di assicurare, in forma di prevenzione la massima utilità

possibile (cioè la massima sicurezza possibile) alla società.

P:75

75

Tuttavia, in Beccaria l’utilitarismo si subordina all’umanitarismo:

poiché il fine delle pene, infatti, non è quello di tormentare e affliggere l’uomo, la pena deve

essere la meno tormentosa sul corpo del reo.

Per comprendere come egli ragioni, occorre considerare che tipo di giustizia penale era presente

a quel tempo a Milano:

si tratta di un terrorismo punitivo e da un uso massiccio della pena di morte.

La sanzione penale, in genere eseguita tramite impiccagione, è però spesso preceduta da torture

volte ad aumentare il castigo o ad esaltarne la spettacolarità.

Quando, a dodici anni dall’apparizione del libro di Beccaria, la ormai sensibilizzata Maria

Teresa sollecita il parere del Senato Milanese sull’opportunità di abolire la tortura e ridurre la

pena di morte, i giudici del Senato, rispondono sbalorditi che l’unico mezzo per contenere i

crimini è proprio la pena di morte.

IL PROBLEMA DELLA PENA DI MORTE

Anche la pagina più famosa in assoluto di Beccaria, e cioè quella contro l’illegittimità della pena di

morte, non poteva non essere concepita dall’intreccio di utilitarismo ed umanesimo.

I passaggi con cui Beccaria giunge ad asserire la massima inviolabilità della vita umana sono i

seguenti:

1. che l’afflizione della pena di morte non è un diritto di cui lo stato possa avvalersi per contratto.

2. che la pena di morte non è necessaria, perché meno utile della detenzione perpetua.

1. argomento contrattualistico: la pena di morte non ha fondamento giuridico

La pena di morte non ha fondamento nel contratto sociale in quanto, quando gli uomini lo hanno

stipulato, essi hanno delegato sì il diritto di punire, ma hanno sacrificato ciascuno la minor porzione

di libertà possibile.

Dunque, si chiede Beccaria, come da quel minimo sacrificio della libertà di ciascuno, possa

scaturire il massimo sacrificio di tutti i beni, e cioè la vita.

Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.

2. argomento utilitaristico: la pena di morte non è né utile né necessaria.

Beccaria profila due ipotesi in cui la pena di morte può credersi non solo utile, ma addirittura

necessaria:

 I. quando l’anarchia ha sopraffatto ogni ordine giuridico e ci troviamo in una anomala

situazione di guerra civile: in questo caso non c’è più Stato, il contratto sociale è sciolto e

l’uccisione del nemico pericoloso obbedisce alla legge della guerra.

Questo primo caso ipotizzato da Beccaria non si può neppure chiamare eccezione alla

regola, in quanto la regola è quella della non necessità della pena di morte in una società

civile.

Esso è, piuttosto, l’enunciazione della medesima regola, ma in modo capovolto.

 II. quando la condanna a morte di un cittadino può credersi l’unico freno per contenere il

crimine.

Occorre, tuttavia, prestare attenzione a quel “può credersi”: Beccaria, infatti, vuol dire che si

potrebbe credere alla necessità della pena di morte come deterrente estremo.

Egli continua, poi, asserendo che, se verifichiamo questa ipotesi

in base alla storia, ci accorgeremo che ciò che ci sembra necessario in realtà non lo è, in

quanto la storia prova che la pena di morte non ha mai distolto gli uomini dal delinquere.

in base alla natura umana, ci accorgeremo, invece, che non è l’intensità della pena che

produce un effetto deterrente, ma la sua estensione:

P:76

76

Lo spettacolo della morte di un delinquente è terribile, ma passeggero.

Un uomo privo di libertà, invece, è il freno più forte contro i delitti.

Sostituire alla pena di morte, la pena della schiavitù perpetua è, dunque, la cosa migliore da

fare per trattenere un soggetto dal delinquere.

Secondo Beccaria, dunque, nell’ambito di un ordinamento giuridico funzionante, la pena di

morte non è utile e necessaria in nessun caso..

3. argomento morale: la pena di morte viola la sacralità della vita umana.

Secondo Beccaria poiché la vita di ogni uomo è sacra, gli altri uomini non ne possono disporre: la

distruzione della vita, dunque, è totalmente ingiusta.

L’umanizzazione del diritto penale era il risultato che a Beccaria importava di più conseguire,

vincendo sulla inutile pena di morte.

In conclusione, per fare cip, Beccaria ha puntato sulle poco convincenti motivazioni

dell’infondatezza giuridica e

della inutilità

…della pena di morte,

mettendo meno in evidenza l’argomento in cui egli credeva di più, e cioè quello della illegittimità

morale di questo tipo di pena.

BECCARIA E IL PROCESSO PENALE

Nel suo libro Beccaria mette bene in chiaro la massima sulla quale deve basarsi tutto il processo

penale:

nessun uomo si può considerare colpevole prima della sentenza del giudice.

Egli poi continua dicendo come invece quella massima venga quotidianamente applicata nella realtà

giudiziaria.

Se noi guardiamo al processo funzionante in europa al tempo di Beccaria, noteremo subito che esso

è un meccanismo antigarantistico, connotato principalmente da tre aspetti:

1. l’assenza della presunzione di innocenza dell’imputato

2. la preminenza dell’inquisitore sull’inquisito

3. l’identificazione del magistrato che promuove l’accusa e del magistrato che giudica nella stessa

persona.

 Nella fase istruttoria, e cioè in quella fase del processo in cui l’inquirente cerca di accumulare

tutte le prove possibili a carico dell’accusato…

i capi d’accusa non vengono comunicati all’imputato

non è previsto nessun tipo di contraddittorio

si presume che l’imputato sia colpevole.

 L’intevento del difensore si ammette solo alla fine del processo, e a questi, per presentare le

proprie eccezioni, sono concessi tempi brevissimi.

L’intero processo, dunque, funziona in base al sistema delle prove legali:

se durante il giudizio, nei fatti concreti, si verifica la presenza dei dati probatori normalmente

stabiliti dalla legge, allora il convincimento del giudice si determina automaticamente e senza

alternative.

Alla fine del processo, dunque, l’imputato dovrà risultare:

o convinto: e cioè inchiodato alle evidenze probatorie previste dalla legge

o confesso: e la convizione, regina delle prove, è considerato il dato migliore in assoluto.

P:77

77

Questo sistema, in teoria, funziona anche a protezione dell’inquisito, in quanto, poiché il giudice è

vincolato alla legge…

o c’è la provata che la legge, appunto, cataloga come “piena”

oppure si è assolti.

Nella pratica delle corti, invece, le cose vanno diversamente:

in mancanza di prove “piene”, e cioè di presupposti ottimali per la condanna, l’inquirente cerca di

acquisire un certo numero di prove c.d. “semipiene” che, accumulate l’una con l’altra, possono

infine, tutte insieme, costituire una prova piena.

 Se gli indizi a carico dell’inquisito sono deboli, il magistrato potrà infliggere una pena

straordinaria, vale a dire una sanzione minore di quella prevista dalla legge.

Ciò che importa è punire.

 Se il delitto, invece, è grave e socialmente allarmante e gli indizi appaiono calzare univocamente,

ed è solo a causa del rigore formale del sistema che manca la prova “piena”, allora in questo caso

subentra la tortura:

qualora il giudice scelga questo espediente per verificare le proprie convinzioni, allora l’inquisito è

psicologicamente dissolto come persona: egli diventa semplicemente una cosa parlante, da cui

estrarre pezzo pezzo l’ammissione.

Beccaria, dunque, denuncia l’ingiustizia del rito della confessione, in quanto esso permette che

l’uomo cessi di esistere come “persona” e diventi “cosa”. Dal momento che egli postula la

presunzione di innocenza a fondamento dell’individuo, è normale che giunga a considerare

sbagliato l’intero sistema.

Occorre dunque abbandonare il meccanismo delle prove legali, in quanto:

anche se è vero che esso vincola il giudice ad infliggere la pena solo in presenza di una prova

piena

è anche vero che, laddove la prova risulti insufficiente, il giudice risulta legittimato a procurarsi

la prova attraverso la tortura.

Quindi:

A)

ESISTENZA DI  EVENTUALE TORTURA PER  CONDANNA ALLA

UNA PROVA PIENA OTTENERE IL NOME DEI COMPLICI PENA EDITTALE

B)

INESISTENZA DI PROVE 1. CONDANNA DEL SEMI-REO

PIENE, MA PRESENZA DI  SCELTA ARBITRARIA  AD UNA PENA

PROVE “SEMIPIENE”, DEL GIUDICE TRA STRAORDINARIA

INDIZI E PRESUNZIONI (MINORE DI QUELLA

EDITTALE)

2. TORTURA

CONFESSIONE

CONDANNA ALLA PENA

EDITTALE

P:78

78

C)

INESISTENZA DI

DATI INDIZIARI  ASSOLUZIONE

Secondo Beccaria, dunque, a questa logica processuale deforme va sostituito il criterio del libero

convincimento del giudice:

è un giudice terzo che, affiancato da altri uomini scelti mediante sorteggio, deve valutare

liberamente le prove.

L’abbandono del sistema delle prove legali, produrrà

il ridimensionamento dello sproporzionato valore dimostrativo attribuito alla confessione

e la soppressione della tortura, mezzo disumano usato per ottenere la confessione stessa.

CONCLUSIONI: LO SPIRITO DELL’OPERA DI BECCARIA

Il capolavoro di Beccaria nasce nel momento in cui egli si mette a ragionare sul diritto penale del

suo tempo, chiedendosi se esso sia giusto:

Beccaria, infatti, sta osservando con profondo dispiacere che ci troviamo di fronte ad un diritto

ingiusto, perché non fondato sul valore dell’umanità.

Beccaria, dunque, scrive il suo libro con l’intento:

 di difendere gli interessi dell’umanità

 di stabilire i confini del giusto e dell’ingiusto, necessari nel processo di codificazione di un nuovo

diritto penale.

anche se, dunque, i confini del giusto e dell’ingiusto, in un primo momento sembrano

coincidere con quelli dell’utile o del dannoso alla società

occorre sottolineare il fatto che, a dispetto dei temi utilitaristici, in Beccaria a prevalere è

comunque l’esigenza umanitaria: nel testo di Beccaria, cioè, ad un certo punto giustizia e utilità

non sono più concetti accoppiati, ma concetti dissociati:

ogni volta che le leggi permettono che l’uomo cessi di essere persona e diventi cosa, non c’è più

libertà.

L’INFLUENZA DI CESARE BECCARIA SUGLI EPIGONI (=seguaci) ITALIANI DEL DIRITTO

COMUNE

In relazione alla loro grande attualità, le pagine di Beccaria debbono essere considerate importanti

non solo suggerivano la codificazione del diritto penale secondo i principi espressi nel libro,

MA ANCHE perché esse esercitarono grande influenza su alcuni legislatori di fine ‘700 (ad

esempio Giuseppe II e Leopoldo d’Asburgo, suo fratello).

Non solo. In Italia il libro di Beccaria fu il principale mezzo attraverso cui molte dottrine

umanitarie penali riuscirono a valicare le barriere imposte fino ad allora dal diritto comune.

o Il primo criminalista che tecnicizzò le idee di Beccaria sulla giusta pena e sul giusto processo,

calandole tuttavia negli schemi irrinunciabili del diritto comune, fu Paolo Risi:

o Sulla scia di costui, e del filone romanistico-beccariano perseguito da questi, si mossero tanti

altri illustri criminalisti, italiani e non (in quanto l’influenza che Beccaria esercitò fu a livello

europeo).

Questi giuristi possono essere definiti come “traghettatori”, perché attivi nel momento del

trapasso dal diritto comune all’età dei codici.

P:79

79

PARTE TERZA:CODIFICAZIONI E TENTATIVI DI CODIFICAZIONE

DELL’ASSOLUTISMO ILLUMINATO

SEZIONE I:

AREA RUSSA

Cultura e politica nella Russia di Caterina II

LA POLITICA DEL DIRITTO DI CATERINA II

Quando nel 1762 Caterina, principessa di sangue tedesco imbevuta di cultura francese, diventa una

Romanov, è destinata a regnare per quasi mezzo secolo su un impero immenso.

Per usare le parole di Cordero, ella si rivela un “animale magnificamente riuscito”:

a spese dei servi della gleba, si assicura l’appoggio della nobiltà

e mette in piedi un progetto politico ambiziosissimo: quello di ricondurre sotto il suo controllo il

caotico diritto del suo sconfinato impero, ristrutturandolo secondo i canoni della ragione, idonea a

conformarsi alla particolare situazione di ogni popolo (in questo caso alla situazione della società

russa).

LA CULTURA ILLUMINISTICA DI CATERINA II

L’idea di Caterina è quella della ragione relativa teorizzata da Montesquieu. Ella infatti

considera l’opera di Montesquieu il suo breviario

ha letto e riletto le pagine di Beccaria, che invano ha invitato a San Pietroburgo

corrisponde con Voltaire, che si professa suo adulatore e sacerdote

sceglie come proprio consulente Diderot.

E’ in questo modo che l’illuminismo entra nella Russia assolutista di Caterina II.

Il progetto di codificazione del 1766-74

LE ISTRUZIONI PER LA REDAZIONE DI UN NUOVO CODICE DI LEGGI (1766)

Nel 1766, Caterina convoca in Assemblea Generale 652 deputati, rappresentanti di tutte le province

e di tutti i ceti sociali dell’Impero, esclusi i servi: saranno proprio costoro a porre in essere la grande

ricompilazione razionale del diritto ideata dall’imperatrice.

Per venire a capo di un’impresa tanto grande, tuttavia, occorrono direttive precise, direttive che

Caterina ha già preparato e che, nel giorno di apertura solenne dell’Assemblea, ogni deputato si

vede consegnare: si tratta

delle “Istruzioni per la redazione di un nuovo codice di leggi”: contenenti

-le concezioni illuministiche sulla forma di governo,

-l’organizzazione della società civile,

-l’amministrazione della giustizia

-le leggi penali ritenute più adatte al popolo russo

Le Istruzioni sono essenzialmente un collage delle pagine di Montesquieu e di Beccaria, che

Caterina, ammettendo il proprio plagio, confessa impudentemente di aver riprodotto.

e di un “regolamento” volto a disciplinare l’andamento e il metodo dei lavori di progettazione.

IMPORTANZA E FORTUNA DELLE ISTRUZIONI DI CATERINA II

I lavori delle Commissioni continuano fino al 1774 per poi insabbiarsi, senza risultati apprezzabili,

nel clima di raffreddamento reazionario dovuto:

-al conflitto coi turchi

P:80

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-alla crisi polacca

-alla rivolta popolare

Nonostante il fallimento, tuttavia, le Istruzioni di Caterina II conservano una loro importanza, in

quanto esse sono una delle prime ufficiali traduzioni in progetto operativo delle dottrine

illuministiche recepite da un sovrano assoluto.

Anche se non sappiamo se Caterina si aspettasse o meno il naufragio della sua impresa, ciò che è

certo è che ella, con grande attenzione per la sua immagine, promosse la pubblicizzazione delle

Istruzioni…

• calamitando su di sé le attenzioni dei philosophes

• e realizzando l’obiettivo di farsi conoscere nell’intera Europa dei lumi come mitica legislatrice

…tanto che le Istruzioni, tradotte in nove lingue, raggiunsero fulmineamente un livello di notorietà

straordinario, consacrandosi come modello di saggezza legislativa.

P:81

81

SEZIONE II:

AREA PRUSSIANA

La politica del diritto di Federico II di Prussia

STATO E “STATI” SOCIALI NELLA COSTRUZIONE DEL REGNO DI PRUSSIA DA

FEDERICO GUGLIELMO I A FEDERICO II

Occorre ora vedere come prenda avvio la codificazione del diritto nella Prussia dell’assolutismo

illuminato di Federico II.

Quando inizia il suo lungo regno, Federico II

• sviluppa i risultati della politica centralizzatrice condotta dal padre Federico Guglielmo I,

passato alla storia come il “re sergente”

• eredita la tradizione familiare secondo cui la regalità si identifica nel servizio reso allo Stato

attraverso un regime finalizzato al bene comune, che per raggiungere questo obiettivo sovrasta tutto

e tutti.

L’austero re sergente (nessun fasto, una vita di corte disadorna e spese di palazzo ridotte al

minimo) non poteva di certo trasmettere al figlio i raffinati gusti intellettuali che lo hanno attratto

verso le teorie dei lumi.

TUTTAVIA del padre Federico II

-conserva la concezione della funzione regale come estranea dagli eccessi di ornamento

-mantiene e rafforza un regno che ha fatto delle quattro province autonome presenti uno stato

unitario, strutturato in un razionale apparato amministrativo:

dal Gabinetto privato del monarca partono gli ordini, ordini che disciplinano il funzionamento

delle tre istituzioni principali e cioè

 il Generaldirektorium: affari finanziari, demaniali e militari

 il Kabinettsministerium: politica estera

 il Geheimer Rat: giustizia e culto

Quest’ultimo organo è il rappresentante collegiale dei ceti in cui la società tedesca si

suddivideva: questa società era suddivisa in tre Stati:

-nobiltà

-borghesia cittadina

-contadini

ciascuno con propri privilegi e proprio diritto consuetudinario.

Ci troviamo dunque di fronte ad uno “Stato di stati”: in particolare nobiltà e borghesia cittadina

si erano organizzate in rispettive assemblee rappresentative interlocutrici del sovrano,

interferendo con per mezzo dei loro poteri di controllo e di blocco nella politica militare o

finanziaria del re.

L’opera di centralizzazione territoriale ed istituzionale intrapresa da Federico Guglielmo II non

fece comunque scomparire la bipolarità sovrano-stati, in quanto nel regno unificato di questo

monarca l’autonomia dei ceti sopravvisse esprimendosi, appunto, nel Geheimer Rat.

Anche se, tuttavia, i principali poteri di questo organo vennero via via esercitati dal

sovrano...

...agli stati restò comunque la loro antica funzione di struttura portante della tripartita società

civile, società civile che nell’ambito dei rapporti privati rimaneva una società cetuale, tanto che

ciascun ceto

-veniva governato dalle proprie norme

-era contraddistinto da specifici diritti e privilegi.

P:82

82

Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.

LA RIFORMA DELL’ORGANIZZAZIONE GIUDIZIARIA E DELLA PROCEDURA:

LE CONVINZIONI DI POLITICA DEL DIRITTO DI FEDERICO II,

L’OPERA DI SAMUEL COCCEJUS E L’ALLGEMEINE GERICHTSORDNUNG DEL 1781

Occorre a questo punto guardare a ciò che Federico II intraprese sul piano della politica legislativa,

politica mirante alla costruzione di un diritto sostanziale (=è il diritto contrapposto a quello

processuale, ossia un diritto che non prevede norme di procedura) e processuale specificatamente

prussiano.

 La politica del diritto di Federico II mira

ad eliminare il diritto romano

a preparare un diritto territoriale tedesco a base prussiana che si fondi sulla ragione naturale.

Anche se, pur essendo un’opera idealmente perfetta, un corpus legislativo capace di prevedere

tutti i casi sarebbe impossibile da realizzare, il legislatore, secondo Federico II, dovrebbe

eleggere questa opera a proprio modello ideale, favorendo la felicità pubblica con un diritto

ragionevole, e cioè con leggi

-chiare

-precise

-unificate senza contraddizioni in un solo corpus

-proporzionate in quanto alle pene

-escludenti l’uso della tortura quanto al regime probatorio

-adatte allo spirito della nazione cui sono destinate.

Un progetto, questo, perfettamente illuministico, MA con un ingrediente in meno, in quanto non

è presente l’idea per cui l’uguaglianza giuridica dei sudditi si ottiene attraverso la loro

subordinazione ad un identico diritto civile,

 sia perchè la società prussiana è giuridicamente tripartita nei tre stati

 sia perché si vuole sostituire al diritto romano un diritto che mantenga le barriere di classe, e

che risulti diversificato per ciascuno dei tre stati sociali.

 Con una ordinanza del sovrano, l’organizzazione dell’impresa riformatrice viene affidata al

vecchio ma lucidissimo cancelliere Samuel Coccejus.

Grande giurista e romanista, nella sua opera Coccejus evidenzia l’armonia tra diritto romano

e diritto naturale, topos alquanto pericoloso visto l’antiromanesimo del sovrano!

Quando però, nel 1746, per ordinanza di Federico, egli si mette all’opera per riformare la

giurisdizione, i due progetti (di legislazione giudiziaria e processuale) che egli presenta sono un

successo:

Dei due progetti il secondo, che è un perfezionamento del primo, entra in vigore in tutta la

Prussia nel 1781, come regolamento giudiziario e codice di procedura civile, sotto il nome di

Allgemeine Gerichtsordnung.

Questa disciplina prussiana dell’organizzazione giudiziaria e procedurale rappresenta

storicamente il primo esempio di un testo normativo che entra in vigore con tutti i requisiti

tecnici ad oggi attribuibili al termine di “codice”.

 Con

-l’accoglimento di forme più snelle

-e l’introduzione di alcuni momenti di trattazione orale,

questo testo segna un primo allontanamento dal tradizionale processo di diritto comune,

processo dal funzionamento rigoroso.

P:83

83

 La sentenza deve essere motivata e viene pronunciata da un giudice

-severamente selezionato per merito e

-minuziosamente controllato nella sua attività (tecnicizzata) di burocrate della giustizia

E’, questa, una giustizia uguale per tutti, che sovrasta anche il sovrano, le cui eventuali

interferenze con il codice vengono disattese.

IL PROGETTO DI UN “CORPUS IURIS FRIDERICIANUM”: SUA FORMAZIONE E SUO

INSUCCESSO

Per quanto riguarda la seconda, non altrettanto fortunata, impresa di Coccejus, e cioè il Progetto del

“Corpus Iuris Fridericianum”, presentato come diritto territoriale fondato sulla ragione e sulle

costituzioni del paese, esso è diviso in tre parti, la terza delle quali non vedrà mai la luce,

inabissandosi a causa delle difficoltà incontrate.

In compenso, le due parti del progetto pubblicate faranno il giro d’europa con il titolo di Code

Frédéric, e saranno osannate dagli illuministi come trionfo della ragione sulle barbarie giuridiche.

Ma se gli illuministi tessono i loro elogi…

secondo Federico secondo, tuttavia, il Code Frédéric è inaccettabile: tante norme tutte troppo

prolisse e discorsive, di ispirazione romanistica, e distanti dalle tradizioni tedesche. Inoltre, mentre

Federico esigeva un diritto diversificato per gli status sociali, Coccejus trascura i particolarismo,

tendendo all’unificazione del soggetto di diritto.

Quando, dunque, Coccejus muore, il Code Frédéric…

 in Prussia, dopo le tante critiche ricevute, viene definitivamente riposto nel cassetto

 fuori dalla Prussia, diventa un mito.

L’ “allgemeines landrecht” prussiano del 1794

IL PROCESSO FORMATIVO DELL’ALR

La codificazione del diritto prussiano non riuscita a Coccejus riuscì invece ad una equipe di giuristi

attivi negli ultimi anni di regno di Federico II: non essendo infatti un uomo abituato a rinunciare ai

propri programmi politici, Federico ordinò al gran cancelliere del momento, Carmer, di avviare

nuovamente i lavori per la grande riforma.

Fu così che Carmer riunì intorno a sé un gruppo di specialisti che si distinguevano per capacità

tecniche e dottrinali: costoro avevano il compito di elaborare un progetto da sottoporre parte dopo

parte al giudizio di una apposita commissione legislativa e a quello di professori.

 Il primo progetto non giunse alla promulgazione. Tuttavia esso conteneva tutti gli elementi

orientativi perché vi giungessero i progetti successivi.

 Il secondo progetto, invece, fu promulgato dal nuovo sovrano di Prussia Federico

Guglielmo II: esso, tuttavia, non portava il titolo di codice (Gesetzbuch), bensì quello di “diritto

territoriale” (Landrecht). Tuttavia, pur se il destino aveva escluso Federico II dalla promulgazione

dell’Allgemeines Landrecht (spesso chiamato con la sigla ALR), questo monumento legislativo

esibiva lo stesso la paternità di chi lo aveva fortemente voluto: si può dire infatti che esso

contenesse, in un certo qual senso, la traduzione della politica del tardo assolutismo illuminato di

Federico.

L’ALR sarebbe rimasto in vigore fino al 1900, anno della promulgazione del codice civile tedesco.

STRUTTURA E MATERIE DISCIPLINATE

L’ALR si compone

P:84

84

di una Introduzione dedicata alle leggi in generale

e di due libri.

 Il primo libro ricomprende quasi interamente le materie che noi oggi consideriamo attinenti al

diritto civile.

 Il secondo libro, invece, oltre a disciplinare la parte di diritto civile non trattata nel primo, tratta il

diritto pubblicistico e il diritto penale.

Visti dunque la struttura e i contenuti dell’ALR, si può ben dire che ci troviamo di fronte ad un

codice di vastità enciclopedica che, ben lontano dalla concezione romana, considera la persona

come soggetto di diritto…

privato, e cioè come individuo singolo, che si rapporta ad altri individui singoli

pubblico, e cioè come individuo parte di una comunità (famiglia, corporazione professionale,

Stato).Questo codice, quindi, ha una concezione globale del soggetto, in quanto esso include anche

le manifestazioni del suo spirito di associazione.

DUNQUE…

mentre il primo libro destina le sue norme tendenzialmente ad un unico soggetto giuridico, che

risulta titolare di generali diritti e doveri

nel secondo libro il soggetto si scinde in una molteplicità tipologica di soggetti, ciascuno con

diritti e doveri diversificati a seconda della categoria di appartenenza.

Per quanto riguarda invece l’inclusione, nel codice, del diritto penale, questa è dovuta al fatto che al

momento della sua promulgazione, il diritto penale era considerato come un complesso di divieti

attribuiti al soggetto nell’ambito dell’ordinamento civile, diritto civile che, dunque, veniva appunto

rafforzato, in via sussidiaria, da un complesso di precetti ulteriormente sanzionatori.

LA TEORIA DELLE FONTI A FONDAMENTO DELLA CODIFICAZIONE

Un elemento che rende inconfondibile l’ALR è la posizione che il legislatore gli assegna rispetto

alle fonti del diritto previgente:

la promulgazione del codice prussiano, infatti, comporta l’abrogazione in toto del diritto romano

comune.

TUTTAVIA, questo non significa che dalla Prussia scompaia il binomio ius commune-iura

propria:

l’ALR, infatti, si pone esso stesso come diritto comune, in quanto si sostituisce al diritto romano

nella sua funzione di norma generale sussidiaria rispetto alle consuetudini, consuetudini che,

dunque, restano in vigore e si situano ad un livello gerarchico più alto rispetto all’ALR.

Non si può quindi dire che l’ALR elimini il particolarismo giuridico prussiano, inaugurando l’unità

del diritto per tutto lo stato: il codice prussiano, al contrario, preserva e consacra il particolarismo,

in quanto esclude volutamente l’uguaglianza giuridica dei soggetti.

Esso, dunque, potrebbe collocarsi meglio nell’ambito delle raccolte di leggi settecentesche,

piuttosto che tra le codificazioni moderne.

BENE COMUNE, DIRITTI E DOVERI DI CIASCUNO, MOLTEPLICITA’ DI TIPI DI

SOGGETTO GIURIDICO: I PRINCIPI ISPIRATORI

La concezione filosofica che ispira l’ALR si desume da alcuni principi generali enunciati

nell’Introduzione. Essa è, contemporaneamente, una concezione semplice e complessa:

 semplice, perché si riassume nell’idea per cui il bene comune di cui lo stato è tutore prevale sul

bene individuale. Pertanto tutti i sudditi…

P:85

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-sono tenuti a cooperare per la realizzazione di questo bene collettivo

-sono tenuti a sacrificare i propri interessi individuali alla realizzazione dell’interesse pubblico.

 complessa, perché i doveri di cooperazione e i diritti comprimibili di ciascun soggetto variano a

seconda dello status o del corpo sociale (stand) a cui questo appartiene.

La concezione filosofica che ispira l’ALR, dunque, è una ideologia apparentemente ugualitaria, ma

sostanzialmente discriminatoria, in quanto fedele al tradizionale modello di società differenziata per

ceti.

Gli stand (o ceti) di cui si compone la società prussiana, in funzione dei quali l’ALR è strutturato,

sono tre:

1- Lo stand dei contadini

Allo stand dei contadini appartengono tutti coloro che praticano attività agricole. Esso si divide in

due sottostati:

quello dei contadini liberi

quello dei contadini servi

La condizione di contadino, cioè di chi è legato alla terra perché possiede, per via ereditaria, un

feudo limita chi vi appartiene…

 nella libertà di scegliere il lavoro: in quanto è fatto divieto di esercitare mestieri extra-agricoli

 nell’esercizio del diritto di proprietà: in quanto si ha l’obbligo di coltivare adeguatamente il

proprio podere, ed è fatto divieto di ridurne la produzione

 nella libertà di circolare.

Particolarmente pesante è la condizione del contadino servo, che, praticamente, vive in una

condizione di schiavitù.

Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.

2- Lo stand dei nobili

Ai nobili è affidata

la difesa dello stato

il sostegno della sua dignità esterna

il sostengo della sua costituzione interna.

Anche per quanto riguarda la nobiltà, le norme di diritto speciale relative a costoro vanno ad

aggiungersi e a modificare il diritto civile: norme che vanno dal divieto di esercitare professioni

considerate non degne del rango, ad un distinto regime di matrimonio.

3- Lo stand dei cittadini (o borghesi)

Meno contraddistinto da norme istituenti privilegi, esenzioni e limitazioni è lo stand dei cittadini.

In Prussia i cittadini sono semplicemente coloro che hanno titolo per risiedere in una città e che, per

esclusione, non sono né nobili né contadini.

I diritti di costoro sono regolati:

in primis, dagli statuti delle singole città di appartenenza

in via sussidiaria, dalle norme di diritto comune generale dell’ALR.

La categoria dei cittadini, dunque, risulta la meno interessata alle particolarizzazioni dell’ALR del

II libro, e la più interessata alle norme di diritto privato generale del I libro.

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86

LA TECNICA LEGISLATIVA

Dettare regole

• per più tipi di soggetto giuridico

• e contemporaneamente anche per più settori del diritto

portò il legislatore prussiano a creare un testo prolisso ed intricato: l’ALR, infatti, è il codice meno

semplice e maneggevole che si possa immaginare.

TUTTAVIA 

il rigoroso spirito sistematizzante che animava i giuristi autori del progetto fece sì che il gran

numero dei paragrafi si incanalasse, mediante degli itinerari complessi ma logici, in schemi

organici. E’ per questo motivo che, essendo lo stile chiaro e lineare, l’ALR risulta nel complesso

uno scritto di sapienza giuridica.

LA SOLUZIONE DEL PROBLEMA DELL’INTERPRETAZIONE DELLE NORME

Conformemente alle istruzioni di Federico II, che da buon illuminista aveva accolto alla lettera il

dogma della sottoposizione del giudice alla legge…

 il progetto di codice, vietava al magistrato qualsiasi interpretazione delle norme

obbligandolo, in caso di dubbio interpretativo, a richiedere l’interpretazione della

Commissione legislativa.

 il testo dell’ALR entrato in vigore, invece, concedeva al giudice il ricorso…

-all’analogia legis (e cioè alle norme che disciplinano i casi simili)

-all’analogia iuris (ossia ai principi generali del diritto).

La soppressione della Commissione legislativa, consolida l’immagine di un codice che,

ambiziosamente, si pretende privo di lacune perché casisticamente completo fin nei minimi

dettagli. Essendo stato creato dalla ragione, infatti, esso può benissimo fare a meno di ogni

integrazione giurisprudenziale o dottrinale.

LE NORME DI DIRITTO PENALE

 Nell’ambito del II libro dell’ALR, i paragrafi del titolo 20° (paragrafi che chiudono l’intero

codice) rappresentano il diritto penale fridericiano che rimarrà in vigore in Prussia fino al 1851:

fin dal 1740, Federico ha abolito in Prussia la tortura giudiziaria:

egli, infatti, invoca una riforma umanitaria della repressione penale, pronunciandosi in favore

-del principio della proporzionalità della pena al reato

-della responsabilità del volere umano, ponendo dunque a fondamento della punibilità la

consapevolezza del soggetto.

Più volte, inoltre, egli si pronuncia in favore della funzione simultaneamente

-general-preventiva

-special-preventiva

-e risocializzatrice

da affidare alla pena.

 Il diritto penale dell’ALR, appare assolutamente fedele

-alle suddette concezioni fridericiane

-nonché alla logica della prevenzione e del controllo sociali.

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87

Il testo…

è introdotto da una parte generale (“Dei delitti e delle pene in generale”), in cui sono

delineati i principi e le categorie dogmatiche sui quali si regge la repressione di ogni singolo

delitto.

prosegue con una parte speciale, organizzata in un articolatissimo complesso di fattispecie

criminose, concepite secondo una precostituita gerarchia di beni giuridici penalmente protetti.

 Occorre sottolineare il fatto che le norme del titolo 20°, a differenza di quasi tutte le altre norme

contenute nell’ALR

rispetto ai diritti provinciali non hanno valore sussidiario bensì valore primario.

sono munite col sigillo del principio di legalità, che blocca la possibilità di ricorrere

all’analogia, concessa invece al giudice in ambito civilistico.

Anche se è vero, quindi, che il magistrato può elevare il grado della pena indicata dal codice fino ad

un massimo legale, è anche vero che la tipica avversione illuministica nei confronti dell’arbitrio

giudiziale spinge il sospettoso legislatore a difendersi dalle manipolazioni dei magistrati attraverso

una cura esasperata del dettaglio casistico:

per meccanizzare quanto più possibile l’attività del giudice, i redattori del testo riducono l’intera

materia della parte speciale al maggior numero possibile di fattispecie, sottoponendo in questo

modo a sanzioni penali specifiche le varie modalità in cui un reato può essere commesso.

 Neanche la normativa penalistica dell’ALR può definirsi “a soggetto unico”:

essa, infatti, racchiude un diritto qualificabile come “cetuale”, vale a dire come diversamente

operativo a seconda dello status sociale di appartenenza del reo o della persona offesa dal reato.

Nella parte speciale, infatti, viene sgretolato il principio (enunciato nella parte generale) che impone

l’uguaglianza di tutti i consociati di fronte alla legge:

nel determinare il tipo di pena, infatti, il legislatore dell’ALR tiene conto della classe a cui il reo

appartiene: distinzione, questa, che non significa parzialità, ma attinenza alla natura delle cose.

Se consideriamo tutto ciò, ecco spiegato perché L’ALR…

commina ai non abbienti (e in generale agli appartenenti alle classi più umili) pene detentive e

corporali in sostituzione di quelle pecuniarie, invertendo la regola laddove il reo provenga da un

ceto elevato.

ai reati contro l’onore, elemento legato alla dignità di rango, sia dedicato un trattamento tanto

differenziato a seconda dell’appartenenza di classe: così che…

-le ingiurie che intercorrono tra nobili e ufficiali dell’esercito sono severamente punite

-le ingiurie che intercorrono tra persone del ceto contadino, invece, vengono punite lievemente.

La punizione, poi, varia a seconda che l’offesa sia arrecata

-dal dipendente al superiore o dal superiore al dipendente

-dal servo al signore o dal signore al servo.

 Per quanto riguarda, poi, la tipologia delle pene,

è evidente, nel testo prussiano, la tendenza ad ampliare l’area di applicazione delle sanzioni

detentive e pecuniarie, secondo un orientamento ispirato al concetti di umanizzazione e

proporzionalizzazione delle misure punitive.

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TUTTAVIA, per i reati più gravi (in particolare quelli contro lo stato) la pena di morte è pur

sempre contemplata: l’esplicita volontà di dissuadere il pubblico dal delinquere, fa sì che il

legislatore preveda diverse forme terroristiche di esecuzione della pena:

il condannato alla forca o al rogo, per esempio, può essere trascinato al patibolo dopo aver subito il

supplizio della ruota.

Questo legislatore amante del macabro in nome del bene pubblico, con discutibile rispetto per il

principio di proporzionalità della pena, non esita a confiscare i beni e a comminare la pena del

carcere o dell’esilio anche ai figli del colpevole di alto tradimento.

In omaggio alla politica di neutralizzazione e risocializzazione del delinquente, l’ALR dà vita ad

un sistema detto del “doppio binario”:

i condannati giudicati socialmente pericolosi, scontata la pena, possono essere trattenuti in carcere o

inviati in case di lavoro in cui resteranno finchè non avranno dato prova di ragionare rettamente in

fatto di lavoro ed onestà:

il momento in cui questa maturazione morale arriverà, tuttavia, non può essere previsto dalla legge,

in quanto lo mostreranno i fatti.

LA FORMULA DI CODIFICAZIONE, IL PROGRAMMA POLITICO, IL MODELLO

ANTROPOLOGICO: VALUTAZIONE CONCLUSIVA

Per coglierne l’identità complessiva, l’Allegemeines Landrecht può, a questo punto, essere valutato

sotto tre profili essenziali:

1- Per quanto riguarda il concetto di codice che si fa strada al momento della sua promulgazione,

l’ALR può essere definito un testo legislativo semimoderno, in quanto…

 Dal punto di vista

-dello stile legislativo

-dei contenuti

-della disciplina dell’interpretazione,

esso realizza in modo ottimale ciò che noi designamo come codice.

 MA dal punto di vista

-dell’unificazione del diritto statuale

-dell’unificazione del soggetto di diritto

-e della separazione del diritto civile da quello penale,

l’ALR non è affatto un codice moderno, in quanto esso non incarna un unico diritto per una società

composta da persone giuridicamente uguali.

2- Sotto il profilo ideologico-politico, l’ALR

da un lato, è il frutto di un sovrano che può essere considerato come il grande iniziatore

dell’assolutismo illuminato, assolutismo illuminato che…

-si legittima attraverso il contratto

-si basa sull’etica del servizio dello Stato.

dall’altro, è il codice voluto da un despota che ha inteso salvaguardare il proprio potere

conservando

-la rigida distinzione delle classi sociali e dei loro separati diritti

-il compromesso con una nobiltà privata di potere politico ma non toccata nei suoi privilegi di

rango.

E’ proprio sotto questo punto di vista che cogliamo la contraddizione di fondo dell’ALR:

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in poche parole Federico il Grande, attraverso questo codice fatto di razionalità e insieme di

tradizione cetuale, ha preteso di guidare verso il bene comune una società mummificata.

Alexis de Tocqueville, con una lucidità impietosa, formula, nell’800, il giudizio più incisivo su

questo codice, definendolo “un essere mostruoso sotto una testa tutta moderna”. Secondo lui, infatti,

il codice prussiano è il più recente documento legislativo che legalizza quelle ineguaglianze feudali

che la Rivoluzione francese stava per abolire in tutta Europa.

3- Se infine nell’ALR cerchiamo di cogliere l’antropologia che ha guidato il legislatore, vedremo

che…

in fatto di infantilizzazione delle masse, Federico la pensa come Voltaire:

tuttavia non devono essere coloro che pensano ad educare e dirigere al bene gli sprovveduti sudditi,

bensì è lo stesso sovrano, “domestico dello stato”, che deve realizzare la massima felicità possibile

del suo popolo:

egli è il tutore, l’educatore e il castigatore dei suoi sudditi che, ceto per ceto, devono obbedire, nei

limiti della propria condizione sociale, ai comandi del despota illuminato dalla ragione.

Quando assolutismo ed illuminismo si uniscono, essi danno vita ad una forma di potere detta

paternalismo: Federico è il padre dei suoi cittadini, e come tutti i buoni padri difende, istruisce e

punisce.

Uomo realista, Federico sa che gli esseri umani non sono né angeli né demoni, ma semplicemente

persone che si agitano nella società, stretti fra una condizione di debolezza e di fragilità: occorre

dunque che il pedagogo insegni, avverta, ammonisca e, in caso si sia fatto cattivo uso della propria

libertà, punisca.

Quella dell’ALR è una società in ginocchio:

-il servo è in ginocchio di fronte al signore feudale

-l’impiegato dinanzi al direttore

-il figlio davanti al padre

-e tutti, in massa, lo sono nei confronti del sovrano illuminato, dal quale piovano le più diverse

prescrizioni sul vivere quotidiano.

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SEZIONE III:

AREA AUSTRIACA

La codificazione del diritto civile

LA POLITICA RIFORMISTICA DI MARIA TERESA D’AUSTRIA

Maria Teresa D’Austria che regna tra l’ascesa e il tramonto dell’illuminismo europeo.

Quando sale al trono d’Asburgo, Maria Teresa eredita il doppio titolo di

-regina della casa d’Austria e di

-cattolica imperatrice del Sacro Romano Impero,

ritrovandosi in questo modo a regnare su un universo polito ampio e multietnico formato da:

• I territori ereditari di lingua tedesca (Austria, Boemia, Moravia, Slesia, Carinzia, Carniola,

Tirolo, Gorizia, Trieste, Volande)

• Ungheria

• Paesi Bassi

• e Lombardia.

Comunque la si voglia etichettare, Maria Teresa ha una concezione della sovranità completamente

tutelare e patriarcale, concezione, questa, unita ad uno spiccato istinto di conservazione del potere.

Tutto ciò spiega come Maria Teresa capisca ben presto l’incompatibilità intercorrente tra le

prerogative detenute anche in area austriaca dagli Stande e l’esigenza di un primato della

attribuzioni regali.

Se, dunque, i primi passi di Maria Teresa nell’ambito dei provvedimenti da compiere appaiono

cauti,

di anno in anno la sua azione diventa sempre più precisa

sino a giungere ad un vero e proprio programma riformatore, basato sulla riconduzione allo

stato della intera attività di produzione ed applicazione del diritto.

Senza abbandonare le strade battute dai suoi predecessori, Maria Teresa si circonda di collaboratori

illuminati che la influenzano su ciò che riguarda il governo dello stato: TUTTAVIA, forte del suo

cattolicesimo bigotto e del suo senso tutto empirico, ella agisce come moderatrice di questi uomini,

rendendo il proprio governo un compromesso tra le dottrine dei lumi e il suo personale pensiero

sulla felicità dei sudditi.

Rinnovare la società attribuendo un ruolo fondamentale al diritto, senza sottovalutare,

tuttavia, le tradizioni radicate nelle varie province dell’impero: ecco la formula adottata da

Maria Teresa.

Dal 1740 fino al 1750 il processo di modernizzazione dello stato procede per tappe precise, con

l’obiettivo di ridurre il più possibile l’autonomia degli stati, centralizzando nella corona le

competenze politiche, economiche e finanziarie, nonché le funzioni giurisdizionali ed

amministrative.

Nel 1750…

 coerentemente alle dottrine del mercantilismo, che implicano una diminuzione delle importazioni

ed un aumento della produzione, negli stati ereditari di lingua tedesca

-viene unificata la moneta, tanto che nasce il tallero teresiano

-vengono soppresse le dogane interne

 con il fine di giungere alla centralizzazione dell’ordinamento giudiziario, viene istituito il

supremo tribunale giudiziario, tribunale che va a collocarsi, con competenze di ultimo appello, al di

sopra di tutte le corti inferiori.

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Per quanto riguarda l’ambito amministrativo, nel 1766 viene creato il Consiglio di Stato: a questo

organo sono attribuite funzioni consultive nell’ambito dell’intera attività di governo, esercitabili

secondo il criterio della imparzialità.

A questo quadro generale di riforme emanate per giungere all’unificazione del diritto va aggiunto il

fatto che Maria Teresa sia stata il primo sovrano illuminato a creare un insegnamento di stato:

una commissione regia per le riforme scolastiche, infatti,

-istituisce scuole professionali ed istituti di istruzione superiore

-ristruttura la facoltà di giurisprudenza di Vienna secondo un piano di studi illuministico, che

diviene a poco a poco un modello per tutte le facoltà dell’impero asburgico.

-l’obbligo scolastico viene fissato all’età di 6 anni

-contenuti e metodi di insegnamento vengono sottratti dal monopolio dei gesuiti e posti sotto il

controllo statale.

-E’ così che l’imperatrice, in qualità di vigilante pedagogo, compie personalmente visite di

ispezione negli istituti scolastici, in quanto questi sono, essenzialmente, fucine di buoni sudditi.

Affrancando il popolo dall’ignoranza

e fabbricando servitori dello stato

il potere produce un sapere che ha come obiettivo quello del senso dello stato.

IL “CODEX THERESIANUS”

Un unico potere assoluto chiamato a governare popoli diversi, implica che per governare questi

popoli ci sia unità del diritto.

All’unità del diritto si giunge attraverso l’accentramento amministrativo e giudiziario prima, e

attraverso la codificazione poi.

Centralizzato dunque l’ordinamento giudiziario, Maria Teresa mira appunto, pena il fallimento di

tutti gli sforzi compiuti fino ad allora, proprio alla codificazione: per poter trasferire infatti giudici e

funzionari da un territorio all’altro, occorre che questi abbiano a che fare, ovunque si trovino, con lo

stesso diritto.

Per questo motivo, l’imperatrice nomina una commissione di compilazione, avente il compito di

progettare un testo normativo che contenga una disciplina certa del diritto privato. Questo nuovo

“ius universale et certum” dovrà governare in modo uniforme la vita e i rapporti delle popolazioni

viventi nei territori ereditari di lingua tedesca.

Con questo provvedimento, dunque, prende avvio un memorabile processo di codificazione

destinato a produrre uno dei più importanti codici civili europei di stampo illuminista e borghese:

il codice civile generale austriaco (allgemeines burgerliches gesetzbuch: ABGB).

Tuttavia, prima che Francesco I d’Asburgo firmi l’atto di promulgazione del codice suddetto, nel

frattempo fatto e rifatto, dovranno trascorrere quasi 60 anni (1811).

Questo imponente modello di codificazione civile entrerà dunque in vigore senza avere più legami

diretti con il regime politico che lo aveva programmato, in quanto, nel 1811, l’assolutismo

illuminato non sarà che storia.

Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.

Nel 1755, la commissione di compilazione presenta tre volumi sul diritto delle persone:

poiché, tuttavia, anche se non si è ancora che alla prima delle tre parti dell’opera, il materiale

normativo messo assieme appare eccessivo, alla commissione di compilazione viene affiancata (e

poi sostituita) una commissione di revisione.

Dopo 10 anni di lavori, il codice commissionato da Maria Teresa D’Austria è interamente costruito,

e viene battezzato con il nome di Codex Theresianus, in omaggio all’imperatrice.

Nonostante il titolo, tuttavia, i compilatori hanno abbandonato il latino, redigendo le norme in un

tedesco discorsivo e non tecnico: è, questa, una novità importantissima da sottolineare!

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L’impianto del codex è quello della classica tripartizione giustinianea, vale a dire tre libri,

rispettivamente dedicati a persone, cose e obbligazioni.

Ciò che colpisce, tuttavia, è il fatto che entro uno schema tanto sobrio, prenda forma una

costruzione giuridica smisurata:

-è vero che il diritto privato è distribuito in tre libri,

-ma è anche vero che questi costituiscono 8 mastodontici volumi!!

Questa mostruosa prolissità, che non agevola di certo la chiarezza complessiva del testo, si deve al

fatto che i compilatori, nel tentativo di conciliare le antinomie, non hanno riordinato il caos

normativo presente, semplificandolo attraverso i principi generali, ma lo hanno solo disposto in una

immensa distesa di minuziosi precetti.

La mancanza di compendiosità, tuttavia, non impedisce che il codice teresiano abbia raggiunto

importanti posizioni nell’ambito della storia della codificazione:

 Siamo di fronte alla prima decisione di ritagliare una branca giuridica e di codificarla

autonomamente come diritto privato:

è, nell’ottica dei giuristi teresiani, classificabile come “diritto privato” la disciplina di persone e

famiglia, cose e diritti reali, e obbligazioni.

 I compilatore che inseriscono nel codice la direttiva secondo cui ogni fonte previgente è da

considerarsi abrogata, presentano il nuovo diritto non più come una normativa sussidiaria, bensì

come una normativa unica per tutti i territori assurgici di lingua tedesca.

 Il problema del rapporto tra giudice e legge è impostato secondo il principio della certezza

del diritto e della sottoposizione del giudice alla legge stessa.

Se i giuristi teresiani hanno impiegato 13 anni per costruire il codice, ad essi ne occorrono altri 5

per seppellirlo senza averlo promulgato:

il progetto, sottoposto ad interminabili discussioni, incontra l’invalicabile opposizione

-non solo dell’ascoltatissimo cancelliere Anton Von Kaunitz, che richiede un testo più semplice,

tecnico e compatto, costruito intorno ad un unico soggetto giuridico, e non a particolarismi di status,

-ma anche del figlio di Maria Teresa, Giuseppe II.

Se dunque nel 1771 viene definitivamente decretato l’abbandono del progetto,

nel 1772 Maria Teresa, persuasa di rifare tutto da capo, mette in funzione una ulteriore

commissione: questa nuova squadra lavorerà per circa 14 anni, presentando al nuovo imperatore

Giuseppe II il risultato del lavoro complessivamente svolto: il c.d. Codice Giuseppino.

DIRITTO E POTERE, STATO DI RAGIONE E RAGIONE DI STATO NELL’ILLUMINISMO

“RIVOLUZIONARIO” DI GIUSEPPE II

a) Il riformismo di Giuseppe II e la codificazione del processo civile (1781)

Con la scomparsa di Maria Teresa e l’ascesa al trono del figlio, l’ “imperatore filosofo” già coreggente dal 1765, ha inizio il decennio del regno Giuseppino [1780-1790] durante il quale i

processi di mutamento delle istituzioni asburgiche subiscono una accelerazione formidabile.

Mentre infatti Maria Teresa aveva rotto solo a metà con il passato, adottando compromessi

equilibratori, e riuscendo a frenare il demone distruttore e insieme innovatore che si agitava nel

figlio, e che ella temeva come portatore di mal contento

Giuseppe II non ha la stessa mano leggera della madre, tanto che gli anni del suo regno possono a

buon diritto essere definiti “gli anni della bufera”, in ragione del fatto che, quando le radicali

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riforme da lui decretate si abbattono sulla popolazione, questa inizia a sentirsi come trascinata in

una bufera.

Alla morte della madre, infatti, il riformismo di Giuseppe si scatena senza più contrasti: il suo è un

globale e razionale disegno di pianificazione burocratica e legislativa, che egli intende realizzare

sino in fondo senza preoccuparsi di avere il sostegno del popolo.

E’ così che il nuovo despota illuminato, che nutre un culto feticistico dello stato e dell’unità del

potere, trascina tutti i paesi dell’impero asburgico in uno sconvolgente esperimento di politica

centralizzatrice: è così che, reagendo ai metodi di intervento con cui Giuseppe II abbatte libertà,

tradizioni e privilegi, nasce tra i sudditi il mito retrospettivo di Maria Teresa e dei tempi felici del

suo tollerante governo.

Giuseppe II è il despota che trascorre le giornate

-dettando editti, decreti, ammonizioni e istruzioni

-e dando udienza a decine di sudditi di ogni estrazione sociale:

è, questo, il modo in cui il disadorno imperatore esteriorizza quella che abbiamo chiamato la c.d.

etica del servizio, secondo la quale egli pretende di rendere felici i sudditi stabilendo, al posto loro,

come essi debbano diventarlo.

La sua idea si incentra su di un’unica società civile uguale ed indifferenziata, guidata

pedagogicamente verso il bene da un sovrano che è servitore dello stato per diritto divino e naturale.

Tuttavia, Giuseppe sa benissimo che i corpi intermedi, i ceti sociali privilegiati e i centri di potere

indipendenti dal monarca rappresentano la negazione stessa dell’idea di unità: così, per giungere a

realizzare uno spersonalizzato stato perfetto, egli deve annientare

-il particolarismo sociale

-e le autonomie dei corpi privilegiati.

Al primo posto del suo grandioso disegno di codificazione, Giuseppe II pone l’unificazione del

diritto processuale, in quanto un codice di procedura civile porrà termine alla varietà dei tipi di

processo nei paesi dell’impero, neutralizzando il c.d. dispotismo dei giudici.

E’ così che nel 1781 egli promulga il famoso Regolamento Giudiziario Civile (CGO):

questo codice sarà introdotto nella Lombardia austriaca segnando la fine del plurisecolare processo

di diritto comune: mutuato il periodo napoleonico, poi, la disciplina Giuseppina del processo civile

non sarà abrogata nel Lombardo-Veneto che al momento dell’unificazione legislativa italiana del

1865.

Questo codice risolve il problema di ricondurre al criterio di legalità un processo fino ad allora

quasi esclusivamente dipendente dall’arbitrio del giudice: infatti nell’ambito della nuova procedura

(procedura assai più rapida rispetto a quella di diritto comune), opera un giudice rigorosamente

subordinato alla legge.

b) Gli editti di Giuseppe II

Mentre la codificazione civile austriaca è in fase di preparazione

e la CGO è appena stata promulgata,

Giuseppe II anticipa la rivoluzione del diritto privato emanando degli editti: gli interventi che egli

compie che risultano di più ampia portata e che verranno poi incorporati nel futuro codice civile

sono cinque, tutti più o meno diretti a colpire le tre agglomerazioni di potere che si frapponevano tra

sovrano e sudditi: nobiltà, clero e corporazioni mercantili.

I. Con l’editto di tolleranza, Giuseppe II consente la libera professione di una serie di confessioni

religiose diverse dalla cattolica, riconfermata però come culto dominante.

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Ciò che ispira la politica di tolleranza di Giuseppe, peraltro uomo sinceramente credente, è un

atteggiamento di ostilità nei confronti del potere della Chiesa di Roma, che prende il nome di

giuseppinismo: egli propugna un anticurialismo che implica

-la gestione degli affari ecclesiastici da parte dello stato

-la riduzione dell’autorità della chiesa all’ambito puramente spirituale

-la limitazione delle prerogative del pontefice.

A parte tutto, ciò che è bene sottolineare è il fatto che con l’editto di tolleranza, che accorda agli

acattolici la parità dei diritti civili e il libero accesso ai pubblici uffici, vengono meno le tradizionali

differenze di trattamento giuridico dovute allo status religionis.

E’, questo, un passo decisivo verso l’unificazione del soggetto di diritto.

II. Con l’editto matrimoniale, Giuseppe II sottrae il matrimonio al diritto canonico e alla

giurisdizione ecclesiastica, conferendogli la natura di contratto di diritto civile.

III. Con l’editto successorio, Giuseppe II rivoluziona il campo del diritto ereditario,

tradizionalmente caratterizzato da tre diversi regimi:

-quello dello stand dei nobili

-quello dello stand borghese-cittadino

-e quello del ceto contadino.

Col nuovo editto, invece,

 Il regime giuridico dello stand borghese-cittadino viene considerato di regime generale, ed è

volto

-a favorire la libertà del de cuius a disporre del testamento

-e a facilitare la divisione ereditaria.

 I regimi giuridici dello stand dei nobili e di quello dei contadini, invece, sono ridotti ad un

secondario complesso di norme eccezionali.

IV. Con l’editto sulla libertà di commercio, si mira a sopprimere ogni monopolio commerciale

detenuto dalle corporazioni mercantili al fine di favorire la libera concorrenza e la libera

circolazione dei beni.

V. Infine con l’editto sulle terre feudali, Giuseppe II mira a

-modificare la destinazione dei fondi coltivati dai contadini

-e a munire, appunto, i contadini di un altro titolo: da persone assoggettate al dominio del feudatario

-ad “affittuari ereditari” del fondo, che hanno la possibilità di trasformare in proprietà il fondo

stesso.

c) Il codice civile Giuseppino (Josephinisches Gesetzbuch) del 1786

L’interventismo di Giuseppe II si ripercuote anche sulla commissione legislativa che era stata

instaurata da Maria Teresa: il lavoro dei giuristi che ne fanno parte, infatti, subisce una notevole

accelerazione a causa delle pressioni dell’imperatore.

Nel 1876, infatti, la commissione ha steso in modo definitivo il primo dei tre libri del codice civile

messi in cantiere (i due seguenti, invece, rimarranno incompiuti perché la commissione verrà sciolta

l’anno seguente per cause politiche):

Il testo è dedicato ai principi generali de diritto, al diritto delle persone e a quello di famiglia;

poiché Giuseppe II ha fretta di puhblicarlo, questo primo libro entra in vigore (a prescindere dai due

libri successivi) con il nome di Codice Giuseppino.

Il presupposto di questo codice è che il sistema dei diritti e dei doveri iscritto nella natura dell’uomo

sia perfettamente riproducibile in norme positive per opera di un sovrano legislatore tenuto, per

contratto sociale, a guidare i sudditi alla felicità.

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La figura grande, ma poco amata, di Giuseppe II, despota privo del consenso dei popoli che

governò, lasciò, alla sua scomparsa, una eredità di riforme tanto rivoluzionarie quanto incomprese.

IL PROSEGUIMENTO DEI LAVORI DI CODIFICAZIONE CIVILE LUNGO GLI ANNI POSTGIUSEPPINI: DAL PROGETTO MARTINI AL CODICE CIVILE GRAZIANO (1794-1797)

a) Il “dopo Giuseppe II” e un importante passo avanti: il progetto Martini (Entwurf Martinis,

1794)

Con il 1970, nella storia della codificazione civile austriaca, due uomini si muovono in primo piano:

Leopoldo II, fratello e successore di Giuseppe

e Carlo Antonio Martini.

 Leopoldo, di mente assai più duttile rispetto a quella del fratello, ma animato da un

riformismo meno risoluto, ha incarnato al meglio, negli anni precedenti, lo spirito dell’assolutismo

illuminato, ricevendo anche grandi consensi.

Granduca di Toscana, Leopoldo promulga la più celebre delle legislazioni ispirate all’illuminismo

penale di Beccaria: l’umanitaria Leopoldina del 1786, comportante la depenalizzazione del reato di

lesa maestà e l’abolizione della pena di morte.

 Il celebre giurista Martini, invece, dopo una carriera prestigiosa, diventa, per opera di Maria

Teresa, precettore di corte del piccolo Leopoldo, ritrovandosi così tra le mani la chiave di volta del

futuro assolutismo illuminato del futuro imperatore. Tra i suoi numerosi scritti giuridici, ve ne sono

alcuni che hanno origine proprio dalle lezioni impartite a Leopoldo.

Con Giuseppe II, egli diventa consigliere dell’imperatore, che gli affida il compito di

riorganizzare, secondo il modello austriaco, l’apparato giudiziario in Ungheria e Lombardia.

Leopoldo II, invece, lo chiama a presiedere la commissione per la stesura di un nuovo progetto di

codice civile: Martini dovrà rielaborare i materiali normativi del codice Giuseppino e degli

incompiuti secondo e terzo libro.

Nel 1974, Martini ha pronto il codice civile commissionatogli da Leopoldo II, che verrà sottoposto

al nuovo imperatore Francesco I:

si tratta del famoso “Progetto Martini” (Entwurf Martinis).

Il testo esibisce la classica strutta tripartita:

principi generali e diritto di persone e famiglia

proprietà, altri diritti reali, successioni

contratti e aree normative non collocabili nelle prime due parti.

b) Il codice civile Galiziano (WGGB, 1797)

Nel 1976, un provvedimento imperiale dispone che delle commissioni regionali presentino ad una

superiore commissione di revisione le proprie osservazioni sul Progetto Martini: questa, poi,

indicherà in modo definitivo in quale forma e con quali contenuti il codice dovrà essere promulgato.

Tuttavia, senza che questo iter venga compiuto, le prime osservazioni pervenute da alcune

commissioni regionali portano ad una ulteriore stesura del progetto:

il nuovo testo contiene scarse variazioni, e viene promulgato in via sperimentale, in Galizia. E’ così

che entra in vigore il c.d. codice civile galiziano (WGGB).

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96

Fino a pochi anni fa, alla storiografia italiana era sfuggito il fatto che il progetto Martini e il codice

civile galiziano fossero due testi distinti, e che il secondo presentasse delle modifiche rispetto al

primo.

Il codice civile galiziano incarna abbastanza bene l’idea che noi abbiamo di un codice civile, in

quanto…

 Mira a rimpiazzare del tutto il pluralistico sistema giuridico previgente, di cui dispone

l’abrogazione, salvando solo le consuetudini conformi al codice.

 Le materie che esso disciplina sono identificate come contenuti specifici del diritto

privato.

In altre parole:

il codice è programmato per accogliere solo norme di diritto privato

è diritto privato solo quello che si trova nel codice

 Tende ad escludere dall’ambito del diritto privato (perché classificate come di diritto pubblico) le

norme istituenti prerogative e privilegi di ceto, facendo un grande passo in avanti verso il traguardo

dell’unificazione del soggetto di diritto:

pur sopravvivendo nel codice qualche isolata area di diritto eccezionale, infatti, il legislatore, di

regola, visualizza un unico destinatario delle norme.

 E’ proprio su questa figura del suddito-soggetto giuridico che Martini basa i principi

generali. Essi servono

-sia a reggere il codice da lui progettato

-sia a svolgere la funzione di teoria generale del diritto,

e sono:

• Il soggetto, prima ancora di essere suddito, è uomo, e come tale gode di innati diritti naturali

• E’ nella natura dell’uomo la vocazione ad unirsi ai suoi simili nello stato, che ha lo scopo di

perseguire il bene comune

• Lo stato persegue il bene comune garantendo i diritti naturali di libertà e di proprietà dei

consociati, consociati i quali si vedono riattribuire tali diritti per mezzo delle leggi positive.

• I diritti che lo stato positivizza e riconsegna all’uomo quando costui diviene suddito

riguardano:

-la conservazione della vita

-la difesa della persona e dei beni

-la tutela dell’onore

-l’elevazione delle capacità fisiche e spirituali

• Occorre tener presente il fatto che, quando viene promulgato il codice galiziano, in Francia è

stata da poco promulgata la dichiarazione dei diritti dell’uomo.

Martini guarda alla carta francese non come un documento proclamante i diritti dell’uomo,

bensì come ad un documento volto ad innescare una rivoluzione contro questi diritti:

secondo lui, infatti, i diritti naturali dell’uomo possono essere determinati e garantiti

esclusivamente da un legittimo sovrano.

Non è dunque un caso che nel WGGB i diritti naturali del suddito siano da Martini sciorinati

in formule molto generali, in quanto sarà il sovrano a determinarne l’effettiva portata.

P:97

97

In conclusione, quella del codice galiziano è una sorta di controdichiarazione, che va ad

opporsi a quella francese dell’89.

 In caso di oscurità o di lacuna della legge, il giudice, esaurito ogni tentativo di analogia, può

integrare il testo ricorrendo ai principi giuridici generali:

questa disposizione apre il codice a interventi giudiziari integrativi.

 Il diritto di famiglia assume una impronta pedagogica: lo stato vive nel tempo attraverso le

famiglie fondate sul matrimonio, famiglie i cui figli sono la benedizione dello stato: dunque, il

provvedere alla cura e all’educazione dei figli è un diritto-dovere esercitabile dai genitori sotto il

controllo dello stato.

IL MOMENTO CONCLUSIVO DELLA CODIFICAZIONE CIVILE AUSTRIACA:

LA PROMULGAZIONE DELL’ABGB (1811)

a) I lavori preparatori e l’approvazione dell’ultimo progetto (1801-1811)

Il secolo dell’illuminismo, che credeva di aver scoperto

-la felicità del genere umano

-e le illimitate possibilità benefiche di un legislatore onnipotente,

si conclude, invece, a lumi spenti, in quanto la Rivoluzione Francese si è portata via molte delle

illusioni dell’illuminismo.

Occorre chiedersi che cosa rimanga, a questo punto, dell’antica fiducia nella provvidenza

infallibile di uno stato pedagogo:

nell’ambito della monarchia austriaca, essa muove i suoi primi passi del nuovo secolo

-in un clima contrassegnato dal confronto con quella formidabile potenza nemica in espansione che

è la Francia

-e animata da contrapposte tendenze conservatrici e liberali

In questo clima, l’eterno problema del rapporto tra tutela dei poteri dello stato e tutela dei diritti dei

sudditi attende risposte nuove:

risposte tanto più difficili da trovarsi, se si pensa che, fino alla prima metà dell’ottocento, nella

prassi dell’impero asburgico l’idea di una costituzione che garantisca gli inviolabili diritti

individuali non ha spazio.

In questo scenario, lo sperimentale codice civile galiziano inizia ad apparire superato.

Così, nel 1801, una commissione imperiale riunita da Francesco I, revisiona i contenuti del codice

galiziano mettendo a punto, nel 1811, un codice civile che sfiderà i tempi:

anche se questo testo ha avuto un percorso difficile, perché continuamente bersagliato di critiche

dalla conservatrice burocrazia asburgica, che lo respinge per ben due volte,

nel 1811 Francesco I può finalmente promulgare il

CODICE CIVILE GENERALE PER I TERRITORI EREDITARI DELLA MONARCHIA

(siglabile come ABGB).

Con esso si dichiara abrogato

il diritto comune

la prima parte del codice civile promulgato nel 1786

il codice civile galiziano

le altre leggi e consuetudini relative al codice generale appena promulgato.

Con la promulgazione di questo codice, noi possiamo osservare quali postulati del giusnaturalismo

esso abbia abbandonato, e quali invece, esso, abbia conservato:

P:98

98

 Non c’è più niente che rimandi alla Giuseppina etica del servizio e

 Manca la menzione del dovere del sovrano illuminato di

-determinare i diritti dei sudditi

-dirigere la loro condotta

-realizzare il bene comune.

 Restano fermi, invece, alcuni principi dell’illuminismo giuridico:

• la certezza del diritto

• l’ancoraggio del diritto positivo a quello naturale

• la conformità del diritto positivo alle relazioni dei cittadini

• la chiarezza delle norme

• il rigore razionale del sistema normativo nel suo complesso

b) L’ispirazione kantiana dell’ABGB e il ruolo centrale di Franz von Zeiller

all’ABGB hanno lavorato numerosi giuristi di grandi capacità tecniche:

tuttavia, colui che ha impresso ad esso l’impronta decisiva della propria scienza e di una specifica

filosofia giuridica è stato il relatore ufficiale FRANZ VON ZEILLER, che, a codice promulgato,

pubblica anche un suo Commentario.

Allievo di Martini, e grande burocrate, Zeiller si sposta dal pensiero del maestro al pensiero di Kant,

tanto che, in tema di diritto, dire Zeiller è dire Kant:

molto spesso, infatti, egli ha riempito della dottrina di Kant le norme che ha codificato, in quanto

aveva assimilato profondamente le teorie di questo pensatore.

L’altissima etica kantiana si distacca radicalmente

sia dalla morale eudemonistica (cioè da quella dottrina che riconosce come scopo fondamentale

della vita dell’uomo il raggiungimento della felicità), sia dalla morale utilitaristica,

proprie del giusnaturalismo illuminista e dell’assolutismo illuminato:

ciò che fonda la vita dell’uomo non è l’aspirazione a raggiungere la felicità, bensì il principio del

dovere per il dovere, che impone di agire bene semplicemente perché si deve agire bene.

ciò che il sovrano deve garantire al suddito non è la felicità, bensì la dignità di persona umana.

Ma tutto ciò,

-che implica che a guidare l’agire dell’uomo sia una ragione superiore (ragion pratica)

-implica anche che, come condizione fondamentale della sua vita, l’uomo abbia la libertà perché, in

quanto libero, egli obbedisce solo a se stesso, dominando gli impulsi che ha e autodisciplinandosi

secondo il principio del dovere per il dovere.

Kant porta a livelli più alti rispetto a quelli delle dottrine del giusnaturalismo germanico anche la

distinzione tra morale e diritto:

sia la morale che il diritto hanno carattere normativo e hanno la propria fonte in imperativi posti

dalla coscienza:

mentre la morale, infatti, regola la vita interiore di ogni uomo, e cioè le scelte e i valori a cui esso

si conforma, secondo una sorta di libertà interna,

il diritto, al contrario, disciplina le azioni che l’uomo compie esercitando una libertà esterna,

vale a dire una libertà che interferisce con la libertà degli altri uomini nell’ambito dei rapporti

intersoggettivi.

Dunque per Kant:

-la persona umana è un valore prioritario rispetto alla collettività sociale

-la società è intesa, appunto, come somma di individui liberi, ciascuno dei quali

-è un soggetto indipendente, in virtù del fatto che ha l’attitudine ad agire moralmente

P:99

99

Quello kantiano, dunque, viene a contrassegnarsi come individualismo giuridico:

il diritto è l’insieme delle condizioni per cui l’arbitrio di un uomo si accorda con l’arbitrio di un

altro uomo secondo una legge universale di libertà.

Da questo presupposto di libertà come condizione irrinunciabile di ogni singolo uomo, derivano 4

conseguenze:

1. la libertà si traduce in capacità giuridica, intesa come diritto innato di ciascuno.

2. questa capacità giuridica, in quanto attributo costitutivo della persona, è sottratta alla

disponibilità del legislatore

3. il legislatore riconosce l’autonomia privata (in cui si esplica la capacità giuridica) come

qualcosa di spettante all’uomo, che viene garantita dallo stato

4. il fatto che tutti abbiano capacità giuridica implica che tra i soggetti ci sia parità, ossia che tra

loro ci sia uguaglianza civile.

Tutto questo è ciò che Zeiller recepisce fedelmente di Kant, al punto che si è parlato di

onnipresenza kantiana nell’ABGB.

c) Lo spirito di un codice in anticipo sui tempi

Il fatto che nel codice austriaco sia impregnato dell’individualismo giuridico kantiano spiega

l’ispirazione garantistica del testo, testo che ha come proprio fine quello della certezza dei diritti

di tutti i cittadini.

Questo garantismo è tanto più importante perché l’ABGB si innesta su una situazione politica

ancora basata sull’ancien regime, e dunque su una situazione che non corrisponde al timbro

borghese che le norme del codice, invece, hanno.

Troppo anticipatore rispetto ad una società conservatrice delle prerogative di ceto, l’ABGB,

nonostante ceda a qualche compromesso con il mondo di ancien regime, entra comunque in vigore

senza che molti dei suoi moderni istituti riescano ad attecchire:

è, questa, la conseguenza del problematico rapporto intercorrente tra una realtà ancora ferma sui

modelli del passato e questo codice già inserito in prospettive future.

Le sue norme di stampo liberal-borghese, comunque, dureranno del tempo, prefigurando l’ordine

della società civile che si sarebbe realizzato più tardi.

d) Struttura sistematica, fonti e veste formale dell’ABGB

 Per dare giusto rilievo ai pregi strutturali dell’ABGB, occorre confrontarlo con l’ALR:

Il codice civile austriaco si compone di 1502 paragrafi, distribuiti in tre parti:

• La prima, comprendente anche una introduzione sul diritto in generale, riguarda il diritto

delle persone.

• La seconda riguarda il diritto sulle cose

• La terza, delle disposizioni comuni ai diritti delle persone e sulle cose, struttura in

categorie la disciplina della costituzione, modificazione ed estinzione dei rapporti giuridici.

A proposito di questa limpida costruzione sistematica occorre fare due osservazioni:

I. è facile scorgere dietro di essa la tripartizione giustinianea personae-res-acriones.

II. è altrettanto visibile, nella terza parte, lo sforzo di codificare, per la prima volta, una parte

generale del diritto.

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 Le fonti da cui i compilatori dell’ABGB hanno attinto i materiali normativi sono

identificabili in tre gruppi:

1) il diritto romano, modernizzatosi secondo gli orientamenti della prassi forense germanica.

2) il complesso dei diritti territoriali applicati nelle province ereditarie della corona asburgica

3) i principi di diritto naturale accolti nel codice civile Giuseppino e, più tardi, codificati da

Martini nel WGGB.

 Le 1502 norme dell’ABGB ci fanno sembrare preistorici i precetti del codex Theresianus,

momento di partenza della codificazione austriaca. Gli obiettivi, raggiunti, di Zeiller e dei suoi

colleghi, erano due:

la formulazione chiara delle norme

la brevità complessiva del testo, ottenuta

-evitando di sminuzzare i singoli precetti in una casistica dettagliata

-evitando di complicare il fraseggiato normativo con motivazioni paternalistiche o

esasperate puntualizzazioni.

Puntando alla sobrietà espressiva, il legislatore austriaco non solo ha ottenuto un codice breve,

ma ha anche ottenuto un codice le cui norme sono sufficientemente generali e astratte.

TUTTAVIA…

 Mentre il codice civile francese è caratterizzato da norme imperative

 Le norme del codice austriaco, invece, sono di carattere enunciativo e definitorio:

il linguaggio del legislatore asburgico è di carattere didattico (modo di esprimersi

volutamente ripudiato dal legislatore napoleonico) e come tale dà vita ad un modello di

codificazione completamente alternativo rispetto a quello francese:

-mentre infatti nel modello francese il legislatore emette comandi, tanto che si parla di

imperativismo legislativo

-nel modello austriaco il legislatore enuncia principi, tanto che si parla di dottrinarismo

legislativo.

E’ naturale, dunque….

che l’aver optato per un codice breve andasse a scapito della completezza del testo (requisito

vantato, invece, dal codice civile francese).

che tale incompletezza del testo, presupponesse l’integrazione ad opera dei giudici dell’impero

(atteggiamento, questo, ben diverso rispetto a quello del legislatore francese, volto a limitare il più

possibile l’autonomia dell’interprete).

e) Il paragrafo 7 dell’ABGB: i criteri di interpretazione del testo e il giusnaturalismo

giudiziale

Il problema dell’interpretazione delle norme, viene risolto dall’ABGB nel famoso paragrafo 7:

dando infatti per scontata la lacunosità del testo, il legislatore concede all’interprete..

prima, il ricorso all’analogia

poi, dove persista il dubbio, la facoltà di fare appello ai principi del diritto naturale.

L’ABGB si discosta così

-dall’ALR, che concede al giudice solo il ricorso all’analogia

-dal codice napoleonico, che obbliga il giudice a trarre dal codice stesso la norma per interpretare il

caso.

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f) Cenni a taluni contenuti dell’ABGB

L’ABGB mette a punto un progetto di modernizzazione della società civile, di impronta liberalborghese, in modo del tutto indipendente dal modello napoleonico: non ci si deve dunque stupire

del fatto che molto spesso esso opti per soluzioni meno innovative rispetto a quelle adottate dal

codice francese, mentre altre volte esso compie scelte decisamente più avanzate.

Non è cosa da poco, ad esempio, che l’ABGB

-riconosca la piena capacità giuridica degli individui e

-abolisca ogni forma di schiavitù,

mentre in Francia la tratta dei neri nelle colonie d’oltremare

-viene abolita solo dopo 5 anni dalla dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789

-continua sottobanco anche negli anni successivi e

-viene ufficialmente reintrodotta da Bonaparte, corredata dal divieto di matrimonio tra persone

libere e non.

Questo spirito liberale del legislatore austriaco si manifesta anche su altri fronti:

• La diversità di religione non influisce sui diritti privati

• In tema di libertà matrimoniale, ognuno può contrarre matrimonio, purché non gli osti alcun

impedimento.

• I genitori devono provvedere agli alimenti e all’educazione anche dei figli naturali.

• La donna coniugata può amministrare il proprio patrimonio e compiere atti di straordinaria

amministrazione senza obbligo di richiedere il consenso del marito.

L’intera disciplina del diritto delle persone, della famiglia e delle successioni ha una impronta

liberale rispetto ai tempi.

Tuttavia, proprio laddove l’ABGB compie le sue numerose scelte progressiste, rompendo con il

passato molto più nettamente rispetto al codice napoleonico, qui i colgono anche

altrettante manifestazioni di conservatorismo del diritto austriaco

altrettanti punti in cui il codice non ha potuto evitare un compromesso con la tradizione.

Ad esempio:

• ad esempio, L’ABGB accoglie la concezione del matrimonio civile come unica forma di

vincolo riconosciuta dallo stato, orientamento, questo, che

-addossa ai parroci le funzioni di ufficiali di stato civile.

-in un’ottica aconfessionale, spinge il legislatore a preoccuparsi anche delle minoranze non

cattoliche presenti nell’impero.

Ecco che, tuttavia, entra in gioco il fortissimo attaccamento della corona al cattolicesimo,

cattolicesimo che esercita una influenza in senso opposto, finendo per ridimensionare il principio

della irrilevanza, in campo civile, dello status religionis.

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La codificazione del diritto penale

LA CONSTITUTIO CRIMINALIS THERESIANA (1769)

Occorre a questo punto tornare indietro fino ai tempi di Maria Teresa per percorrere il tragitto

compito, in area austriaca, dalla codificazione penale.

Nel 1769, infatti, Maria Teresa riesce a promulgare una complilazione del diritto penale e

processuale penale messa a punto da una commissione: si tratta della constitutio criminalis

Theresiana, che però si rivela un insuccesso.

In essa sono semplicemente stati raccolti i diritti penali territoriali previdenti, che però non

risultarono essere legati, tra loro, dai tipici requisiti formali dei moderni codici penali.

Mancava infatti…

-il principio di legalità (tanto che sono accolte le pene arbitrarie)

-il divieto di analogia (che, quindi, era ammessa).

-l’unità del soggetto giuridico.

Suddivisa in una parte processuale e in una sostanziale, il codice teresiano nasce già vecchio, in

quanto si approccia al problema della repressione penale con una mentalità criminalistica d’ancien

regime, senza neppure sospettare che esso abbia bisogno, invece, di soluzioni nuove:

a crimini di concezione antica (come la bestemmia, la stregoneria, la lesa maestà) corrispondono

pene anch’esse antiche: la pena di morte è dispensata tantissimo dal codice teresiano, che

distingue tra

-pene più benigne, che provocano la morte in pochi secondi, come la decapitazione o la forca

-e pene più severe, che rendono la morte lenta, come il rogo, o lo squartamento.

Per quanto riguarda, invece, la parte processuale, indispensabile è la tortura, mezzo necessario a

trarre la confessione dall’imputato: come la pena di morte, anche la tortura è multiforme, tanto che

la theresiana è impreziosita, in appendice, da una catalogo illustrato dei tipi di supplizio.

Che l’antico e sanguinario codice teresiano fosse destinato a paralizzarsi in pochi anni era scontato:

a Vienna presero sempre più piede le idee illuministiche di Beccaria e così, dopo numerose richieste

di abolizione della tortura da parte dei più influenti giuristi del tempo, Maria Teresa ne dispose la

soppressione, riducendo anche i casi in cui applicare la pena di morte.

IL CODICE PENALE DI GIUSEPPE II (1787)

L’opera di Giuseppe II, nell’ambito del diritto penale, si sostanzia

 in un codice penale

 e in un codice di procedura penale.

Il primo, il codice penale, possiede tutti i requisiti per poter essere considerato un autentico

capolavoro legislativo: da despota illuminato qual è, Giuseppe II ha una naturale vocazione a

pensare strategie per risolvere i problemi di politica criminale: così, nel campo penale, il suo

attivismo lo porta a diventare l’autore di una vera e propria rivoluzione del diritto.

Il codice che egli promulga, nel 1787, è da ritenersi, come dice il Tarello, il primo codice penale

veramente moderno.

a) La autonomizzazione giuseppina del diritto penale

Se si vuole capire perché la Giuseppina (nome con cui il codice penale è divenuto famoso) sia

moderna, e perché sia la più importante espressione dell’illuminismo nell’ambito della legislazione

penale, occorre considerarla

sia in un rapporto consequenziale con il codice civile

sia in una posizione autonoma rispetto ad esso.

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-Fissate nel codice civile le regole fondamentali della convivenza nella società,

-occorreva che lo stato predisponesse anche un apparato di pene minacciate, che servissero a

tutelare l’ordinamento nel suo complesso.

Posto dunque a difesa del diritto civile, il diritto penale acquisisce a poco a poco una identità

autonoma, identità che nella tradizione del diritto comune il vecchio diritto chiamato “criminale”

non aveva mai posseduto rispetto al diritto civile: il diritto penale, cioè, viene ora visto come la sola

branca della legge che può fissare pene.

b) La formalizzazione del diritto penale: legalità, completezza, astrattezza della legge

punitiva

Il diritto penale Giuseppino vanta un alto grado di formalizzazione: essendo cioè le fattispecie

formulate secondo i criteri di tassatività, tipicità e determinatezza, viene considerato reato solo quel

fatto espressamente previsto dalla legge.

Questi tre criteri identificano il c.d. principio di legalità del diritto penale.

Oltre a questo requisito, il codice Giuseppino ne contiene anche un altro: quello della

completezza, requisito che…

-esclude l’eterointegrabilità del testo

-presuppone l’abrogazione dell’intera normativa penale previgente, a cui esso si sostituisce.

Ultimo importante requisito, per mezzo del quale i consociati vengono considerati tutti uguali di

fronte alla legge, è quello della unicità del soggetto di diritto penale:

il destinatario delle norme del codice è privo di caratterizzazioni relative al ceto sociale: ad un

soggetto indeterminato, qualificato come reo, viene collegato un crimine tipizzato e la minaccia di

una pena prescindente anch’essa dallo status del colpevole.

c) La subordinazione del giudice alla legge penale

Il principio di legalità ed il divieto di analogia espressi nella Giuseppina, hanno come destinatario il

giudice: essi, infatti, sono diretti a farne un mero funzionario, escludendo ogni suo arbitrio

nell’amministrare la giustizia penale.

Risulta chiaro, dunque, che il codice vuole dire addio all’arbirtrium iudicis.

Tutto questo, tuttavia, non deve far pensare che la Giuseppina sia una codice a pene fisse,

applicabile meccanicamente da un giudice-autonoma, in quanto..

il giudice deve sì attenersi alla disposizione letterale della legge,

MA, nell’erogare la pena, deve guardare che essa sia equilibrata al delitto commesso.

Per raffigurarsi i limiti di questa discrezionalità, basta guardare al complicatissimo sistema delle

pene detentive.

La detenzione è distinta in tre tipi:

-prigionia

-prigionia con lavoro pubblico

-prigionia con incatenazione

Per le prime due, la legge prevede:

• tre livelli di severità(carcere mite - duro - durissimo) a seconda che al carcere si

aggiungano o no bastonate, frustate, limitazione del cibo ecc ecc…

• tre durate in termini di anni: temporale - lunga - lunghissima

• e due gradi per ciascuna durata

-TEMPORALE (MITE O DURA) 1° GRADO (DA UN MESE A 5 ANNI)

2° GRADO (DA 5 A 8 ANNI)

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ES:

PRIGIONIA -LUNGA (DURA) 1° GRADO (DA 8 A 12 ANNI)

2° GRADO (DA 12 A 15 ANNI)

-LUNGHISSIMA (DURA O DURISSIMA) 1° GRADO (DA 15 A 30 ANNI)

2° GRADO (DA 30 A 100 ANNI)

E’ evidente, dunque, che un sistema di ragioneria punitiva di tal fatta, sia opera di un legislatore

maniaco della contabilità penitenziaria.

Questa matematica della sofferenza, è concepita con lo scopo di fissare al dettaglio gli spazi in cui il

giudice deve muoversi per infliggere la pena:

la discrezionalità del magistrato non deve essere eliminata, in quanto un certo margine di

valutazione delle circostanze da parte del giudice rende possibile l’esattezza della pena

MA deve essere delimitata in anticipo dal codice, in modo da neutralizzare arbitri inutili:

è solo all’interno del grado indicatogli dal codice, cioè tra il minimo ed il massimo degli anni di

detenzione prefissati, che al giudice è permesso intervenire decidendo la misura delle sanzione.

In conclusione, la risposta al problema del rapporto tra giudice e legge penale, viene data, nella

Giuseppina, in termini eccessivamente macchinosi.

d) La struttura bipartita della “Giuseppina”

Il codice penale Giuseppino si struttura in due parti nettamente distinte:

1- Dei delitti criminali e delle pene criminali

2- Dei delitti politici e delle pene politiche

Ciascuna di queste due parti

è introdotta da due capitoli di contenuto generale e definitorio, dedicati alla dogmatica del diritto

penale

a cui seguono gli ulteriori capitoli di parte speciale.

Sono intesi come criminali, gli atti che ledono

-il sovrano,

-l’ordine politico

-la sicurezza interna o esterna dello stato

-l’incolumità, la vita, la proprietà, la libertà e l’onore dei privati.

Sono intesi come politici

-le offese al buon costume

-le trasgressioni degli obblighi che interessano ordine pubblico, pubblica sicurezza e pubblica

quiete, prevenzione degli infortuni.

Questa bipartizione della Giuseppina, ha il fine di istituire un muro divisorio nell’ambito

penalistico, fino ad allora concepito come un insieme di reati omogenei.

Indubbiamente questa bipartizione anticipa la distinizione tra delitti e contravvenzioni fissata

dall’art.39 del vigente codice penale italiano. Occorre, tuttavia, sottolineare una differenza

importante:

mentre il nostro ordinamento distingue le due classi di reati secondo la diversa specie delle pene

per essi stabilite

secondo la Giuseppina i reati sono distinguibili in base alla loro struttura ontologica:

 sono detti criminali, le condotte che lo stato deve sempre punire

 sono detti politici, le trasgressioni alle regole sociali che lo stato sceglie di punire

nell’esercizio della propria attività amministrativa.

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Dunque la struttura bipartita della Giuseppina, è concepita in vista di due precisi obiettivi di politica

criminale:

1- Obiettivo di segno liberal-garantistico

Giuseppe II ha identificato, nell’ambito dell’intero diritto penale, una sorta di diritto penale di

polizia, decriminalizzando (o, se si vuole, amministrativizzando) vari reati da sempre puniti come

crimina, ed ora puniti, invece, come contravvenzioni, e cioè come atti non direttamente lesivi di

beni giuridici primari.

Nell’ambito di queste trasgressioni di minore gravità, compaiono reati come l’eresia, la bestemmia

e l’adulterio: sotto questo aspetto, dunque, il codice di Giuseppe II compie una operazione

straordinaria, in quanto, in virtù della laicità dello stato, non punisce più come crimini le scelte di

coscienza o le abitudini sessuali riprovate dalla morale religiosa.

2- Obiettivo di impronta autoritaria e statualistica

Se il codice Giuseppino ha questa evidente impronta liberale, esso ha anche una impronta

assolutistica:

i comportamenti che formalmente sono stati decriminalizzati, infatti, di fatto non sono stati però

depenalizzati: lo stato non rinuncia cioè a punirli, affidando le loro punizioni ad un diritto penale di

polizia, le cui sanzioni sono tutt’altro che miti:

dalle bastonate in pubblico, all’esposizione alla berlina, dall’arresto, eventualmente accompagnato

da isolamento e digiuno, al lavoro pubblico.

e) Principi, definizioni, classificazione e introduzione della parte criminale della Giuseppina

• 1- Il reato

Il codice penale criminale Giuseppino si suddivide in una parte generale, fatta di due capitoli, e in

una parte speciale.

Per il penalista, le norme più interessanti sono quelle dei primi due capitoli, che contengono due

principi-pilastro del diritto penale moderno:

a) il principio della espressa previsione legislativa del fatto criminoso (nullum crimen sine

lege)

b) il principio di colpevolezza (nulla poena sine culpa), secondo il quale:

CHI SENZA MALIGNA VOLONTA’ COMMETTE UNA AZIONE ANNOVERATA TRA I DELITTI

CRIMINALI, NON POTRA’ ESSERE CONSIDERATO UN DELINQUENTE CRIMINALE, ANCHE SE

EGLI SIA COLPEVOLE..

Si presuppone, infatti, la maliziosa intenzione, ossia che l’azione contraria alla legge sia stata prima

premeditata e poi messa in atto con lo scopo di fare del male.

Il crimine, dunque, non può essere punito se non quando commesso con dolo (commissivo o

omissivo), per avere il quale è necessario che l’agente abbia liberamente voluto l’effetto

socialmente dannoso, che è conseguito al suo comportamento.

Il fatto di considerare il dolo come volontà di compiere il fatto lesivo, porta il legislatore ad

escludere gli illeciti colposi (cioè gli illeciti non intenzionali) dalla parte criminale del codice,

inserendoli nella parte politica:

il delitto colposo, dunque, viene declassato a contravvenzione.

• 2- La pena

Giuseppe II considera il principale fine del codice il criterio di proporzionalità, volto a trovare la

giusta misura tra i delitti e le pene.

Si susseguono, poi, i principi

della personalità della pena, secondo cui essa può colpire solo l’autore del delitto

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della pubblicità della pena, secondo cui il giudice non può eliminare la pena, attraverso un

compenso tra delinquente e danneggiato

della imprescrittibilità della pena (e del reato)

Non proclamati, ma ugualmente presenti come motivi ispiratori del codice, sono i principi della

laicità della pena e della sua uguaglianza per tutti i sudditi.

Il fine della pena, invece, è duplice:

• quello della prevenzione generale, intesa come intimidazione dei consociati (e non come

incoraggiamento ad osservare le norme)

• quello della prevenzione speciale, concepita come neutralizzazione del criminale (e non

come sua risocializzazione):

che Giuseppe II abbia in mente la messa fuori uso del delinquente e non la sua risocializzazione lo

mostra l’intero sistema delle sanzioni,

-minuziosamente proporzionate secondo una progressione di deterrenza,

-e più temibili della morte stessa:

il condannato al carcere durissimo, ad esempio, dovrà trascorrere in galera da un minimo di 30 ad

un massimo di 100 anni, con un cerchio di ferro intorno al torace per rendere penosa la respirazione,

ferri ai piedi, un letto di assi, nutrimento a pane ed acqua ed isolamento assoluto.

IL CODICE DI PROCEDURA CRIMINALE DI GIUSEPPE II

Se la Giuseppina è per eccellenza il primo codice penale moderno della storia,

il codice di procedura penale Giuseppino è a sua volta il primo moderno codice di procedura

penale.

Immeritatamente trascurato dalla storiografia, questo prodotto dell’illuminismo regge molto bene il

confronto con il codice penale di un anno più recente:

esso rappresenta quello che può essere definito il modello di processo penale dell’assolutismo

illuminato:

coerentemente con la politica dell’assolutismo, il sistema accolto è quello inquisitorio,

-fondato sui principi della segretezza e della scrittura

-e in cui è assente il contraddittorio

TUTTAVIA, il giudice che deve giudicare non è quello d’ancien regime, provvisto dunque di

grandi poteri arbitrari,

MA un magistrato burocratizzato, sorvegliato passo passo dallo stato,

-che percorre iter formali precostituiti

-e che pronuncia decisioni automaticamente controllate dalle istanze superiori

Il codice, dunque, si compone di due volti: uno garantistico e l’altro statualistico.

a) L’elemento garantistico

Il giudice del codice di procedura penale Giuseppino si muove secondo la logica del sistema delle

prove legali, logica che vincola a priori la sua pronuncia in questo modo:

• esiste la piena prova legale del delitto l’inquisito viene contattato alla pena fissata dal

codice penale per il delitto stesso.

• non esiste la prova legale del delittol’inquisito viene assolto

• non si ha la piena prova legale del delitto, bensì una prova incompleta, di carattere

indiziariol’inquisito viene assolto per insufficienza di prove.

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Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.

E’ proprio quest’ultimo punto delle mezze prove che costituisce un fondamentale momento

garantistico di rottura con il processo penale di ancien regime:

quando non si è in presenza di prove piene, infatti,

mentre il giudice di diritto comune poteva decidere a suo arbitrio

-di condannare il semi-reo a pene straordinarie

-o di sottoporlo alla tortura, ottenendo la confessione necessaria per la condanna alla pena edittale

il giudice Giuseppino viene invece privato di ogni prerogativa arbitraria, in quanto il suo giudizio

non può che essere l’automatica presa d’atto della sussistenza o meno delle prove predeterminate

tassativamente dalla legge.

Le prove che la legge predetermina tassativamente come vincolanti il giudice

-alla condanna alla pena edittale (se è presente una di esse)

-all’assoluzione (se esse sono mancanti)

-o all’assoluzione per insufficienza di prove (se nessuna di esse è pienamente raggiunta)

sono:

 LA CONFESSIONE DELL’INQUISITO

 LA DEPOSIZIONE DI ALMENO DUE TESTI IDONEI E CREDIBILI

 IL CONCORSO DI CIRCOSTANZE

Se fino ad ora, dunque, si è collegato il garantismo all’adozione di un sistema di prove legali

depurato da sorta di arbitrio giudiziale,

occorre guardarlo, ora, in relazione al valore probatorio della confessione:

anche per il legislatore austriaco, infatti,

-la confessione è per eccellenza la regina delle prove

-e il giudice, nell’interrogare l’imputato, deve porre in atto le più sofisticate tecniche analitiche per

porlo con le spalle al muro

TUTTAVIAla confessione non costituisce una prova se è stata ottenuta attraverso promesse,

minacce, violenze o altri mezzi illeciti.

Anche se, dunque, la tortura è stata già abolita, non devono essere consentite neppure le formule

subdole di estorsione della risposta.

b) L’elemento statualistico

Oltre all’elemento garantistico del codice di procedura penale Giuseppino, occorre guardare anche

all’elemento statualistico, ossia al volto, in esso presente, dell’assolutismo più integrale.

Nella patente di promulgazione del codice, si asserisce

che il giudice deve essere “il più zelante difensore dell’innocenza dell’inquisito”:

l’onere della ricerca delle prove, dunque, viene posto a carico del magistrato, e la formula assume,

in questo modo, un taglio garantistico.

Essa, tuttavia, possiede allo stesso tempo anche un significato perfettamente antitetico, di stampo

statualistico, secondo cui al giudice è affidato anche l’ufficio della difesa dell’imputato.

Nessun avvocato difensore compare, dunque, di fronte al giudice-factotum visualizzato dal codice

che al giudice è fatto divieto di usare mezzi non corretti per ottenere la confessione:

norma correttissima, che per il suo garantismo potrebbe essere il fiore all’occhiello del legislatore

austriaco.

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Tuttavia questo principio ne presuppone altri due che impongono la stessa correttezza anche

all’inquisito, secondo una singolare regola di reciproca lealtà tra le parti. Dunque guai all’imputato:

-che si finga pazzo rispondendo in modo insensato all’inquirente, in quanto, qualora accertata la sua

sanità mentale, risulti essere un simulatore, verrà punito a bastonate.

-che si trinceri nel mutismo, in quanto chi pensa di avere diritto al silenzio, non rispondendo alle

interrogazioni del giudice, verrà castigato a bastonate, finché non ricomincerà a parlare.

La giustizia dello stato Giuseppino, assoluto e illuminato, dunque,

non può essere macchiata dall’uso della tortura.

TUTTAVIA, chi la offende con la non collaborazione o con il silenzio, deve essere castigato:

scompare dunque il nome di tortura, e compare quello di castigo.

IL “DOPO GIUSEPPE II” NELLA STORIA DELLA CODIFICAZIONE PENALE AUSTRIACA:

IL CODICE PENALE DEL 1803

La Giuseppina e il codice di procedura penale rimasero in vigore poco più di 15 anni:

nel 1803, infatti, essi furono entrambi sostituiti da un nuovo codice penale-processuale

promulgato da Francesco I, succeduto al padre Leopoldo.

A differenza delle due antecedenti normative settecentesche, questo codice francescano disciplinò la

giustizia penale in una vasta area d’Italia: esso, infatti, rimase in vigore nel Lombardo Veneto fino

all’unità.

b) Uno sguardo d’insieme alla fisionomia del codice penale del 1803 (parte sostanziale)

Al “codice penale universale austriaco” del 1803 ben si addice, in ragione della sua grandiosità

strutturale, la qualifica di monumento legislativo.

La sua struttura è indiscutibilmente razionale:

una parte dedicata ai delitti, cui si correla la relativa parte processuale

una seconda parte dedicata alle contravvenzioni, anch’essa seguita da una parteprocessuale.

E’ in questo modo che, corrispondendo ad una parte sostanziale, una parte processuale, la

bipartizione del testo diventa quadripartizione.

L’architetto di questa costruzione è VON SONNENFELS, il più celebre elaboratore settecentesco

della dottrina volta a bipartire l’universo penalistico in delitti e contravvenzioni di polizia:

è dunque proprio a lui e alla sua squadra di eccellenti giuristi che si deve la nascita di questo codice

penale del 1803 che chiude l’assolutismo illuminato.

L’obiettivo è quello di tracciare una esatta linea di confine tra i delitti e le gravi trasgressioni di

polizia. Tenendo a mente questo fine,

in una parte generale del codice viene subito proclamato il principio di legalità del diritto

penale, e si dichiara anche

-che è escluso ogni arbitrio del magistrato

-che la pena deve essere erogata in base a circostanze tassativamente precostituite.

Ritroviamo enunciati, inoltre, anche i principi

della proporzionalità, personalità e pubblicità della pena.

del dolo intenzionale, considerato dal legislatore come l’essenza stessa dell’azione o

dell’omissione delittuosa

del dolo eventuale

della preterintenzione

I giuristi austriaci hanno grandi capacità sistematiche:

per mezzo del loro spirito razionale, essi hanno

-costituito una tabula gerarchica di beni e valori da tutelare

-pensato delle pene che corrispondano proporzionalmente ai beni offesi.

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Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.

Tuttavia, alla nostra ammirazione per le finezze dei giuristi austriaci, subentra un senso di

costernazione quando ci accorgiamo del doppio sistema delle pene:

l’alternativa per i delitti è costituita

dalla morte sulla forca

o dalla ritenzione del reo in carcere: questa può essere perpetua o a tempo determinato.

Il codice prevede

-un carcere di primo grado (senza ferri)

-un carcere duro di secondo grado (ferri ai piedi, letto di nude tavole e nessun contatto con

l’esterno)

-un carcere durissimo di terzo grado (ferri a mani e piedi, cerchio di ferro intorno al corpo e catena,

cibo caldo solo a giorni alterni, isolamento assoluto, luce e spazio sufficienti a vederci e a

respirare): questo durissimo carcere è, insomma, una pena di morte diluita nel tempo.

Così come Giuseppe II, dunque, anche il legislatore del 1803 ha la mano pesante.

Il codice penale austriaco del 1803, infatti, è la lista dei tre principi che reggono il diritto penale di

un moderno stato di diritto, ma con davanti dei “non”:

• NON umanità della pena

Formula che non richiede spiegazioni, visto cosa devono subire i carcerati

• NON educatività della pena

La severità della pena è commisurata alle esigenze delle prevenzione generale, prima ancora che

alla gravità dell’offesa arrecata: il sistema deve difendere innanzitutto se stesso.

La pena, infatti, non esaurisce la sua funzione nel momento della minaccia, ma nel momento

dell’applicazione, operando un castigo esemplare.

• NON laicità della pena

Bestemmia, propaganda antireligiosa e diffusione di dottrine contrarie alla religione cristiana sono

punite con il carcere da sei mesi ad un anno.

c) Le radici “giuseppine” del codice penale del 1803

In genere, ciò che determina la fine di un codice è una ideologia politica innovativa, che lo priva del

consenso che esso aveva precedentemente.

La storia delle codificazioni ci mostra che ogni codice nasce necessariamente su un cumulo di

macerie, vale a dire sulle rovine del sistema giuridico precedente.

Essa, tuttavia, ci mostra anche che nessun codice riesce ad erigersi se non utilizzando quelle stesse

rovine.

Solo poche volte si è provato a fondare un corpo normativo sulle pure formule politiche, ma questo

diritto…

o è vissuto poco (es. il codice penale dell’assemblea costituente francese del 1791)

o non è riuscito neanche a nascere (es. il primo progetto di codice civile del celebre Cambacérès)

La storia dei primi moderni codici della storia mostra quanta forza abbia questo fenomeno che lega

un ordinamento giuridico al suo passato: proprio questi nuovi codici, redatti da giuristi d’ancien

regime, sono nati più dal diritto comune che contro di esso, filiando, poi, successive generazioni di

codici.

Si può dunque prendere per legge il fatto che i codici nascono dai codici:

questa legge può essere immediatamente verificata per mezzo del codice penale austriaco del 1803,

che si situa in un rapporto di continuità strettissimo con la Giuseppina del 1787 (il codice a cui si

sostituisce).

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Cadoppi ha colto così tanto questo legame di parentela tra i due codici, che è giunto a parlare del

secondo di essi come sviluppo del primo, concludendo che la coppia 1787-1803 va considerata

unitariamente.

• Dunque il codice penale austriaco del 1803 è un figlio che ha rimpiazzato il padre, tanto che

esso, più che una codificazione, è una ricodificazione, ossia un rifacimento della Giuseppina:

stessa ampia parte generale, stesso assetto a due ali dei reati, stessi principi di fondo, stesse formule

definitorie, e stessa idea della legalità-terribilità del diritto penale, in base alla quale la protezione

della società è perseguita razionalmente dal sovrano assoluto in vista del bene comune attraverso un

legale terrorismo dissuasivo.

• Certo, nella codificazione del 1803 ci sono anche alcune novità:

-la convivenza, nello stesso testo, di norme sostanziali e norme processuali

-i cinque casi in cui è comminata la pena di morte (che la Giuseppina, invece, aveva abolito)

-l’eliminazione degli effetti più vistosi dei maniacali calcoli punitivi di Giuseppe II (incatenazionedetenzione per 100 anni, sanzioni infamanti contro i morti…)

• Questi elementi di frattura, tuttavia, non interrompono che per brevi tratti la continuità di fondo

che lega i due codici:

che lo voglia o no, Francesco I si muove sull’ombra del suo predecessore Giuseppe II, il primo a

compiere il gesto della codificazione penale.

Ci si può chiedere, a questo punto, quali motivi spinsero i successori di Giuseppe II ad una nuova

codificazione panale, quando al limite sarebbe bastato loro un semplice intervento di novellazione. I

motivi sono ovvi:

Giuseppe II, con il suo furibondo riformismo, aveva calato dall’alto le sue norme terroristiche,

scontentando tutti.

La Giuseppina, poi, era apparsa come una macchina distruttiva dei privilegi di ceto e dei

particolarismi giuridici.

Per ricompattare i sudditi intorno al nuovo diritto, dunque, Francesco I doveva compiere l’atto della

promulgazione di un nuovo codice penale, che esibisse caratteristiche manifestamente

antigiuseppine.

d) Il processo

Occorre chiedersi, a questo punto, se la storia del diritto italiano confermi o meno la tradizione che

fa del processo austriaco uno spietata macchina politica.

1. Il codice del 1803 istituisce

un processo sui delitti, funzionante a tre livelli di giudizio

e un processo sulle trasgressioni di polizia, funzionante anch’esso su tre livelli di giudizio.

Il codice del 1803 celebra la rivincita del protocollo:

 al contrario della disciplina processuale in vigore in Francia, in cui si è consolidato un

sistema accusatorio in cui hanno notevole spazio i canoni della pubblicità, dell’oralità e del

contradditorio,

 il processo austriaco riconferma il primato della scrittura sull’oralità, della segretezza sulla

pubblicità, del sistema inquisitorio su quello accusatorio.

2. Eppure in questo tipo di assolutismo, che si potenzia restaurando gli strumenti inquisitori

d’ancien regime, c’è anche una illuminata vena garantistica:

il problema del rapporto tra giudice e legge penale è risolto secondo i canoni della più severa

legalità: quello del codice del 1803 è un giudice-funzionario, un magistrato spersonalizzato

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-che parla esclusivamente attraverso il protocollo,

-e che è incatenato al sistema delle prove legali, concepito nel suo assetto originario: egli, infatti,

ove difetti la prova piena, non può utilizzare la pena straordinaria.

Il giudice austriaco del 1803, dunque, come abbiamo già visto, è un inquirente-giudicante

burocratizzato dal codice attraverso il protocollo. Egli, come il giudice Giuseppino, è un factotum,

tanto che l’imputato non può chiedere…

-né che gli sia accordato un avvocato

-né che gli vengano comunicati gli indizi contro di lui.

3. Questa eliminazione della difesa tecnica ebbe effetti catastrofici nell’ambiente forense lombardo:

la riduzione dell’attività forense a livelli minimali e insieme la subordinazione dell’avvocatura alla

magistratura furono volutamente annientanti, tanto che si può concludere che l’esclusione della

difesa tecnica dal processo penale del codice del 1803 derivi dal convincimento che gli avvocati

intralcino il cammino della giustizia.

4. Riassumendo.

Si ha

un giudice a tre teste, simultaneamente inquirente, difensore e giudicante

e un imputato garantito da un codice che immobilizza tutto nel protocollo.

Il fatto che, per il legislatore austriaco, tutto l’interrogatorio sia volto ad ottenere la prova regina

della confessione, non toglie che il giudice debba procedere secondo un percorso obbligato, fatto di

adempimenti garantistici:

le norme del codice del 1803 sono norme inequivocabilmente liberali, che ripetono quelle della

Giuseppina.

5. A questo punto si pone un problema delicato:

ci si chiede, infatti, come mai, esistendo tante cautele garantistiche che andavano a sostituire la

difesa tecnica, nei famosi processi politici degli anni venti l’autorità giudiziaria austriaca ottenne

così tante confessioni da parte di uomini come Pellico, Gonfalonieri o Pallavicino, colti personaggi,

questi, che con le loro ammissioni, decretarono la propria condanna a morte.

Possibile che non sapessero che il codice escludeva la pena di morte, qualora mancasse la piena

confessione dell’inquisito?

Sì, è possibile.

La maggiorparte dei cospiratori aveva una scarsa conoscenza del codice penale; tuttavia questo non

spiega la clamorosa serie di confessione ottenute dai giudici. Per spiegare tutto ciò occorre

considerare….

che i giudici che condussero i processi avevano grandi capacità professionali: essi erano autentici

specialisti delle asfissianti tecniche inquisitorie, e conoscevano tutti i trucchi per insinuarsi nella

testa dell’inquisito, suscitando sconcerto.

E’ in questo modo che, anche un codice in qualche modo garantistico, comincia a diventare

temibile:

esso, infatti, autorizzava il giudice ad interrogare gli imputati qualunque giorno, in qualunque ora,

per il numero delle volte che essi volevano. E’ così che gli imputati, strappati spesso al sonno della

notte, ed azzannati dalle domande degli inquirenti, vedevano prender forma lo spettro della tortura

(almeno quella del mancato sonno).

6. Occorre ora guardare se, nel codice penale austriaco del 1803, fosse prevista la tortura.

Dopo aver sentito proclamare dal legislatore che la confessione, in qualunque modo costretta o

carpita, non può essere considerata una prova legale,

tre articoli d’ancien regime del codice suonano come un pugno nello stomaco:

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l’autorità giudiziaria, infatti, finisce per determinare la volontà dell’inquisito, imponendogli

l’obbligo di verità a colpi di bastone.

Di certo il giudice che ha il dovere di tutelare l’imputato e il giudice che ha il compito di

procurarsene la collaborazione con la giustizia a bastonate non convivono bene.

E per salvare l’immagine del legislatore, non basta chiamare “castigo” ciò che prima si chiamava

“tortura”: quei tre articoli deturpano irrimediabilmente il codice del 1803, indebolendo il

garantismo delle altre sue norme.

Ciò che dunque aveva spinto, nei processi politici degli anni venti, alle confessioni, era stata non

l’ignoranza della pena di morte, ma la conoscenza (e il conseguente timore) della tortura.

Il codice del 1803, dunque…

 nella parte sostanziale, è un codice contrassegnato

-da un rigoroso accoglimento del principio di legalità

-e da un rigoroso rifiuto del criterio di umanità della pena

 nella parte processuale, è un codice dilaniato dall’antinomia tra norme poste a tutela della

persona dell’imputato e norme volte a sollecitarne la confessione attraverso la violenza:

nel complesso, questa parte risulta essere una impossibile conciliazione tra assolutismo e

garantismo.

e) La tecnica legislativa del codice penale austriaco

Molto importante è studiare anche il tipo di tecnica legislativa adottato dai giuristi del codice del

1803:

codificare il diritto, infatti, non significa semplicemente scriverlo: lo capirono bene i pionieri della

codificazione, che dovettero compiere uno sforzo enorme, cioè una operazione senza precedenti

nella tradizione legislativa.

Per Giuseppe II, primo in assoluto a dare assetto al diritto penale, codificare il diritto significò

articolare i singoli imperativi, cristallizzandoli nella forma del comando legislativo.

Nel codice penale del 1803 il legislatore ha operato come professore:

una parte generale da manuale

uno stile didascalico-dottrinale, con cui si descrive ciò che si intende punire

un corpo normativo di carattere moraleggiante

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SEZIONE IV:

L’AREA ITALIANA E LA CODIFICAZIONE DEL DIRITTO PENALE

La promulgazione della Leopoldina in Toscana (1786)

L’ASSOLUTISMO ILLUMINATO DI PIETRO LEOPOLDO, GRANDUCA IN TOSCANA DAL

1765 AL 1790

A Vienna, accanto al figlio filosofo Giuseppe II, Maria Teresa ha allevato anche Pietro Leopoldo:

per volere della madre, a costui viene impartita, fino al 1765, una rigorosa istruzione giuridica dal

prestigioso precettore di corte Martini: da quell’anno in poi, infatti, debitamente attrezzato delle

idee essenziali sui doveri e i poteri dei principi, Pietro Leopoldo succederà al padre nel governo

della Toscana.

Quando giunge nel suo piccolo stato, Pietro Leopoldo ha 18 anni: vi regnerà come granduca per

altri 25 governando secondo una linea politica sempre più autonoma rispetto a quella centralistica di

Vienna.

Se è vero che l’intelligenza razionale di Leopoldo non euguaglia quella di Giuseppe,

è anche vero che egli supera il fratello per altre qualità:

la sua mente lucida ma non affetta da astrattismi, ne fa un uomo abile e pratico, dotato di senso del

realismo.

Anche Leopoldo, così come il fratello, si ritiene per contratto primo servitore dello stato, supremo

artefice del bene comune dei sudditi.

Lettore insaziabile della letteratura illuministica tedesca, francese ed italiana, Leopoldo si circonda

via via di una elite di ministri illuminati toscani dagli orientamenti riformistici, che si insediano

intorno a lui sostituendo i consiglieri viennesi:

Leopoldo vuole accanto a lui degli uomini che lo informino non sul modo ideale di condurre uno

stato in generale, bensì sui reali problemi della Toscana.

I problemi della Toscana sono molti e complessi:

 L’opera Leopoldina di risanamento della situazione agraria, finanziaria ed economica

della Toscana consiste in una serie di misure volte a realizzare con ogni mezzo

-la bonifica e lo sfruttamento dei territori paludosi del granducato

-la soppressione dei tradizionali privilegi

Nell’ambito delle riforme ecclesiastiche, invece, Leopoldo mirava a spezzare la subordinazione

del clero toscano a quello di Roma, inglobandolo sotto la sua giurisdizione e sotto il suo controllo:

la condotta di questa linea politica porta, nel granducato, alla soppressione

-del tribunale dell’inquisizione

-dell’ordine dei gesuiti, provvedimento, questo, preso in vista di un richiamo allo stato

dell’insegnamento.

 Per quanto riguarda, invece, la riforma generale del diritto del Granducato, occorre

sottolineare il fatto che in Toscana era presente una intricata situazione di particolarismo giuridico:

un groviglio di diritti feudali, comunali e corporativi, nonché di leggi ordinarie e speciali.

Dopo un fallito tentativo riordinatore ad opera di Pompeo Neri,

quando Leopoldo giunge in Toscana i giuristi lì presenti hanno un’idea di codificazione basata

sulla volontà di salvare il diritto comune:

è per questo motivo che un paio di progetti per la redazione di un codice toscano affidati da

Leopoldo a due notevoli giuristi si arenano facilmente.

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La fedeltà dei giuristi al diritto comune si manterrà ben oltre l’età di Leopoldo, tanto che il

granducato non avrà un proprio codice civile per tutta l’età in cui gli stati pre-unitari realizzeranno

una loro codificazione.

Tutto ciò fino a quando si avrà l’unificazione legislativa nazionale, e la Toscana entrerà sotto

l’impero del codice civile del 1865.

LA LEOPOLDINA: IL PROCESSO FORMATIVO DEL TESTO

La riforma giuridica che ebbe, invece, un successo straordinario e che fece di Leopoldo un astro

dell’illuminismo europeo fu la codificazione del diritto penale e processuale penale.

Felicissima fu, infatti, la scelta di isolare dal resto dell’ordinamento positivo il campo penalistico: la

passione di Leopoldo

-per il mondo dei lumi in generale

-e per i problemi della giustizia penale in particolare

diedero vita, in Toscana, alla prima trasformazione in legge delle idee di Beccaria e Montesquieu.

Leopoldo, infatti, provava una attrazione irresistibile per la materia dei delitti e delle pene, e dunque

la riforma del sistema penale gli apparve subito come una priorità:

se infatti la cultura giuridica toscana vedeva con sfavore l’idea di un codice civile che negasse per

sempre il diritto comune,

essa, al contrario, si mostrava molto sensibile nell’ambito delle questioni di politica criminale: fu

così che la Toscana costituì…

-prima, un ambiente favorevole al successo del libro di Beccaria

-poi, l’universo del mito del “codice leopoldino”

-ed infine lo stato pre-unitario dotato del più importante codice penale, codice che, privo della pena

di morte, si sarebbe mantenuto in vigore in Toscana fino alla promulgazione del codice Zanardelli.

Quella dei giuristi toscani non fu un’opera di assecondamento prestata a Leopoldo, bensì fu il

consenso di uomini disposti ad imboccare la via delle innovazioni e a percorrerla con prudenza;

sicuramente fu Leopoldo, e non certo loro, che per primo mise in moto la grande impresa!

Egli aveva raccolto una considerevole quantità di appunti ricavati dai più grandi libri del diritto

penale, ma anche dai fatti, dalle statistiche e dal funzionamento delle giurisdizione penale nel

granducato: in questo modo, egli elaborò una bozza d’avvio della riforma legislativa, stabilendo i

punti chiave con cui intendeva dare assetto alla procedura e al diritto penale toscani.

Il testo venne pubblicato definitivamente nel 1786 sotto il nomadi “Riforma della legislazione

criminale toscana”, ribattezzata poi “Codice Leopoldino” o, più familiarmente, “Leopoldina”.

LA LEOPOLDINA: SUA VALUTAZIONE SOTTO IL PROFILO FORMALE

Ciò che colpisce immediatamente della Leopoldina è la sua brevità: tutto, infatti, si esaurisce in un

prologo, seguito da 119 articoli:

naturalmente già il fatto che un testo legislativo si presenti sotto una veste formale tanto semplice,

rende complesso il problema di come qualificarlo.

Per fare ciò, occorre considerare secondo quale schema il legislatore ha dislocato le sue norme:

 Per quanto riguarda la struttura del testo,

la prima massa di articoli è dedicata al processo penale

poi viene, invece, il diritto penale

e infine le ultime 10 norme riguardano

-la chiusura del processo

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-il risarcimento delle spese

-la prescrizione del reato

-il potere punitivo del giudice in caso di lacuna della legge

All’interno dei due principali blocchi di articoli, non c’è sempre coerenza: tuttavia, a dispetto di ciò,

l’identità e l’autonomia dei due blocchi di norme risultano riconoscibili.

Essi dimostrano che Leopoldo ha concepito la propria legge come bi-funzionale:

-prima la fase del processo

-poi la fase dell’applicazione della pena all’autore del delitto processualmente accertato.

 Per quanto riguarda, invece, lo stile della Leopoldina (ossia la tecnica di formulazione dei

precetti), questo stile non è l’ideale linguistico per quello che noi, oggi, chiamiamo codice:

le norme, infatti, sono tutt’altro che lineari, e si dilungano in dissertazioni filosofiche e descrizioni:

Leopoldo è un legislatore che intende comunicare con i destinatari del codice.

 Inquadriamo, infine, la Leopoldina nell’ambito del rapporto tra il giudice e la legge

penale:

E’ cosa scontata dire che 119 articoli non bastano a fare un codice:

l’incompletezza della Leopoldina ha fatto sì che sopravvivesse una buona parte della legislazione

previgente, con la conseguenza che il legislatore concesse ampio spazio all’arbitrio del giudice.

Il giudice della Leopoldina ha ampi poteri discrezionali…

 A livello di accertamento processuale del reato, laddove egli deve valutare le prove a carico

dell’accusato:

nel momento in cui la prova piena fa difetto, ma sono presenti forti indizi, al giudice è concesso il

ricorso a qualche pena straordinaria.

 Quando irroga al colpevole, pienamente accertato come tale, la pena minacciata dalla legge per

uno specifico reato:

consapevole della lacunosità dell’opera, il legislatore cerca tuttavia di mantenere sotto controllo la

libertà concessa ai magistrati, vincolandoli ad indicare nella sentenza i motivi del giudizio

arbitrario.

 Il giudice, infine, ha ampi poteri discrezionali nel rapporto che intercorre tra la nuova legge e il

diritto previgente:

la Leopoldina, infatti, si limita ad abrogare e sostituire la parte del diritto penale toscano

assolutamente inconciliabile con essa.

il resto della vecchia legislazione, dunque, rimane in vigore, e il giudice devi ricorrervi come una

fonte idonea a colmare le lacune del nuovo diritto:

questa integrazione, tuttavia, deve essere fatta applicando vecchio il diritto secondo lo spirito della

nuova legge, vale a dire interpretandolo secondo i valori della Leopoldina.

E’ manifesto tuttavia il fatto che questa utilizzazione delle norme di antico regime, seppur

sottoposte ad una ratio completamente nuova, impone che si conceda al giudice una notevole libertà

di interpretazione, con conseguente dissoluzione dei principi di certezza e di legalità.

Chi, dunque, cercasse nella Leopoldina i requisiti formali di un codice, sarebbe deluso da questa

ricerca.

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Tuttavia la critica ha discusso a lungo sul se la Leopoldina fosse o meno un codice moderno.

La risposta (negativa) appare quasi scontata se si tengono in considerazione tre punti:

1. La concezione bi-funzionale del testo,

che inizia con una cinquantina di articoli di procedura penale, prosegue con poco più di altrettante

norme dedicate al diritto penale sostanziale e si conclude con un gruppetto misto di articoli.

La compiuta realizzazione dell’opera, invece, sarebbe stata raggiunta solo con il “codice penale

universale austriaco” del 1803, costituito da una coppia di codici riuniti in un solo testo, ma ognuno

dei quali autonomo e completo.

Per quanto riguarda la Leopoldina, essa non è che un rudimentale abbozzo di questo disegno:

-da un lato un pungo di articoli di diritto processuale

-dall’altro una manciata di norme a contenuto sostanziale:

due agglomerati normativi di per sé distinguibili, ma agganciati tra loro senza una divisione netta.

Anche se, dunque, Leopoldo cerca di spiegare lui per primo perché la sua legge sia stata stesa in

questo modo, i criteri con i quali egli ha pensato la propria opera non emergono comunque con

chiarezza.

2. Per quanto riguarda, invece, il punto di vista stilistico,

gli articoli sono sistemati in un linguaggio discorsivo ed esplicativo piuttosto che in un linguaggio

imperativo.

3. Infine…

la dichiarata incompletezza del testo

la sua integrabilità con il diritto previgente

l’arbitrio concesso ancora in gran parte al giudice

impediscono di qualificare la Leopoldina come un “codice”.

LA LEOPOLDINA: IL CONTENUTO NORMATIVO

Se la Leopoldina

per quanto riguarda

-la sua semicompletezza

-il suo linguaggio vecchiotto

-e la sua fiducia nei confronti dell’arbitrio giudiziale,

…è palesemente un prodotto d’ancien regime,

per quanto riguarda, invece, alcuni suoi contenuti normativi, essa è un vero e proprio prodotto

della modernità.

La mente innovatrice di Leopoldo porta ad un progresso tale della giustizia penale, che assicura al

granduca il primato di traduttore in legge delle idee di Beccaria.

Occorre vedere, dunque, ora, alcune tra le più importanti novità accolte, mediante il testo di

Beccaria, e nel processo, e nel diritto penale sostanziale.

a) Il processo

Alcune norme della Leopoldina, costituiscono un vero e proprio punto di rottura con la tradizione di

vecchio regime. Essa infatti…

 impone che tutti gli atti istruttori vengano comunicati all’imputato, in modo che questi possa

chiedere l’assistenza di un avvocato, e ripetere i testimoni già uditi segretamente dall’inquirente.

 -vieta di esercitare il mandato di cattura in tutti quei casi in cui si può ricorrere alla pena

pecuniaria

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-vieta di ricorrere alla carcerazione preventiva nei confronti dei testimoni, eccettuati quelli che

sono palesemente reticenti

 elimina l’incidenza, nel processo, delle c.d. “prove privilegiate”.

 abolisce l’imposizione del giuramento a carico sia dell’accusato che dei testimoni, in quanto non

sono certo i giuramenti che fanno dire la verità ad un reo.

 conferma l’abolizione della tortura:

sia perché il legislatore la ritiene assolutamente incompatibile con la logica umanitaria di un

giusto processo

sia perché abolire la tortura ha significato sopprimere il mezzo più usato dal giudice che non

dispone che di indizi per ottenere la confessione dell’inquisito.

b) Il diritto penale sostanziale

I. Le pene

Se l’abolizione della tortura rappresenta il picco del riformismo leopoldino nel campo della

procedura penale,

l’abolizione della pena di morte rappresenta il picco del riformismo nell’ambito del diritto

penale sostanziale.

Con un gesto che gli conferisce il primato di sovrano abolizionista, Leopoldo trasforma in norma

vera e propria la più celebre pagina scritta da Beccaria:

sulla spinta della sostituzione della pena capitale con quella dei lavori pubblici,

per via dello stesso movimento di stampo umanitario scompaiono anche

-le pene mutilanti

-il marchio

-i tratti di corda

-e la confisca dei beni del condannato

In scala ascendente, e badando alla proporzionalità, invece, è prevista l’applicazione di queste

sanzioni:

-pene pecuniarie

-carcere di un anno

-esilio

-gogna

-frusta pubblica

-per le donne: ergastolo, tutte rapate

-per gli uomini: lavori pubblici con anello al piede e doppia catena, da tre anni fino a vita.

II. I reati

Nella Leopoldina, anche i reati di diritto penale comune vengono decapitati:

il diritto di lesa maestà, esemplarmente punito fino a quel momento con i massimi livelli di

severità, viene considerato invece, da quel momento in poi, come un delitto ordinario, da castigarsi

dunque come gli altri delitti.

Dal diritto penale toscano scompare dunque l’intero titolo della lesa maestà, e i vari delitti prima

rientranti nel suo ambito, vengono ora puniti come singoli attentati alla sicurezza dello stato e

all’ordine pubblico.

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118

E’ chiaro che la scelta legislativa operata dal granduca si fondi sulla filosofia dell’etica del servizio:

autodesacralizzandosi, infatti, Leopoldo si presenta ai sudditi come un sovrano che detiene il potere

non per diritto divino, ma per consenso del popolo.

Caduto l’involucro della lesa maestà, essendo egli servitore dello Stato, l’attentato alla sua persona

appare come un attentato diretto contro la sicurezza dello stato.

In prospettiva analoga i delitti contro la religione, detti delitti di lesa maestà divina (vale a dire

l’eresia, la magia, la bestemmia..) vengono puniti come delitti contro l’ordine pubblico.

Dunque, operando una valutazione conclusiva:

Se attribuiamo al termine codice il moderno significato di una compilazione con dei requisiti

sistematici e formali diversi rispetto a quelli delle compilazioni d’antico regime,

allora la Leopoldina non è un codice, in quanto essa è carente soprattutto su tre punti:

1. la concezione bifunzionale del brevissimo testo, peraltro promiscuo nelle parti di procedura

penale e di diritto penale sostanziale

2. lo stile di formulazione delle norme, eccessivamente discorsivo, e dunque difettoso di

incisività.

3. l’incompletezza del corpo normativo nel suo complesso, e dunque la necessità che esso venga

integrato con il diritto previgente, lasciando ampio spazio all’arbitrio giudiziale.

E’ per questi motivi che si è consolidata la tradizione per cui alla legge toscana viene negata

l’etichetta di “codice”.

Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.

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PARTE QUARTA:

DALLA RIVOLUZIONE FRANCESE AL CODE NAPOLÉON

SEZIONE I:

DIRITTO E POLITICA NELLA RIVOLUZIONE FRANCESE

L’interpretazione della rivoluzione: un problema

LE ORIGINI DELLA RIVOLUZIONE FRANCESE: CRITICA E RIDISCUSSIONE DI TRE

CLASSICHE OPINIONI COMUNI

La storiografia, oggi, sta svolgendo una operazione di revisione intorno alla Rivoluzione francese,

revisione che ha già prodotto il capovolgimento di alcune tesi considerate come canoniche.

Occorre sottolineare il fatto che noi non siamo ancora pienamente usciti dal movimento avviatosi

nel 1789, tant’è vero che, generazione dopo generazione, continuiamo a scriverne e riscriverne la

storia.

Vengono proposte, ora, tre chiavi di lettura che ribaltano tre interpretazioni storiografiche

tradizionali, chiarendo chi non ha fatto la rivoluzione.

a) La rivoluzione, che è giunta ad abbattere l’assolutismo monarchico, non è stata innescata da

forze che combattevano bensì da forze che difendevano il regime del privilegio

La rivoluzione non è nata come un movimento volto a rovesciare la monarchia assoluta, in quanto

essa viene sgretolata da componenti interne al sistema:

nel contesto di una crisi senza precedenti, il debole ed influenzabile Luigi 16, incapace di

mantenersi su una linea politica scelta una volta per tutte, si muove in modo incoerente:

da un lato si affida a ministri, intesi a modernizzare l’amministrazione dello stato e a

riequilibrarne il bilancio

dall’altro si mostra riluttante a ripristinare gli Stati Generali, ossia le rappresentanze attraverso

cui clero, nobiltà e terzo stato possono dar voce ai propri problemi:

gli stati generali, infatti, non sono più stati convocati dal 1614.

Di questo vuoto istituzionale approfittano le grandi corti del regno, i Parlements.

I membri di queste 13 corti sono proprietari della carica che rivestono, carica che comporta il diritto

di registrazione dei provvedimenti legislativi della corona: è proprio avvalendosi di questo diritto

dalle capacità condizionanti che i Parlamenti fronteggiano l’azione politica del monarca.

Anche se, proprio per ovviare a questo problema, i membri del Parlamento di Parigi erano stati

destituiti dal loro incarico, poco dopo l’incauto Luigi 16 rimette al loro posto i già sospesi

parlamentari:

assumendo dunque nuovamente il ruolo di denunciatori degli abusi del re e dei suoi ministri, i

supremi tribunali organizzano un sistematico ostruzionismo (=boicottaggio, azione di intralcio) nei

confronti di ogni iniziativa ministeriale volta a risanare il bilancio, costringendo infine la Corona, in

piena bancarotta, a convocare gli stati generali.

Sono dunque stati i parlamenti a dare il primo micidiale colpo alla monarchia, facendo istituire

quella che poi divenne la piattaforma di lancio della rivoluzione.

b) La rivoluzione non è stata né provocata né preparata consapevolmente dalle ideologie

dell’illuminismo

Quella delle origini intellettuali della Rivoluzione è una ipotesi da escludere…

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in quanto il pensiero dell’enciclopedia e dei lumi fu il pensiero, tutt’altro che rivoluzionario, di

una minoranza di intellettuali miranti a riformare piuttosto che a distruggere l’ordine politico

tradizionale.

Piuttosto, se è esistito un fenomeno culturale che ha contribuito ad indebolire le basi dell’ancien

regime (monarchia, chiesa…), questo fenomeno va ravvisato in quella letteratura di basso livello e

di impronta diffamatoria attraverso cui dei philosophes falliti descrissero i presunti vizi dei detentori

del potere.

Dunque l’illuminismo degli alti livelli letterari non volle né causò la Rivoluzione.

L’idea che informa tutto il pensiero dei lumi è quella di una elite di pensatori capaci di elevare

l’uomo alla felicità insegnando l’arte della legislazione ad un sovrano benefattore: è chiaro dunque

che questa idea non sia affine ad un pensiero rivoluzionario!

In realtà fu la Rivoluzione che si impadronì del linguaggio dei lumi, adattandolo ad una teoria e ad

una prassi politica dai lumi non previste: adattandolo, insomma, ad un movimento storico da essi

non immaginato!

Possiamo dunque concludere che l’illuminismo non causò la rivoluzione, ma sopravvisse lungo il

corso di essa, conservandosi negli schemi concettuali che i rivoluzionari recepirono ai propri fini.

C’è solo un tratto del pensiero illuministico che ritroviamo presente ed immutato nella rivoluzione,

e cioè

la religione della legge come strumento per la rigenerazione dell’uomo

e la concezione dell’uomo come essere plasmabile grazie alla legge.

c) La rivoluzione non fu fatta dalla borghesia né ebbe natura di classe

L’interpretazione di stampo marxista che, coerentemente all’idea secondo cui le classi sono le

uniche protagoniste della storia, attribuisce alla Rivoluzione una natura di classe, alla luce degli

studi più recenti regge ormai ben poco.

Occorre eliminare qualsiasi possibile equivoco sul significato del termine “borghesia”:

Considerando che il processo di industrializzazione si attiverà sul continente circa mezzo secolo

dopo, esso non può di certo essere inteso in senso capitalistico, anticipando al 1789 l’immagine di

un meccanismo volto a sfruttare una forza lavoro. Non è certo una classe borghese così raffigurata

che ha fatto la rivoluzione ponendo fine al regime feudale!

E’, al contrario, la Rivoluzione che ha creato questa classe, con un effetto postumo, che si è

prodotto nel giro di un trentennio dalla fine della rivoluzione stessa.

Dunque se parliamo di borghesia, occorre farlo pensando ad una borghesia precapitalistica, e cioè

ad un ceto sociale non definibile con precisione, molto variegato e privo di una configurazione

unitaria: un ceto a più livelli, che non ha una unitaria coscienza di classe né tantomeno valori

esclusivamente suoi.

Agli inizi del 1789, dunque, nessuna classe risulta pianificare contro un’altra classe la Rivoluzione:

per quanto paradossale possa sembrare, infatti, essa ebbe origini accidentali e circostanziali.

LA NATURA “CIRCOSTANZIALE” DI UNA RIVOLUZIONE SENZA REGISTA (E DEI SUOI

SVILUPPI)

I fatti depongono per una natura circostanziale della rivoluzione:

infatti, una volta che vengono riuniti gli Stati Generali,

i Parlamenti chiedono che i tre stati siedano in tre camere separate e votino “per ordine”

mentre il partito dei patrioti reclama una camera unica, il raddoppio dei deputati del terzo stato e

il voto “per testa”.

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Concesso il raddoppio della rappresentanza del terzo stato in ragione della sua ampiezza numerica,

all’apertura degli Stati Generali la questione si focalizza sul voto “per testa”,senza il quale il

raddoppio non avrebbe avuto senso.

La questione è cruciale in quanto i deputati sono 1200, il Terzo Stato ne conta 600, e negli altri

destati non mancano nobili e preti favorevoli all’apertura di casta.

Tuttavia soprattutto nello stato dei nobili tantissimi deputati contrari all’idea di abbandonare il

tradizionale inquadramento nei tre ordini, per sostituirlo con l’assemblea unitaria, convincono anche

il re a non concedere il voto per testa.

Avviene così che i deputati del terzo stato, adducendo la ragione che essi da soli rappresentano

pressoché l’intera nazione, si proclamano Assemblea Nazionale (struttura unitaria che supera la

tripartizione per stati), autorizzando provvisoriamente con decreto la riscossione delle imposte.

Questa delibera del terzo stato è di per sé la rivoluzione: con una autentica presa di potere, infatti,

una nazione uniforme si è di colpo sostituita alla società per ceti d’ancien regime!

Così Luigi si persuade ad ordinare ai deputati di clero e nobiltà a riunirsi al terzo stato: il 9 luglio

l’assemblea nazionale si proclama costituente.

I fatti elencati fin ora, dunque, mostrano che la Rivoluzione in sé non ha un regista: lungi

dall’essere la messa in opera di una lotta di classe, essa…

trova la sua rampa di lancio nella riunione degli stati generali voluta dai parlamenti

e si mette in moto definitivamente

-prima con la questione della procedura di votazione

-e poi per via del terzo stato.

Dunque gli artefici del 1789 non erano rivoluzionari, in quanto costoro la rivoluzione non l’hanno

né voluta né immaginata, ma vi sono semplicemente scivolati dentro.

LA PROGRESSIONE A PARABOLA DI UNA RIVOLUZIONE FATTA DI PIU’ RIVOLUZIONI

Dalla sua origine fino al suo culmine, la rivoluzione avanza

-con un impressionante succedersi di riforme,

-e con una instancabile ridefinizione delle proprie istituzioni

Essa, insomma, divora e riproduce se stessa continuamente.

Dopo il Terzo Direttorio, la Rivoluzione entra nella fase discendente della reazione: essa naviga

verso la tradizione, crescendo sempre di più in ostilità nei confronti delle innovazioni rigeneratrici:

c’è ormai ansia, insomma, di porre fine alla rivoluzione.

Osservando questo processo nel suo complesso, Forrest sostenne che tra la riunione degli stati

generali del 1789, e l’istituzione del Terzo Direttorio, non ci fu un’unica rivoluzione, ma una serie

di rivoluzioni,

nel corso delle quali gruppi differenti tentarono di applicare ad un paese in trasformazione le

formule da loro scelte.

SACRALIZZAZIONE E POLITICIZZAZIONE DEL DIRITTO: UNA CHIAVE PER

INTERPRETARE LA TEORIA E LA PRASSI GIURIDICA DELLA RIVOLUZIONE

Qualunque interpretazione si voglia dare della rivoluzione, un punto sembra essere destinato a

rimanere fermo, e cioè il suo carattere politico-giuridico.

La Rivoluzione, infatti, è stata uno straordinario laboratorio di sperimentazione dell’esercizio del

potere politico in tutte le possibili forme di concezione moderna: un inesauribile serbatoio di

pratiche.

Ma ciò che della Rivoluzione ancora oggi continua a stupire è il fenomeno della

affermazione/negazione del diritto:

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da un lato, infatti, la Rivoluzione ha un culto feticistico del diritto come strumento di

rigenerazione morale dell’individuo e della società: l’idea della Rivoluzione è quella di costruire un

uomo totalmente nuovo e felice perché reintegrato dalla legge nei suoi diritti naturali

dall’altro lato, però, la felicità pubblica che la Rivoluzione vuole costruire, spetta solo ai cittadini

-completamente integrati nello stato

-e che dissolvano i propri diritti nella legge dello stato:

ci troviamo qui di fronte all’altro aspetto, quello capovolto, della nomofilia rivoluzionaria,

consistente in un uso pratico del diritto, completamente subordinato alle ragioni della politica.

Questa strumentalizzazione/politicizzazione del diritto si risolve in un annientamento di quegli

stessi uomini che la rivoluzione vuole rigenerare.

L’intreccio tra la sacralizzazione del diritto e la sua subordinazione alla politica costituisce, dunque,

il nocciolo drammatico della rivoluzione che…

sul piano teorico, enuncia i principi dello stato di diritto

sul piano pratico, attua il totalitarismo.

E’ in questo modo che la Rivoluzione, pretendendo di fare dello stato un paradiso, crea invece

un’inferno.

DIRITTI DELL’UOMO E LEGGE DELLO STATO NELLA DICHIARAZIONE DEL 1789

La Rivoluzione si mette in marcia nel momento stesso in cui il terzo stato si costituisce in

assemblea nazionale:

il passo decisivo è segnato da un famosissimo discorso tenuto ad deputati dall’abate SIEYES, in cui

egli sviluppa questo teorema:

a) il terzo stato, in virtù della sua schiacciante predominanza numerica, costituisce l’intera nazione

b) la nazione è sovrana

c) i deputati riuniti in assemblea rappresentano la nazione ed esprimono la volontà nazionale.

Con questo dogma della sovranità della nazione, la Francia esce dal vecchio regime, e fa il primo

passo in quello nuovo.

Il secondo passo, consiste nella preparazione di una costituzione, carta fondamentale in cui la

nazione si riconosca e che il sovrano accetti.

Ma quando, il 17 Luglio 1789, l’assemblea nazionale si erige a costituente, essa sa di dover

assolvere a un compito preliminare: stilare una dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino

che faccia da preambolo alla costituzione stessa.

Ci si chiede se l’inviolabilità di questi diritti fondamentali sia un a priori di diritto naturale, o se essa

sia sancita a posteriori dalla legge positiva.

A questa domanda si sono avute le risposte più diverse:

ci sono coloro che intendono subordinare lo stato all’individuo, istituendo un primato del diritto

naturale

e ci sono coloro che invece, al contrario, pensano che nello stato, tutti i diritti vengano fissati

dalla legge, perché l’uomo, che pur vanta dei diritti nello stato di natura, entrando in società si

denaturalizza.

La dichiarazione dei diritti costituisce il risultato quasi miracoloso di un compromesso creatosi

all’ultimo momento tra le varie tendenze:

che i diritti dell’individuo siano naturali o civili, è comunque necessario che la legge dello stato li

eriga a barriere inviolabili dallo stato stesso.

In conclusione, la Dichiarazione del 1789 decolla con una impennata ottimistica: la fiducia nella

rigenerazione degli uomini domina lo spirito della maggior parte dei costituenti.

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In realtà, il testo della Dichiarazione conteneva anche tutte le premesse, sviluppatesi poi, per uno

slittamento verso una rigenerazione forzata.

La legislazione rivoluzionaria nel campo della giustizia

I PRINCIPI FONDAMENTALI DEL COSTITUZIONALISMO RIVOLUZIONARIO

La rivoluzione fece propria la teoria di Montesquieu della tripartizione dei poteri:

occorreva che l’assemblea costituente proclamasse il primato del potere legislativo basato sulla

sovranità nazionale.

Questa operazione fu compiuta, dopo un lungo percorso, con la promulgazione della Costituzione,

che proclamò l’assoluto predominio del potere legislativo, e l’attribuzione di questo all’assemblea

che era stata eletta e che rappresentava la nazione.

Nel quadro di questa monarchia costituzionale, in cui la loi si è definitivamente sostituita al roi, al

sovrano spetta solamente un diritto di veto sospensivo.

PRIMATO DELLA LEGGE E RIORGANIZZAZIONE DELLA GIUSTIZIA NEL PERIODO

DELL’ASSEMBLEA COSTITUENTE: L’IDEOLOGIA ANTIGIURISPRUDENZIALE DELLA

RIVOLUZIONE

Una volta proclamato il primato del potere legislativo, il suo esercizio, detenuto dalla nazione, deve

essere difeso contro tutte le forza che, nell’ancien regime, hanno goduto del monopolio del diritto:

e cioè contro l’alta magistratura e tutti gli uomini di legge.

a) La messa in vacanza dei Parlements

Per riassettare il potere giudiziario la Costituente vota la messa in vacanza illimitata dei

Parlamenti, un provvedimento epurativo con il quale si pone fine al tradizionale binomio “potere

di ceto/funzione di giustizia”.

b) Il référé législatif

Fatta tabula rasa, l’idea rivoluzionaria della

-funzione puramente dichiarativa del giudice e

-della sua automatica sottoposizione ala legge

prende vita attraverso il référé législatif, meccanismo attraverso cui il potere di interpretazione del

diritto è riservato esclusivamente al legislatore.

L’istituzione di questo istituto, dunque, è strettamente connessa al principio della separazione dei

poteri.

c) Le procedure di conciliazione nel campo della giustizia civile: arbitrato, giudici di pace,

tribunali di famiglia

Con una legge del 1790, si concede ai privati la facoltà di sottoporre qualunque discussione civile

ad arbitrato, vale a dire al giudizio di semplici cittadini non professionisti, che decidono non in

base alle leggi, ma in base a equità.

Con questa apertura all’equità, il culto rivoluzionario della legge sembrerebbe subire una caduta,

ma in realtà il provvedimento è sempre ispirato dall’ideologia antigiurisprudenziale: la cosa

importante è tenere lontana la gente dai garbugli avvocateschi e procedurali, e riavvicinarla alla

giustizia della natura.

I giudici di pace sono anch’essi giudici di equità per le cause minori: essi devono esperire un

preliminare tentativo di conciliazione cui le parti devono obbligatoriamente sottoporsi.

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La legge contempla anche un tribunale di famiglia, composto da un numero variabile di parenti

e competente a pronunciarsi su ogni controversia nata in seno alla famiglia.

d) Il sistema dell’appello circolare nel campo della giustizia civile

un tribunale in ciascuno dei 553 distretti giudiziari in cui è diviso il paese

5 giudici, 1 procuratore del re e 1 cancelliere in ogni tribunale

costituiscono la giurisdizione di prima istanza designata dai costituenti.

Questi tribunali distrettuali non vengono sovraordinati da nessuna giurisdizione di seconda istanza:

con la volontà di semplificare al massimo l’amministrazione della giustizia, infatti, i rivoluzionari

non sovrappongono l’uno all’altro due livelli di giurisdizione, ma li giustappongono:

sopprimono, così, l’appello ordinario e istituiscono l’appello circolare: contro la pronuncia del

tribunale distrettuale può essere fatto appello ad uno dei sette tribunali distrettuali più vicini.

e) L’istituzione del Tribunale di Cassazione

A dimostrazione che i rivoluzionari sono stati spesso meno originali di quanto si creda, la

Cassazione non è altro che l’erede diretta di quella parte del “Conseil du roi” incaricata di

controllare che la giurisdizione dei parlamenti osservasse le ordinanze regie.

Poiché la rivoluzione vuole

da un lato mantenere il controllo del preminente potere legislativo su quello giudiziario

e dall’altro evitare che la vigilanza continui ad essere esercitata dal re, divenuto mero detentore

dell’esecutivo

allora la Cassazione viene fondata come guardiana suprema della legge, posta a servizio e a difesa

del potere legislativo, che ha il compito di annullare ogni giudizio che contravvenga espressamente

alla legge.

Essendogli precluso il giudizio nel merito della causa, essa cassa la sentenza viziata, rinviando le

parti di fronte ad un tribunale distrettuale.

f) La giurisdizione penale e l’istituzione della giuria

Il sistema della giurisdizione strutturato dall’assemblea costituente, appare in perfetta simmetria con

la tripartizione dei reati e delle pene che, in poco tempo, sarà accolta dal codice penale

rivoluzionario. Esso infatti tripartisce gli illeciti penalmente rilevanti in:

 contravvenzioni municipali

 delitti cui corrispondono pene correzionali

 crimini criminali

Anche l’assetto giudiziario organizzato dalla costituente è a tre gradini:

 La competenza relativa alle infrazioni minori viene affidata ad un tribunale di polizia

municipale, collocato in ciascun comune e composto da un numero variabile di funzionari

amministrativi.

 La competenza relativa ai diritti punibili con sanzione pecuniaria o con il carcere

fino a due anni spetta ad un tribunale di polizia correzionale, presieduto da un giudice di pace.

 A pronunciarsi sui crimini (con sentenza impugnabile in cassazione) è invece un

tribunale criminale.

Il funzionamento di quest’organo è decisamente complesso:

1. Il giudice di pace, in qualità di ufficiale di polizia giudiziaria munito del potere di emettere il

mandato d’arresto nei confronti del pervenuto, avvia l’istruzione preparatoria nel luogo in cui è

stato commesso il crimine.

P:125

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2. Un magistrato del tribunale criminale completa la fase istruttoria, presiedendo una giuria

d’accusa composta da 8 cittadini che sono stati sorteggiati:

costoro, in base alle audizioni dei testimoni, si pronunciano sul rinvio a giudizio dell’imputato.

3. La giuria di giudizio è composta…

dal presidente del tribunale affiancato da tre giudici eletti

dai componenti del pubblico ministero

da 12 giudici sorteggiati

Qualora costoro, valutati gli esiti del dibattimento si siano formati un libero convincimento

(un’intima convinzione) relativamente

-alla sussistenza del fatto

-alla commissione del fatto da parte dell’imputato

-all’esistenza o alla mancanza di una volontà criminosa in lui

allora essi si pronunciano sulla sua colpevolezza, deliberando sulla pena.

++++++++++++++

Anche se animata dall’idea che la fonte di ogni giustizia è il popolo e che occorresse rinnovare in

toto il sistema della repressione penale, l’assemblea costituente non giunse facilmente

all’accoglimento della giuria penale.

Fu Duport a presentare alla Costituente il progetto di legge contenente la disciplina di

funzionamento

-della giuria penale

-e del nuovo processo penale

La discussione di questo progetto si avviluppò fin dall’inizio attorno ad un problema cruciale:

ci si chiedeva, infatti, se esso dovesse essere totalmente orale, oppure se sarebbe stato opportuno

mantenerne una parte scritta, e una parte orale.

Il progetto Duport optava decisamente per la completa oralità, in quanto i giudici, non vincolati da

nessun formale atto scritto, non sarebbero più stati vincolati alle prove legali, bensì avrebbero

potuto pronunciarsi, a fine dibattimento, in base ad una intima convinzione, e cioè in base ad una

persuasione di coscienza.

Il giudice, insomma, poteva valutare in base al suo libero convincimento. “Libero”, in quanto….

-non vincolato ad alcuna regola probatoria precostituita

-il giudice doveva semplicemente accertare se un fatto fosse o meno vero, e non se di esso esistesse

una prova prevista dalla legge.

Tuttavia, in seno alla costituente, molti erano i deputati che accettavano il principio del libero

convincimento ma rifiutavano allo stesso tempo quello della totale oralità, pretendendo che la

valutazione delle prove fosse disciplinata dalla legge.

La questione si risolse con una importante legge approvata dalla costituente, in base alla quale le

deposizioni dovevano essere verbalizzate ma non trasmesse alla giuria d’accusa, che giudicava

dunque in base alla diretta audizione dei testi:

questa legge, dunque, formulava il principio del libero convincimento del giudice, seppellendo

per sempre, in Francia, il principio delle prove legali.

g) Le altre importanti innovazioni nel campo della giustizia:

elettività dei giudici, soppressione dell’ordine degli avvocati, istituzione del difensore

d’ufficio, chiusura delle facoltà di giurisprudenza

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Come una macchina da guerra concepita per demolire la giustizia d’ancien regime, il principio

della elezione diretta dei giudici da parte del popolo sottrae la magistratura ad ogni controllo

esercitabile dal potere esecutivo:

il sovrano è ormai tenuto ad una automatica approvazione dei nominativi dei magistrati indicati

dagli elettori.

L’universo della giurisprudenza, tuttavia, non è popolato solo dai giudici, ma anche dagli

avvocati, branco di sciacalli che campa sulla litigiosità altrui: anche per costoro la Rivoluzione ha

preparato un colpo distruttivo.

L’ordine degli avvocati, infatti, viene soppresso, e viene istituita la figura del difensore d’ufficio, la

cui funzione è liberamente esercitabile da qualunque cittadino.

La falce antigiurisprudenziale finisce per colpire, infine, anche le radici stesse del sistema, con la

condanna alla chiusura delle facoltà di giurisprudenza.

A questo punto la tabula rasa del pensiero giuridico è stata portata a compimento.

La legislazione rivoluzionaria nel campo del diritto privato dalla costituente alla

convenzione: il “droit intermédiaire”

UNA CHIRURGIA D’URGENZA IN ATTESA DI UN CODICE CIVILE: CONSIDERAZIONI

GENERALI SUL “DROIT INTERMÉDIAIRE”

Per droit intermediaire si intende quella legislazione civilistica rivoluzionaria che separa l’ancien

regime dal code napoleon:

poiché l’assemblea legislativa, subentrata alla costituente, non riesce a tradurre in pratica il voto di

codificazione che era stato emesso,

allora la Rivoluzione si presenta come tesa a tradurre anticipatamente in atto i principi da

racchiudersi in un successivo codice civile, attraverso l’emanazione di leggi di riforma volte a

rinnovare alcuni settori del diritto privato.

La base di questi principi sarà l’uguaglianza civile dei consociati.

Questa produzione legislativa riflette l’andamento a parabola dell’intero fenomeno rivoluzionario:

proclamazioni di principio dell’Assemblea Costituente

riforme dell’Assemblea Legislativa

estremistici interventi della Convenzione Girondina

interventi pressoché totalitari della Convenzione Giacobina.

Eletti a seguito di votazioni a suffragio universale, cui ha partecipato, però, solo il 10% del corpo

elettorale, i deputati della Convenzione pretendono di essere la voce del popolo, quando invece non

sono altro che l’assemblaggio

-dei club della rivoluzione democratica

-rafforzati dagli estremistici membri della terroristica “comune” di Parigi.

La convenzione è mossa da due correnti di punta: quella dei Girondini e quella dei Giacobini, non

separate da ideologie veramente profonde, ma piuttosto contrapposte da una implacabile lotta per il

potere.

Il mezzo a queste due ali siede il maggioritario, ma disorganizzato e passivo, gruppo della Palude.

Dopo una impressionante epurazione, fatta a mezzo della ghigliottina, la convenzione si

verticizza in capo alla vincente fazione dei giacobini: istituzionalizzato il Terrore, i “Montagnardi”

governano la Francia a regime di partito unico: la dittatura personale di Robespierre è sostenuta

nelle varie regioni del paese dai sans-culottes, gruppi di attivazione quotidiana del Terrore.

Chi cerca di minare il potere di Robespierre viene via via eliminato. Questo governo instaurato ed

imposto da Robespierre alla Francia cade quando, sfibrato dalle continue autoamputazioni, gli viene

mossa una congiura.

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Dopo questo momento culminante della Rivoluzione, che prende il nome di Termidoro, la

successiva convenzione termidoriana, caratterizzata da misure antigiacobine ed antiterroristiche,

sopravvive per poco tempo, lasciando poi spazio al regime del primo, secondo e terzo direttorio.

LA LIBERTA’, COME INDIPENDENZA DA OGNI POTERE PERSONALE, NEL DROIT

INTERMÉDIAIRE

Nella notte del 4 agosto 1789, l’Assemblea nazionale vota la soppressione dei diritti feudali.

Se essa, tuttavia, nei giorni successivi, rimeditando a freddo su ciò che ha fatto, correggerà il tiro

su tanti punti,

per ciò che riguarda, invece, i privilegi, comportanti

-un limite all’uguaglianza civile

-e una restrizione alla libertà delle persone soggette ad un signore in ragione della terra da loro

posseduta,

la promessa del 4 agosto opera irreversibilmente:

scompaiono così dalla Francia le varie sopravvivenze del servaggio della gleba, uno status di

soggezione servile, che vincolava la persona alla terra.

Tuttavia se la Costituente, in nome dei diritti dell’uomo, abolisce il servaggio in Francia, essa non

fa nulla per cambiare le cose nell’ambito della schiavitù:

rimane così pienamente e legittimamente praticata la tratta dei neri d’Africa nelle colonie francesi

d’America.

LA LIBERTA’ DI CULTO NEL DROIT INTERMÉDIAIRE: DALLA LIBERTA’ DI RELIGIONE

ALLA RELIGIONE RIVOLUZIONARIA

a) L’emancipazione dei protestanti e degli ebrei

Un regio editto di tolleranza, nel 1787, aveva elargito lo stato civile ad un milione di protestanti

viventi in Francia, editto, questo, con il quale si decretava la fine delle tradizionali incapacità da cui

essi erano paralizzati.

Poiché tuttavia questo editto non fu registrato da tutti i parlamenti, esso rimase inapplicato.

Per quanto riguarda gli ebrei, invece, nel 1789 essi si muovono ancora in una gabbia di gravami

e di incapacità.

I tempi dell’emancipazione…

-cominciano nel 1789 quando l’assemblea costituente ammette i cristiani non cattolici all’esercizio

delle pubbliche funzioni

-continuano con il decreto di restituzione ai protestanti dei loro beni confiscati un secolo prima

-si concludono con la concessione del diritto di cittadinanza agli ebrei.

Da questo momento in poi, le differenze di professione religiosa perdono ogni rilievo ai fini del

godimento dei diritto civili, in quanto l’assemblea abolisce tutte le istituzioni che ledono

l’uguaglianza dei diritti.

Ai suoi esordi, dunque, la Rivoluzione sembra realizzare un perfetto accordo della religione e della

libertà. Tuttavia questa armonia si rivela ben presto illusoria, in quanto lo spirito rivoluzionario, in

realtà, sta soffiando proprio nella direzione opposta a quella della libertà religiosa: esso trascina tutti

verso una campagna di cristianizzazione che culminerà con l’instaurazione di una religione di stato.

b) La costituzione civile del clero

I primi passi verso una religione rivoluzionaria sostitutiva di ogni altro culto, sono compiuti

dall’assemblea costituente, che non immagina neanche di star togliendo le basi alla libertà religiosa.

Essa, infatti,

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 sopprime le decime ecclesiastiche (cioè le imposte in natura percepite dal curato di ogni

parrocchia, equivalenti, in via di principio, alla decima parte del raccolto), senza prevedere alcuna

indennità.

 decreta la confisca dei beni immobiliari della chiesa, trasformandoli in beni nazionali

 decreta il divieto dei voti monastici

 sopprime gli ordini religiosi

 approva la costituzione civile del clero, vale a dire

-la diminuzione del numero delle parrocchie

-l’elezione dei vescovi e dei parroci da parte dei cittadini

-la riduzione di ogni religioso allo status di pubblico funzionario

-l’obbligo per tutto il clero di prestare pubblico giuramento di fedeltà alla nazione:

è soprattutto quest’ultimo punto che provoca una drammatica spaccatura nel clero francese.

Così il popolo francese, rimasto legato alla religiosità tradizionale, si trova di fronte due cleri

contrapposti:

uno costituzionale, che è politicizzato e ha prestato giuramento

l’altro refrattario, destinato alla ghigliottina.

c) La laicizzazione dello stato civile

Nella sua ultima seduta, l’assemblea legislativa

-vara la disciplina del divorzio

-e laicizza lo stato civile

La chiesa, infatti, era stata per secoli

sia la sola autorità competente a stabilire requisiti ed impedimenti del matrimonio

sia il punto di riferimento per la determinazione dello stato civile delle persone.

Una volta dichiarato il matrimonio puro e semplice contratto disciplinato dalle leggi dello stato, gli

atti di stato civile vengono secolarizzati:

così, la tenuta di tutti i pubblici registri viene affidata alle autorità municipali.

d) La “scristianizzazione”

Con tutte le misure fino ad ora adottate dall’assemblea legislativa, non siamo tuttavia ancora giunti

alla scristianizzazione vera e propria.

Tuttavia la strada per dissolvere la chiesa nella nazione, facendo dello stato una nuova chiesa, è

spianata:

l’effettiva scristianizzazione inizia quando si passa dal piano dei provvedimenti legislativi, a quello

della violenza volta a farli attuare ad ogni costo: poiché, infatti, i provvedimenti laicizzatori sono

stati accolti con sfavore, ecco che la campagna di scristianizzazione si scatena un po’ in tutta la

Francia, inscenando feste anticlericali, abbattendo campanili, saccheggiando e chiudendo chiese,

sottoponendo i preti a cerimonie di abiura.

e) Il calendario rivoluzionario

Nel 1793, la Convenzione adotta il nuovo calendario repubblicano:

l’idea di rivoluzionare anche il tempo è un ulteriore passo del progetto di scristianizzazione e di

rigenerazione:

ci si rende conto, infatti, che il calendario cristiano possiede una incredibile forza educativa,

basata sull’intangibilità della tradizione.

poiché invece ora l’uomo è un cittadino, e lo stato si impadronisce del suo nuovo tempo, che è

quello dell’era della libertà, il nuovo calendario fa piazza pulita dei santi e della domenica.

• L’anno, che inizia a Settembre (anniversario della proclamazione della repubblica), si

compone di dodici mesi, denominati con nomi poetici.

f) Il culto della Dea Ragione e quello dell’Ente Supremo

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Il delirio delle celebrazioni sovvertitrici tocca il suo apice quando, tre giorni dopo lo spretamento

del vescovo di Parigi, viene celebrata la prima festa civica in onore della libertà, vista come il

trionfo della ragione su diciotto secoli di pregiudizi.

Quando ormai la rivoluzione ha pressoché portato a termine la devastazione religiosa, è

Robespierre in persona ad arrestare la scristianizzazione: è stato infatti sottovalutato il viscerale

attaccamento della popolazione alla religione. Così, su richiesta di Robespierre, si decreta il culto

dell’Ente Supremo, dichiarando che il popolo francese riconosce l’immortalità dell’anima.

Dopo l’esecuzione di Robespierre, la Convenzione si vedrà costretta ad accordare la libertà di culto,

e molte chiese riapriranno i battenti.

LA LIBERTA’ DI LAVORO NEL DROIT INTERMÉDIAIRE E LA LEGGE LE CHAPELIER

L’idea di libertà, concepita come diritto alla indipendenza dell’individuo nello svolgimento del

proprio lavoro, ispira all’assemblea costituente due misure legislative che costituiscono due colpi di

scure al mondo dell’ancien regime:

le tradizionali corporazioni d’arte e mestiere, infatti, gestivano da sempre in regime di monopolio i

vari settori.

Proprio in quanto tali, e cioè in quanto strutture detentrici di potere, le corporazioni erano state

messe sotto accusa perché viste come ostacoli che si frapponevano allo sviluppo economico.

La costituente liquida definitivamente le corporazioni con due decreti.

Con il fine di liberare il singolo da ogni dipendenza nei confronti di questi enti che si frappongono

tra lui e la collettività nazionale, l’assemblea…

vota la legge che proibisce ogni associazione tra cittadini esercitanti la stessa professione.

pone il divieto di sciopero e di qualsiasi forma di sindacalismo.

LIBERTA’ E MATRIMONIO

Il matrimonio viene definitivamente laicizzato: la legge, cioè, inizia a considerarlo esclusivamente

un contratto civile: la rottura del tradizionale legame tra contratto e sacramento, in una Francia

ancora molto legata a quest’ultimo, fu un atto rivoluzionario.

La concezione esclusivamente contrattuale del matrimonio, comporta per la stessa logica

l’approvazione del divorzio.

Contemporaneamente all’accoglimento del divorzio, poi, viene votata anche la soppressione

dell’istituto della separazione, in quanto istituto, questo, contrario alla libertà individuale, perché,

durante la separazione, rimaneva fermo l’obbligo di fedeltà.

Il divorzio è previsto in tre casi:

1- per mutuo consenso

2- per incompatibilità di umore e di carattere addotta da uno dei due sposi

3- per una delle sette cause legate ad uno dei due coniugi, e cioè:

• demenza

• delitto

• sevizie o ingiuria grave

• sregolatezza di costumi

• emigrazione

• condanna a pena infamante

• assenza per più di cinque anni, congiunta a mancanza di notizie

LIBERTA’ ED UGUAGLIANZA NEL CAMPO DEL DIRITTO FAMILIARE E SUCCESSORIO

Durante la Rivoluzione francese, alcune riforme distruggono dalle fondamenta la monolitica

famiglia patriarcale d’ancien regime: la famiglia su cui si abbatte la rivoluzione, infatti, è una

famiglia

-strutturata intorno alla figura dominante del padre,

-fondata su un matrimonio autorizzato dalle due parentele

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-in cui gli sposi hanno predeterminato, con delle clausole ad hoc, la gestione economica del loro

menage e la destinazione dei loro averi

-unificata intorno ad un patrimonio invulnerabile, custodito di generazione in generazione, di cui il

padre può disporre per testamento.

Il testamento viene generalmente utilizzato

o per concentrare i beni familiari nelle mani di un discendente (generalmente il primo genito)

ravvisato come continuatore della casa

o come sostituzione fidecommissaria, che vincola l’erede istituito a trasmettere a sua volta i beni

ad un terzo beneficiario, determinato o determinabile.

La Rivoluzione sgretola completamente la tradizionale corazza giuridica che protegge il potere della

famiglia:

 durante la costituente vengono pronunciate delle requisitorie contro la patria potestà e la

libertà di testare: il testamento, infatti, è visto come fonte di ineguaglianza delle quote successorie,

ineguaglianza che è un insulto ai diritti dell’uomo.

 E’ così che…

si fissa la maggiore età al compimento di 21 anni, età in cui cessa la patria potestà

vengono proibite le sostituzione fidecommissarie

si proclama che la facoltà di disporre dei propri beni è abolita, con la conseguenza che tutti i

discendenti avranno uguale diritto alla successione nei beni degli ascendenti

cade il potere di disederazione

i figli naturali vengono ammessi alla successione con parità di diritti

la successione viene regolata secondo il criterio della più rigorosa uguaglianza tra i figli, in

base a meccanismi volti a produrre il maggior spezzettamento possibile dei patrimoni.

EGUAGLIANZA DEI SESSI E LIBERTA’ DELLA DONNA NEL DROIT INTERMÉDIAIRE

La condizione giuridica della donna coniugata d’ancien regime è una condizione di inferiorità e di

sottomissione al marito, che è accettata dalla maggior parte della popolazione femminile come

naturale.

L’amministrazione dei beni familiari è affidata esclusivamente al marito, che ne è padrone e

signore assoluto.

A giustificazione del primato maschile nel governo della famiglia, sta la figura del pater familias,

unico proprietario e gestore dei beni necessari a fronteggiare i bisogni del nucleo domestico: la

donna, infatti, è vista come una creatura debole, sia dal punto di vista fisico che da quello

psicologico.

La donna coniugata, dunque, è considerata incapace di agire, tanto che essa è sottoposta alla

potestà maritale.

Il marito, munito di poteri direttivi che gli assicurano l’obbedienza, ha un irrinunciabile dovere di

protezione nei confronti della moglie, tanto che deve espressamente autorizzarla a compiere

qualunque atto negoziale eccedente le piccole spese della quotidianità domestica: la mancanza

dell’autorizzazione maritale produce la nullità di ogni atto inter vivos posto in essere dalla donna

sposata: senza l’espresso consenso del coniuge, ella non può fare niente.

Alla fine dell’ancien regime, cioè alla vigilia della Rivoluzione, le condizioni della donna sono

queste.

In verità la rivoluzione muta la condizione della donna solo su due fronti:

quello del divorzio

e quello della parità successoria

L’incapacità di agire della donna e la potestà maritale attraversano indenni il droit intermediaire.

C’è, infatti, una vera e propria contraddizione di fondo:

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-si concede alla donna di disporre pienamente di se stessa, offrendole il mezzo legale per svincolarsi

dalla supremazia del marito (il divorzio)

-ma la potestà maritale e tutti i suoi corollari restano intatti.

Anche i rivoluzionari, infatti, continuano ad essere dell’idea che l’incapacità di agire della donna si

fondi su una insuperabile legge di natura, che ne

ha costituito l’intrinseca debolezza del fisico e del carattere.

La rivoluzione provocò un grande cambiamento di opinione nelle donne:

le grandi promesse che essa aveva fatto, infatti, accesero nel sesso debole aspirazioni alla libertà e

all’uguaglianza, aspirazioni che portarono le donne a contestare l’idea di una loro naturale estraneità

alla vita pubblica e agli affari.

Tutto questo spiega la massiccia partecipazione femminile ad alcuni dei più drammatici eventi

rivoluzionari.

IL DIRITTO DI PROPRIETA’ NELLA LEGISLAZIONE RIVOLUZIONARIA

In meno di cinque anni dalla sua nascita, la Rivoluzione compie due modificazioni della proprietà

che hanno come effetto la fine della società d’antico regime e la nascita della borghesia.

Queste due grandi innovazioni sono:

a) l’unificazione strutturale del diritto di proprietà

b) la ridistribuzione della proprietà a nuovi e moltiplicati proprietari.

Riassunti scritti da GennaroAcquario1980 ([email protected]). Disponibili tutti i riassunti di Giurisprudenza.

La dichiarazione dei diritti dell’uomo, definisce la proprietà come un diritto sacro ed inviolabile.

Ma la proprietà sacra visualizzata dal pensiero rivoluzionario non è la stessa della tradizione

d’ancien regime, bensì la proprietà che viene a prender forma dopo che l’assemblea nazionale

distrugge interamente il regime feudale:

Per molta parte della popolazione contadina, gli oneri derivanti dal regime feudale sono ai limiti

della sopportabilità. Nelle loro agitazioni, le folle contadine inferocite reclamano la soppressione

dei diritti feudali:

l’abolizione dei privilegi feudali, che viene approvata dalla Costituente dopo un concitato

dibattito, è stata in realtà una soluzione politica d’emergenza, improvvisata nel corso della seduta

notturna;

il mattino successivo, constatati i danni autoprodotti, un “comitato feudale” si mette al lavoro per

ridurre il più possibile le perdite patrimoniali avute con la proclamazione notturna.

Nella notte del 4 Agosto della settimana successiva, vengono emanati una serie di decreti che

precisano la portata effettiva della promessa di abolizione dei diritti feudali.

Cadono così:

-i privilegi onorifici esteriori (diritto all’omaggio, diritto al banco in chiesa…)

-il servaggio della gleba

-le corvées, le varie figure di servitù personale…

-le decime ecclesiastiche.

Resta lo zoccolo duro del diritto reale vantato dal signore come titolare del dominio diretto (*) sul

fondo:

(*) Su uno stesso fondo gravavano due distinti diritti di proprietà esercitati contemporaneamente:

il dominio utile: in base a cui i contadini avevano diritto a coltivare materialmente il fondo

il dominio diretto, in base a cui il signore feudale aveva diritto ad una rendita sul fondo, rendita

assicurata dai versamenti in denaro o in natura fatti dal contadino.

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Quanto a questo tipo di diritto, la costituente ne dispone non l’abolizione, ma bensì il riscatto: il

riscatto sarà il mondo per permettere al contadino di congiungere al suo dominio utile anche quello

diretto, divenendo così proprietario unico del bene: esso non è altro che il versamento del presso

della proprietà diretta, quantificabile in una somma pari a 20/25 volte il canone annuo.

Arriva un momento in cui, nelle campagne, i contadini si oppongono alle richieste signorili,

sostenendo che ogni proprietà fondiaria sia da ritenersi libera, a meno che il signore non esibisca

l’originale atto d’infeudazione del fondo.

Poiché, tuttavia, per la stragrande maggioranza dei feudatari, ritrovare l’atto originale che legittima

il fondo (atto spesso vecchio di secoli), risultò impossibile, questa probatio diabolica imposta ai fini

del riscatto rappresentò l’inizio della rovina del regime signorile.

La Convenzione dichiarò:

che tutti i diritti dei signori a loro derivanti dalla stipulazione di un contratto feudale e già

dichiarati riscattabili sono da ritenersi aboliti senza indennità.

che in ciascun comune i titoli documentanti le proprietà signorili sarebbero dovuti essere bruciati

pubblicamente tutti insieme entro tre mesi.

Caduto dunque ogni legame tra contadini e feudatari, non restano che individui proprietari, titolari

di una proprietà non più duplicemente definibile.

*******************

Per quanto riguarda, invece, il discorso della abolizione senza indennità della decima ecclesiastica,

questo provvedimento ne anticipò uno ancora più radicale: la confisca e trasformazione dei beni

ecclesiastici in beni nazionali.

Confiscate le proprietà della chiesa,

venne organizzata una vendita dei “beni nazionali”: questa vendita fu organizzata favorendo la

divisione delle grandi proprietà in piccoli lotti, aggiudicabili all’asta ad un prezzo di favore.

venne imposta la divisione delle terre comuni destinate allo sfruttamento collettivo:

tuttavia, di fronte alla resistenza dei contadini, la divisione dei beni comunali divenne facoltativa, e

si dispose che, in quei villaggi in cui essa si sarebbe realizzata, la terra dovesse essere

indistintamente ripartita tra tutte le persone lì domiciliate.

i beni degli emigrati vennero confiscati, dichiarati beni nazionali, e poi venduti: questa messa

all’asta di terre da parte dello stato si svolse con le stesse procedure tenute per l’alienazione dei beni

del clero.

Con la vendita dei beni nazionali, il governo rivoluzionario favorì

-una crescita numerica delle piccole proprietà

-e l’accesso a diritto di proprietà per quelle famiglie che riuscirono ad accaparrarsi il loro lotto di

terra.

Tuttavia,

-se i piccoli contadini avevano sete di terra,

-lo stato aveva sete di denaro, occorrente a colmare il grande deficit pubblico: fu così che, nelle

aggiudicazioni, si preferirono coloro che pagavano subito e in contanti. Fu così che la vendita delle

terre finì solo per rendere più ricchi coloro che già lo erano, con un potenziamento delle

ineguaglianze economiche, in un contesto che voleva essere di uguaglianza giuridica.

La forza economica della nobiltà, ripresasi dall’abolizione dei diritti feudali con l’acquisto dei

beni nazionali, si mantenne,

e la borghesia, insieme alla nobiltà, andarono a costituire il nuovo notabilato (=insieme dei

personaggi più autorevoli di una comunità), contrassegnato non più da privilegi, ma dal denaro

investito nei fondi.

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I nuovi ricchi, dunque, si aggiungono ai vecchi nel possesso della terra come primaria fonte di

ricchezza. Così…

-con l’aristocratizzazione di una nuova borghesia, provvista di ricchezza terriera

-e la borghesizzazione di una nobiltà riprovvedutasi di terre,

si passa dal regime del privilegio, a quello del denaro.

E’ questo rimescolamento sociale il principale risultato della rivoluzione.

Ma la sovranità del popolo resta un fantasma.

I tentativi rivoluzionari di codificazione civile sino a termidoro

LA RIVOLUZIONE DI FRONTE ALL’IMPRESA DELLA CODIFICAZIONE CIVILE:

IL PRIMO “PROGETTO CAMBACÉRÈS” (1793)

Quando si parla della legislazione rivoluzionaria nel campo del diritto privato, ossia del c.d. droit

intermediaire, si sottolinea sempre che le riforme prodotte in quel periodo sono state concepite

come anticipatrici di una codificazione di tutto il diritto civile già annunciata nel 1790.

E’ solo nel 1793 che, in seno al comitato di legislazione della convenzione, presieduto dal giurista

Cambacérès, iniziano concretamente i lavori per la redazione di un progetto di codice civile.

Poiché Cambacérès risulta essere il motore dell’intera impresa, a buon titolo si può intitolare a suo

nome il primo progetto rivoluzionario del codice civile.

In due mesi di lavoro, esso è pronto per essere sottoposto alla convenzione:

si tratta di 719 articoli ripartiti in tre libri.

Lo schema è il classico: persone e famiglia; beni; contratti.

Così, quando il dibattito sul testo sembra condurre verso una celere approvazione del progetto, la

situazione si capovolge:

esso viene giudicato come troppo tecnico e complesso, in un certo senso come “troppo giuridico”, e

si richiede che venga semplificato e depurato.

Con tutta probabilità, invece, dietro a questo cambio di direzione, c’era un ben preciso motivo

politico:

mentre infatti adottare un codice civile avrebbe significato porre termine alla rivoluzione

aggiornarlo avrebbe significato, al contrario, dichiarare che né la guerra, né la rivoluzione, erano

terminate.

IL SECONDO PROGETTO CAMBACÉRÈS (9 SETTEMBRE 1794)

A dispetto della delibera della Convenzione, che aveva stabilito che il progetto del codice avrebbe

dovuto essere semplificato da 6 filosofi non giuristi, esso torna a Cambacérès:

è lui che, anche questa volta, si occupa del (secondo) progetto di stesura del codice civile,

presentando, il 9 Settembre 1794, alla Convenzione Termidoriana, il codice non giuridico reclamato

dalla convenzione giacobina.

Cambacérès ha fatto esattamente ciò che gli era stato chiesto mesi prima:

un codice brevissimo, composto dei soliti tre libri dedicati alle persone, alle cose e alle obbligazioni.

Abbandonato il più possibile ogni tecnicismo terminologico, le norme appaiono come coincise e

perentorie, scritte in uno stile spartano.

(es. i beni sono mobili o immobili)

In tutto ciò, certamente, c’è una controindicazione:

una società civile che ha più massime che norme, e di conseguenza più lacune che disposizioni, non

può certo reggersi in piedi!! Ma di ciò Cambacérès è ben consapevole, tanto che lui per primo

dichiara che l’opera avrà bisogno di una integrazione, che sviluppi i postulati.

Quando Cambacérès presenta il suo progetto,

il gruppo di Robespierre è caduto da più di due mesi

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e la nuova convenzione termidoriana ha già iniziato lo smantellamento de sistema del terrore

giudiziario.

Egli, dunque, si trovò a far approvare il progetto nel momento meno felice che si potesse

immaginare, in quanto lo aveva fedelmente elaborato nei termini sommari voluti nel clima del

governo rivoluzionario, ma lo stava presentando ad una convenzione impegnata nella liquidazione

del giacobismo.

La discussione della convenzione respinse in breve il testo: esso, infatti, appariva

-troppo corto,

-terribilmente incompleto,

-e impregnato del radicalismo giacobino

per poter funzionare.

Fu così che cadde anche il secondo progetto del codice civile.

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SEZIONE II: LA CODIFICAZIONE NAPOLEONICA

Da termidoro a brumaio: verso il code Napoléon

PREMESSA: IL MITO DELLE ORIGINI DEL CODICE CIVILE FRANCESE

E’ il 1804. Ci si interroga sul se il codice civile sia il frutto dell’idea di un solo uomo, Napoleone, o

se esso sia il frutto di un lavoro collettivo a lui precedente.

Esso, in realtà, è il frutto finale di un’opera collettiva realizzata nell’arco di un decennio, in cui i

progetti post-termidoriani, che anticipano il contenuto del testo del 1804, rappresentano gli anelli di

congiunzione di una catena che portano ad esso.

Dunque il codice del 1804 non può essere concepito, unicamente e riduttivamente, come istantanea

manifestazione della volontà di uno solo:

Con i suoi riflessi termidoriani, esso non è che il risultato del lavorio tecnico, della cultura e delle

preoccupazioni politiche di molti eroi.

LA RESTAURAZIONE POST-TERMIDORIANA

E’ il 10 di Termidoro, anno II.

La dittatura di Robespierre è caduta.

E i termidoriani vogliono terminare la rivoluzione, eliminando l’eredità del regime giacobino:

la loro azione, tuttavia, non si limita a demolire la legislazione prodotta nei giorni del terrore,

MA, per tornare ad un regime di ordine e sicurezza, procedono alla ricostruzione della stessa

società.

La riedificazione dei nuovi assetti sociali coinvolge, innanzi tutto, la ridefinizione della famiglia,

sconnessa dalla rivoluzione.

 Si prova dunque, ora, diffidenza verso il divorzio, che si ottiene troppo facilmente

 Appare quanto mai urgente tracciare un solco tra i gigli naturali e quelli legittimi: non poche

persone, infatti, convengono che la favorevole condizione successoria dei figli naturali vada

drasticamente ridotta

 Occorre che al vertice dei governo della famiglia venga riallocato il padre, e che gli venga

restituito il testamento, arma con cui farsi rispettare ed obbedire dai figli.

 La moglie deve essere posta in uno stato di incapacità di agire: essa non deve poter compiere

alcun atto di straordinaria amministrazione senza l’autorizzazione del marito.

IL TERZO PROGETTO CAMBACÉRÈS: EPILOGO DELLA RÉVOLUTION O PROLOGO DELLA

RÉACTION?

E’ dunque nel clima della convenzione termidoriana che Cambacérès e i suoi colleghi elaborano il

terzo progetto del codice civile, presentato nel 1796:

un testo certamente più accurato e meno compendioso rispetto al primo e al secondo tentavo di

codificazione.

Cercando di mitigare gli eccessi della legislazione giacobina, Cambacérès compie un’opera di

mitigazione, in quanto

da una parte si conservano alcuni istituti introdotti dal legislatore rivoluzionario, come ad

esempio il divorzio

dall’altra vengono inseriti principi che danno al progetto un taglio ambiguamente conservatore.

Ci troviamo, dunque, di fronte ad un progetto palesemente contraddittorio:

-da un lato, infatti, esso appare come un testo pioniere della reazione,

-dall’altro si presenta come l’ultima fiammata della rivoluzione.

Forse una chiave di interpretazione di questa contraddittorietà va ricercata nella composizione della

commissione, che riunisce al suo interno nostalgici della rivoluzione e sostenitori del nuovo ordine.

Dunque anche il terzo progetto mostra di essere superato, ancora prima di essere sottoposto a

discussione.

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Il comitato è inondato da petizioni di privati cittadini che richiedono di emendare la legislazione

terrorista, introducendo modifiche radicali molto più incisive di quelle inserite da Cambacérès.

Gli articoli definitivamente approvati, alla fine, sono solo due.

Resosi conto di trovarsi su un binario morto, Cambacérès getta la spugna.

1797. LA REAZIONE PROSEGUE: NUOVE SVOLTE NEL DIRITTO CIVILE E NEL DIRITTO

PENALE

a) Nel diritto civile. Un brusco arresto del processo di codificazione?

Il disegno conservatore di: ostilità verso il divorzio, sfavore nei confronti dei figli naturali, favore

per il testamento e volontà di affidare al solo marito la gestione del patrimonio familiare, assume un

maggior vigore nel 1797, quando la classe politica inizia ad essere ossessionata da questi problemi.

In questo lasso di tempo, l’idea di realizzare il codice civile viene lasciata da parte, in quanto i

deputati sono concentrati ad emendare la legislazione prodotta tra il 1793 e il 1794.

In seguito al colpo di stato di Fruttidoro, il processo di codificazione, sia pure a fatica, riprenderà la

sua corsa.

b) Nel diritto penale

Nell’ambito del diritto penale, invece, l’esigenza di riformare il codice penale del 1791 è avvertita

con urgenza:

solo un giustizia esemplare, infatti, è in grado di porre un freno alle passioni socialmente nocive!

Il codice in vigore, infatti, è giudicato lacunoso e troppo mite.

In un certo senso si ritorna, dunque, all’ancien regime, ripristinando la pena di morte per i rapinatori

e per i loro complici.

Anche il diritto processuale viene criticato dai deputati, soprattutto per quanto riguarda l’istituto

della giuria: secondo loro, infatti, i giurati si lasciano intimidire dagli imputati, non presentandosi al

processo o giudicando l’accusato assolto per non aver commesso il fatto: di qui, la proposta di

punire i giurati non ottemperanti al proprio ufficio.

DALL’ILLUSIONE AL DISINCANTO. IL PESSIMISMO ANTROPOLOGICO DEI

SOPRAVVISSUTI ALLA DIKE RIVOLUZIONARIA

Sicuramente l’involuzione in senso autoritario fu determinata dall’esperienza del Terrore, maturata

dalla maggior parte dei giuristi durante il regime giacobino. Alcuni protagonisti moderati dell’89,

infatti, proprio per aver vissuto le rinnegazioni dei diritti dell’uomo che si erano consumate,

apparivano ora segnati nell’animo dalla tragedia da cui erano usciti.

L’89, che era stato considerato come un promettente punto di lancio verso la felicità, era stato,

invece, soltanto una illusione, tanto che le concezioni filosofiche sostenute un tempo con

entusiasmo, venivano considerate, ormai, come chimere.

Dopo il Terrore, inoltre, cambiò anche il giudizio sulla natura umana:

i giuristi, ora, non esaltarono più “il buon selvaggio”: l’aver cercato di rieducare l’uomo, attraverso

la legge, a riacquistare la propria natura, infatti, era stata una follia.

La via da percorrere, ora, era considerata quella inversa, in quanto l’uomo adesso veniva visto come

naturalmente malvagio.

Il terrore, insomma, aveva fatto giustizia di quell’ottimismo antropologico che aveva caratterizzato

la prima fase della rivoluzione.

LA NATURA DELL’UOMO E IL COMPITO DEL LEGISLATORE: IL RUOLO DEGLI

IDÉOLOGUE E DI BENTHAM

a) Cabanis e gli Idéologues

Il giudizio negativo sulla natura umana

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e la critica di uno stato primordiale dell’uomo, caratterizzato dalla sua bontà

erano propri della cultura del tempo, anche della cultura non giuridica.

In questo periodo, infatti, gli Ideologues, maestri di pensiero del momento, conducevano una

violenta campagna contro il Rousseau del buon selvaggio, che aveva parlato del contratto di una

società immaginaria.

Era invece Machiavelli colui che, essendo vissuto nel bel mezzo di una guerra civile, ed avendo

visto gli uomini come ignoranti e fanatici, aveva capito dove fosse la verità: le persone chiamate a

governare, infatti, non erano i buoni selvaggi di Rousseau, bensì i non buon selvaggi!

La figura più illustre tra gli Ideologues, fu quella di CABANIS, personificazione intellettuale della

cultura post-termidoriana.

Le sue riflessioni sulla natura materialistica dell’uomo, incontrarono il pieno favore della cultura

post-rivoluzionaria.

Lo studio sulla natura dell’uomo andava fondato sull’analisi e sull’evidenza, unici parametri che

potevano portare ad un risultato ripetibile.

L’uomo di Cabanis agisce in quanto mosso sia da sollecitazioni del mondo esterno, sia da

sensazioni interne. Né statua, né macchina: per Cabanis ogni fenomeno umano deve essere

ricondotto alla fisiologia, alla corporeità.

Se, tuttavia, il comportamento dell’uomo appare assolutamente prevedibile, ci si chiede quale

possa essere il ruolo dell’educatore e, soprattutto, quello del legislatore.

Cabanis osserva che la condotta dell’uomo può variare in base al clima, al sesso e all’abitudine, e

che dunque l’essere umano, è generalmente portato a reiterare alcuni comportamenti. La ripetizione

costante di questi comportamenti, produce, secondo lui, una trasformazione a livello fisico:

dunque il maestro e il legislatore, attraverso le pratiche pedagogiche, e la tecnica legislativa,

possono educare e governare l’uomo condizionandone le abitudini.

Queste abitudini, a loro volta, agiscono sugli organi interni dell’individuo, determinando

una loro modificazione morfologica.

Gli organi interni, infine, producono modificazioni psichiche, cioè modificazioni di

pensiero o sentimento.

Si ha, dunque, una vera e propria reazione a catena:

legislatore/educatoreabitudinimodificazioni di organi internicomportamento stabilito dal

legislatore/educatore

Stando a tutto ciò, appare evidente come il ruolo dell’educatore e del legislatore siano da

considerarsi fondamentali: costoro, infatti, possono programmare, secondo schemi prestabiliti, la

condotta degli individui.

b) La divulgazione del pensiero di Jeremy Bentham

Accanto alle idee degli Ideologues, iniziano ad essere divulgate in Francia anche quelle del filosofo

inglese Jeremy Bentham: il mondo della cultura francese post-termidoriana mostra un certo

interesse nei suoi confronti. Tutto ciò non deve stupire perché le affinità tra le idee del filosofo

inglese e quelle degli Ideologues sono notevoli:

anche lui invita, in primo luogo, a studiare lo stato fisico dell’uomo, o meglio la sensibilità

dell’uomo considerato come un essere passivo, soggiogato dal mondo intorno, che gli suscita

piacere e dolore.

anche lui, inoltre, suggerisce al legislatore di pianificare e guidare la condotta dei cittadini

sfruttandone gli automatismi psichici.

L’esempio che egli apporta è quello del testamento:

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poiché l’uomo, dice Bentham, è egoisticamente dominato dall’interesse, il padre può servirsi del

testamento per ottenere il rispetto e la gratitudine dei figli attraverso il binomio pena-ricompensa.

Poco importa che i sentimenti dei figli siano sinceri, o siano il frutto di un calcolo utilitaristico: ciò

che conta è che il testamento diriga le inclinazioni degli uomini, facendo acquisire loro nuove buone

abitudini.

Al di là dell’individuare una supremazia di Bentam o degli Ideologues, ciò che occorre invece

sottolineare è il fatto che l’uomo appare come un essere

-totalmente mosso dalla ricerca del piacere

-e soggetto ad una condotta prevedibile.

In questa prospettiva, il legislatore è chiamato ad orientare la condotta dell’uomo, tenendo conto

che il motore principale del suo agire è l’interesse.

I PROGETTI DI CODICE CIVILE ELABORATI ALLE SOGLIE DEL COLPO DI STATO DI

BONAPARTE

a) La commissione del 1798

Nel 1798 viene istituita l’ennesima commissione, presieduta da Jacqueminot, per giungere alla

codificazione civile.

Anche se i membri del consiglio del cinquecento vengono rassicurati, attraverso l’illustrazione

del programma di lavoro,

per motivi tattici si decide di giungere al codice civile gradualmente, approvando una legge alla

volta.

Prima di parlare del lavoro di questa equipe, tuttavia, appare opportuno considerare i tentativi di

codificazione elaborati, a titolo personale, da alcuni tecnici del diritto.

b) Il progetto di Guy Jean-Baptiste Target (1798-1799)

Il primo autore di uno di queste compilazioni elaborate a titolo personale è Target, uno tra i più

celebri e colti avvocati di Francia, aperto alla cultura dei lumi, e animato da una autentica passione

riformista.

quanto alla disciplina della famiglia, il clima post-termidoriano esercita su di lui influenze

profonde: siamo nell’ambito di un diritto di famiglia completamente all’insegna della reazione.

con riferimento alla proprietà, questa viene dichiarata sì sacra ed inviolabile, ma con la riserva

che il suo esercizio sia sorvegliato-

Ultimo indizio dello spirito conservatore del progetto, è rappresentato dal fatto che Target vi

reintroduce l’incarceramento per debiti.

Egli asserisce che il legislatore deve servirsi delle pulsioni degli individui per orientarne la

condotta sociale: poiché gli esseri umani, infatti, sono sensibili agli interessi, il legislatore deve

entrare nel cuore degli uomini, rendendoli utili alla società.

c) Il progetto di codice sulle successioni di Jean Guillemot (1799)

Alla figura di Target, si può affiancare quella di Guillemot:

costui presenta al consiglio degli anziani un personale progetto di codice sulle successioni, che

propone vigorose misure restauratrici. In particolare egli invoca la reintroduzione della patria

potestà e del testamento, esibendo una concezione disincantata della natura umana:

pure ai suoi occhi, infatti, l’uomo è dominato dall’egoismo, dalla ricerca del piacere, dalle passioni

e dall’interesse personale.

Al legislatore, dunque, spetta il compito di sfruttare la cupidigia dell’uomo, in favore degli interessi

pubblici.

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Guillemot è persuaso che il legislatore possa gestire i sentimenti dell’uomo attraverso l’aumento

della quota disponibile in quanto i figli, in previsione di una maggior quota, porteranno rispetto ai

padri, e dunque miglioreranno anche se stessi.

E, nell’ipotesi in cui il testamento non funzioni, Guillemot desidera attribuire al pater familias anche

l’arma della diseredazione.

IL PROGETTO JACQUEMINOT (1799)

A poco più di un mese dal colpo di stato di Brumaio, Jacqueminot, forte dell’appoggio di

Bonaparte, che di lui ha una grande stima, presenta alla commissione legislativa dei cinquecento un

parziale progetto del codice civile.

Se è vero che si tratta di un piano di codificazione che non iene sottoposto a discussione e che,

per di più, è incompleto

è anche vero che esso può essere considerato il più grande contributo post-termidoriano alla

codificazione civile, in quanto, confrontando il suo testo con quello elaborato dalla commissione

napoleonica, è semplice notare che la maggior parte delle disposizioni vi sono state tutte

semplicemente trasfuse.

Il progetto di Jacqueminot, dunque, non può definirsi solo un abbozzo di codice!! Esso è già il code

civil di Napoleone.

-Se, un anno prima, nel 1798, Jacqueminot presentando il suo programma, aveva impiegato toni

concilianti,

-ora, invece, manifesta liberamente il suo pensiero: egli, cioè, non esita a denunciare che il

fanatismo rivoluzionario di una uguaglianza follemente interpretata ha sconvolto il diritto civile.

I tempi nuovi, invece, richiedono l’adozione di misure legislative volte a rendere gli uomini virtuosi

e più facili da dirigere, allo scopo di garantire, attraverso l’unione delle famiglie, la pace dello Stato.

In consonanza di quanto osservato da Guillemot, il mezzo più efficace per fare ciò è il testamento,

base della logica utilitaristica.

Attraverso il codice civile, dunque, si realizzerà l’epurazione dei costumi

RIFLESSIONI CONCLUSIVE

Nella messa a punto della restaurazione giuridica e sociale, i giuristi appaiono profondamente

segnati dall’esperienza del terrore, nell’incubo del quale hanno maturato concezioni antropologiche

profondamente pessimistiche.

Le teorie degli Ideologues e di Bentham sembrano indicare la via più ragionevole per uscire dalla

crisi e porre fine alla rivoluzione.

E’ proprio in seno a questa cultura termidoriana, che si prefigurano gli orientamenti autoritari e

stabilizzatori che seguirà il legislatore napoleonico.

Il codice napoleonico, infatti, non si presenta come un’opera uscita di getto, bensì come un progetto

che affonda le sue basi tempo addietro, tanto che di esso si può dire che nasca da una scala di

precedenti progetti.

La codificazione napoleonica, dunque, è spiritualmente iniziata molto prima di quanto si sia abituati

a pensare: il suo fondamento risiede in Termidoro.

Il code civil

NAPOLEONE, IL CETO DEI GIURISTI E IL CODE CIVIL

Il 9 Novembre 1799 si ha il colpo di stato:

Bonaparte rappresenta colui che è destinato a ristabilire quell’ordine che il Direttorio non è riuscito

a garantire: i sostenitori del colpo di stato cercano in lui colui la persona docile attraverso cui porre

fine alla Rivoluzione. Essi, tuttavia, si illudono!

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Bonaparte, infatti, rivela un proprio disegno egemonico: egli diventerà, in breve tempo, un autentico

dittatore.

Fin dai primi momenti della sua carriera politica, Bonaparte capisce l’importanza di raccogliere

intorno a sé i giusti giuristi: egli sceglie con grande oculatezza quelli che poi diverranno i futuri

legittimatori del nuovo ordine politico.

Quasi tutti costoro, infatti…

-sono stati professionisti della giustizia durante l’ancien regime

-hanno guardato alla monarchia costituzionale come modello politico ottimale

-durante il terrore si sono ritrovati ad un passo dal patibolo

-provano repulsione per tutte le filosofie sulla socievolezza umana e sull’annullamento

dell’individuo nell’interesse del tutto.

Occorre intendersi: non tutti i giuristi napoleonici sono passati dall’illusione al disincanto!

Napoleone, infatti, chiama presso di sé, o mantiene nelle loro cariche, anche alcuni giuristi

compromessi fino in fondo con la rivoluzione.

Tra i giuristi e Napoleone si creerà ben presto una salda alleanza: Infatti,

lui, sta edificando il progetto di istuzionalizzazione del proprio potere

i giuristi, invece, chiedono il ribaltamento della libertaria legislazione giacobina.

Le rispettive aspirazioni di costoro convergono nell’idea del code civil:

 Per Napoleone, infatti, il codice costituisce un imprescindibile strumento per governare, ed è

un mezzo di glorificazione del proprio trionfo.

 Per i giuristi, invece, il codice civile è visto come un inestimabile monopolio di ceto.

Esso non costituisce un ritorno all’antico ordine, bensì una delle prime conquiste della Rivoluzione.

Napoleone e i suoi giuristi intendono mettere nel code civil tutto ciò di utile e positivo che la

rivoluzione ha portato.

LA FORMAZIONE DEL CODICE CIVILE NAPOLEONICO

a) La nomina della Commissione

Nel 1800, Bonaparte incarica una commissione di approntare il più velocemente possibile il codice

civile: questa ha a disposizione quattro mesi scarsi, tuttavia attinge dai progetti elaborati fino a quel

momento, ed in particolare dal progetto Jacqueminot, che ripropone con qualche piccola variazione

lessicale.

b) Il progetto dell’anno IX

Nel 1801, il progetto è pronto, e ripete l’ormai collaudata tripartizione giustinianea.

Le aspirazioni dei post termidoriani sono esaudite, in quanto il diritto di famiglia è concepito

all’insegna della reazione:

-è restaurata la patria potestà,

-la moglie è sottomessa al marito

-e i figli naturali sono posti in condizione di inferiorità rispetto a quelli legittimi

-L’adozione non è ammessa

-e il divorzio viene concesso solo per cause determinate dalla legge

L’ultima disposizione del progetto affronta il problema del rapporto tra il codice ed il diritto

anteriore che, nelle materie disciplinate dal codice, si considera abrogato.

c) Dal Consiglio di Stato al Corpo legislativo

L’iter previsto dalla costituzione prevede che la discussione del progetto di legge passi

dal consiglio di stato

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al tribunato

al corpo legislativo.

Il ruolo del consiglio di stato è fondamentale: qui il progetto viene ampiamente discusso, limato e

ridimensionato. Se il consiglio di stato riesce a forgiare il testo definitivo del codice, il merito va

soprattutto a Cambacérès, che dirige i lavori con indubbio talento.

Nonostante ciò, inizialmente l’iter formativo del code civil si rivela molto difficoltoso: il tribunato

e il corpo legislativo, infatti, respingono alcuni titoli del codice.

Bonaparte, tuttavia, non si perde d’animo, ed infine, il 21 Marzo 1804, il codice civile viene

approvato.

IL DISCORSO PRELIMINARE DI PORTALIS AL CODE CIVIL

Portalis fece un “Discorso Preliminare al code civil”. Di questo discorso non è facile parlare, in

quanto esso, con il tempo, è stato destoricizzato e depoliticizzato: esso non espone le idee contenute

nel codice, bensì quelle che l’autore avrebbe voluto vedervi.

La valenza del Discorso, dunque, risiede proprio nel fatto che esso rispecchia la visione di Portalis,

e quindi consente di apprezzare la diversa portata del testo del 1804.

Da queste pagine emerge l’immagine di un giurista ossessionato dal desiderio di ricucire le ferite

provocate dalla rivoluzione tentando di conciliare il vecchio e il nuovo.

 1- Nelle pagine di Portalis, il codice viene considerato il simbolo politico per eccellenza,

l’architrave della nuova società francese.

Se durante la fase più radicale della Rivoluzione, il diritto privato è stato asservito (=fatto servo)

alla ragion di Stato, ora, per Portalis, il rischio della assoluta politicizzazione del diritto privato è

venuto meno.

Portalis consacra Napoleone quale pacificatore della Francia, asserendo che codice e Napoleone

sono saldati in un inscindibile nesso: infatti così come Napoleone ha portato la pace, il codice la

garantirà.

Napoleone, inoltre, sarà colui che farà si che la Francia non sia più una società di società, bensì una

nazione retta da un’unica legislazione civile.

Gli obiettivi perseguiti col codice, dunque, sono

-la legittimazione del potere di Bonaparte

-la stabilizzazione della società

-e la cancellazione del particolarismo giuridico.

 2- Accanto al dato di fatto che Portalis comprende chiaramente la portata del codice civile,

occorre soffermarsi su un altro aspetto:

occorre soffermarsi, cioè, sul rapporto in cui il code civil si pone rispetto alla realtà passata,

presente e futura.

E’, anche questo, un punto centrale del discorso di Portalis.

Qui, egli, compie una mediazione: se tempo addietro, infatti, egli aveva rifiutato in assoluto la

codificazione, asserendo che sarebbe stato impossibile pensare di superare i legislatori dell’antica

Grecia e dell’antica Roma,

ora egli è pronto a tornare sui suoi passi, procedendo alla codificazione, ma a due condizioni:

a) a condizione che non si cancelli del tutto il passato, in quanto questo costituisce lo spirito dei

secoli: è con questo spirito che alcuni principi della rivoluzione potranno sopravvivere

b) che non si pretenda di voler disciplinare e prevedere tutto: il codice civile si può realizzare,

purchè esso venga concepito come uno strumento “aperto”, che ricorra a consuetudine e diritto

naturali in caso di lacune. Le lacune, infatti, sono inevitabili, e un codice, per quanto completo

esso possa sembrare, non lo può mai essere, in quanto al magistrato finiscono per presentarsi,

da un momento all’altro, mille problemi.

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 3- Per quanto riguarda, invece, il problema intercorrente tra legge ed interprete, Portalis escogita

ancora una volta un compromesso:

partendo dal presupposto che sia erroneo pensare che possa esistere un corpo di leggi in grado di

provvedere a tutti i casi possibili, egli invita a lasciarsi guidare dal magistrato, designato come un

arbitro illuminato ed imparziale, capace di giudicare in alcuni casi secondo equità.

Portabilis riabilita, dunque, la figura del giudice-interprete, sottolineando il fatto che

-la sentenza può essere riformata in appello

-e il legislatore veglia sulla giurisprudenza.

LA VESTE FORMALE DEL CODE CIVIL

Per quanto riguarda la struttura del codice di Napoleone, esso si articola

in 2281 disposizioni, ripartite

-in un titolo preliminare

-e in tre libri:

• nel 1°, vengono regolati diritti personali, matrimonio, filiazione,

adozione e tutela

• nel 2°, beni, proprietà, usufrutto e servitù

• nel 3°, successioni, donazioni tra vivi, testamento, contratti e

obbligazioni, delitti e quasi delitti, rapporti patrimoniali tra coniugi, espropriazione forzata e

cause legittime di prelazione tra i creditori.

Lo stile del legislatore è asciutto.

IL RAPPORTO TRA GIUDICE E LEGGE: GLI ARTICOLI 4 E 5 DEL CODE CIVIL

L’ART. 4 del titolo preliminare è la disposizione chiave per decifrare il rapporto tra giudice e legge

così come esso si configura nel codice civile.

Questa norma dice che, laddove un giudice, con il pretesto di oscurità o lacunosità della legge, si

rifiuti di giudicare, sarà possibile agire contro di lui come colpevole di negata giustizia.

Portalis aveva introdotto questa disposizione per impedire ai giudici di non giudicare, ricorrendo al

legislatore. Egli si inserisce a meraviglia nel modo di fare tipico del periodo post-termidoriano, in

cui i giudici venivano obbligati a decidere senza la possibilità di ricorrere al fatto che la legge fosse

oscura o lacunosa.

In caso di una lacuna realmente esistente, dunque, il giudice doveva comportarsi secondo equità.

Questa equità, tuttavia, non era assolutamente da intendersi come l’arbitrio giudiziale dell’ancien

regime, in quanto al riguardo erano state predisposte le adeguate contromisure.

Per comprendere in pieno il disegno realizzato dalla commissione napoleonica, occorre evidenziare

il fatto che essa era ossessionata dall’idea di realizzare un perfetto equilibrio tra giudice e legge,

mediando tra l’ampia discrezionalità del giudice, tipica dell’ancien regime, e la rigida

subordinazione del magistrato alla legge, tipica, invece, della rivoluzione.

Tuttavia la disposizione che visualizzava il giudice come ministro di equità, permettendogli di

ricorrere agli usi ed al diritto naturale, venne cassata.

A rimanere in piedi furono solo gli articoli 4 e 5, segno, questo, che non si era riconosciuto

affatto l’impianto di Portalis.

Egli, tuttavia, non si abbattè e, determinato a far rientrare nell’art. 4 il principio per cui il giudice, in

caso di silenzio della legge, era legittimato a comportarsi secondo equità, nel momento di

illustrazione del titolo preliminare, presentò l’articolo proprio in quel modo.

Vista la contestazione che i deputati fecero della norma, Portalis si vide costretto a fare un passo

indietro, chiarendo che l’equità a cui egli si riferiva consisteva in una equità legale, ossia in una

equità ricavabile dalla legge.

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IL DIRITTO DI FAMIGLIA E DELLE SUCCESSIONI

Lo spirito della rivoluzione si era nutrito di un odio implacabile nei confronti di due istituti cardine

della famiglia:

-la patria potestà, posta sotto accusa come potere dispotico in grado di soffocare i figli

-ed il testamento, visto come strumento di ricatto, impiegato dal padre per tenere a freno i figli con

la minaccia della diseredazione.

Nel codice civile del 1804, si ritrovano sì il matrimonio civile, il divorzio, il divieto di

diseredazione, il principio dell’uguaglianza successoria dei figli, ed il diritto di costoro ad una quota

legittima sul patrimonio ereditario.

Tuttavia ci si accorge subito del fatto che Napoleone ed il suo entourage…

hanno restaurato l’istituto della patria potestà: essa è tornata ad essere un complesso di poteri

direttivi e correttivi, che agiscono come una sorta di magistratura, tanto che il padre…

-ha il potere di far incarcerare il figlio ribelle

-deve dare la propria autorizzazione affinchè il figlio, minore di 25 anni, possa sposarsi

hanno fatto rinascere il testamento, tanto che il codice riconosce al padre la facoltà di disporre

liberamente di una quota del proprio patrimonio: con questo ripristino della quota disponibile, viene

riconosciuta al padre la facoltà di premiare i figli virtuosi e punire quelli snaturati.

 Il riconoscimento dei figli naturali, in quanto figli fuori dalla famiglia, non viene certo favorito,

in quanto la società, dice Napoleone, non ha interesse a che i “bastardi” vengano riconosciuti. Di

qui una serie di svantaggi sul piano successorio.

 Anche la disciplina del divorzio viene assai ridimensionata, tanto che esso viene ammesso solo in

pochissimi casi tassativamente determinati della legge.

 La podestà maritale, infine, viene rimessa sul piedistallo di sempre, e viene riconsegnata

all’uomo quale capo assoluto del governo familiare.

Questo rigore austero e questo autoritarismo, sono finalizzati al rafforzamento dello stato che,

potendo poggiare sull’autorità dei padri di famiglia, può contare su di loro per supplire alle leggi e

mantenere la pubblica tranquillità.

Le rigorose strutture gerarchiche della famiglia napoleonica non sono pensate nel presupposto che i

membri della famiglia siano mossi da sentimenti altruistici, ma sono pensate (con un grande

pessimismo relativo alla natura umana) nel presupposto che tutti i membri della famiglia siano

spinti unicamente dall’interesse.

Di qui la concezione (presa dagli Ideologues) che il legislatore possa servirsi del fatto che l’uomo

guarda solo all’interesse, per giungere al bene comune.

LA DISCIPLINA DELLA PROPRIETA’

La disciplina della proprietà rappresenta il fulcro dell’intero codice: esso definisce la proprietà

come “diritto di godere e disporre delle cose nella maniera più assoluta”.

Essa nasce dal lavoro dell’individuo in seno alla società civile organizzata, ed è

-concepita da una legge, che la genera

-e garantita da uno stato che la protegge, la regola e la limita, tanto che il codice,

 dopo aver asserito che il privato può godere e disporre dei suoi beni nella maniera più

assoluta,

 continua dicendo che tutto ciò è valido, purchè di essa non se ne faccia un uso proibito dalle

leggi o dai regolamenti.

Qualificando la proprietà come summa del potere di godere e di quello di disporre, il codice intende

escludere ogni possibile rinascita del tradizionale regime signorile di dominio sulla terra. Sono

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dunque proprio gli acquirenti dei beni nazionali (che in realtà erano i beni del clero, prima

confiscati e poi venduti) che il codice napoleonico vuole rassicurare proclamando l’assolutezza del

diritto di proprietà.

IL CONTRATTO

Per quanto riguarda, invece, il diritto delle obbligazioni e la disciplina dei contratti, anche qui ci

troviamo di fronte ad un articolo celebre, l’art. 1134, articolo in cui il 19° secolo avrebbe scorto la

magna charta della libera iniziativa economica privata.

Asserendo che “le convenzioni formate legalmente hanno forza di legge nei confronti di coloro che

le hanno poste in essere”, l’articolo sembra voler dire che è la volontà dei privati, e non la legge, a

dare forza vincolante al contratto.

alla sua origine, tuttavia, questo articolo non è concepito come enunciazione della autonomia e

della forza giuridica creativa della volontà dei privati,

in quanto ciò che ispira i suoi redattori è piuttosto il principio che i contratti, stipulati legalmente, e

cioè nei termini richiesti dalla legge dello stato, obbligano le parti a rispettare gli impegni assunti.

Essendo dunque l’articolo inquadrato nell’ambito del liberalismo classico solo più tardi, esso,

agli inizi, ha tratto la sua forza dalla legge, piuttosto che dalla volontà delle parti.

L’EMERSIONE DEL PRINCIPIO DEL CONSENSO TRASLATIVO

Nell’ambito della disciplina delle obbligazioni e dei contratti, è opportuno soffermarsi su una

disposizione che contiene una notevole innovazione:

secondo il legislatore napoleonico, infatti, la proprietà può essere trasferita solamente per mezzo del

consenso manifestato dalle parti:

questo principio del consenso traslativo, tuttavia, sarebbe già stato operante in Francia al

momento della codificazione del codice, tanto che il legislatore si sarebbe limitato a consacrarlo nel

suo testo.

LE RADICI FILOSOFICHE DEL CODE CIVIL: ALCUNI ASPETTI PROBLEMATICI

Occorre rispondere, ora, a due interrogativi:

I- In che misura i giuristi coinvolti nell’opera della codificazione si siano lasciati condizionare dalle

concezioni filosofiche circolanti durante il direttorio.

I giuristi si sono persuasi del fatto che il legislatore debba conoscere l’essere umano in ogni suo

aspetto, accogliendo il modello antropologico degli Ideologues: l’uomo è un essere sensibile,

soggiogato alle passioni, e mosso dagli interessi. Al legislatore spetta dunque il compito di

incanalare e dirigere accortamente queste passioni egoistiche verso l’interesse generale.

Dunque, proprio perché sono convinti di conoscere la sensibilità dell’uomo, i giuristi impegnati

nella codificazione sono persuasi di poter orientare la condotta dei destinatari delle norme facendo

leva sul sistema delle pene e delle ricompense:

è per questo che la disponibile rappresenta, nelle mani del padre, lo strumento per eccellenza

attraverso il quale educare i figli.

Tra i giuristi del code civil, dunque, non si respirano certo concezioni antropologiche!

Costoro, si può ben dire, subirono l’influenza degli Ideologues e di Bentham.

II- Quale sia stato il peso di altre culture più risalenti.

L’idea che l’uomo sia dominato dall’interesse, e che il legislatore debba sfruttare questo interesse

per giungere a realizzare il bene comune, si radica in realtà in una tradizione culturale più risalente,

appartenente al pensiero di Port Royal, Pascal e Domat.

Secondo costoro, infatti, l’uomo è dominato dall’ “amor proprio”, sentimento, questo, sul quale fare

leva per conseguire finalità positive.

Questa concezione del ruolo dell’amor proprio, ha fatto presa su alcuni giuristi francesi precedenti

alla Rivoluzione, che parlano di taluni concetti che Napoleone e il suo entourage poi riprenderanno.

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Una sorta di filo rosso, dunque, sembra legare la cultura d’ancien regime, alla rivoluzione, all’età

napoleonica.

LA METAMORFOSI DELLO SPIRITO DEL CODE CIVIL

Ci si è chiesti come mai…

visto che il code civil non nasce come un testo volto ad esaltare l’individualismo

e visto che Napoleone persegue di fatto una politica dirigistica da sovrano assoluto

…i giuristi liberali abbiano celebrato questo codice come un monumento dell’autonomia della

società civile rispetto allo stato, in cui

-l’individuo è considerato come un soggetto libero ed incoercibile

-e lo stato è visto come il garante neutrale degli scambi economici.

Si può dire che il codice, per molti aspetti, abbia subito una sorta di trasfigurazione, disancorandosi,

decennio dopo decennio, dalle sue origini, e caricandosi di connotati liberali ed umanistici che, al

momento della sua compilazione, non erano stati previsti.

Per spiegare tutto ciò, occorre pensare alla grande flessibilità del testo normativo:

se infatti i giuristi di Napoleone avevano pensato le norme secondo una politica potestativa, ed in

base ad una concezione dell’uomo infantilizzante,

costoro, da grandi tecnici quali erano, le levigarono fino a far loro raggiungere un livello di

astrazione eccellente, munendo quindi il codice di una straordinaria capacità di adattamento.

Sfuggito al controllo del legislatore, ed affidato alla interpretazione giurisprudenziale, il codice del

1804 si è rifatto da sé, caricandosi dei contenuti e dei valori propri delle realtà che via via gli sono

divenute contemporanee.

Il seguito della codificazione napoleonica

IL DIRITTO PENALE: DAL CODE CRIMINEL AL CODICE DEL 1810

a) Il progetto di code criminel (1801-1802)

1801. La Francia è in allarme: nelle campagne i criminali si moltiplicano, compiendo molteplici

crimini.

Il governo fronteggia il problema nominando una commissione di giuristi incaricata di presentare

entro pochi mesi un progetto di codice criminale. In realtà il testo, ridefinito più volte, entrerà in

vigore solo nel 1811.

La commissione capisce subito che per fermare il fenomeno della criminalità occorre mettere a

punto un codice che intimidisca i delinquenti: di qui, la reintroduzione…

-del taglio della mano per gli autori di alcuni efferati crimini, prima che il boia li uccida

-del marchio a fuoco

-della confisca generale dei beni

-della pena di morte per il furto aggravato

Si ritorna dunque alle pratiche d’ancien regime, convincendosi che le sanzioni davvero utili sono

quelle esemplari: la cornice che deve accompagnare l’esecuzione dei giustiziati deve essere lugubre,

tale da terrificare chi vi assiste.

In queste pagine non c’è spazio per l’umanitarismo e per Beccaria: il code penal napoleonico entra

in vigore con la caratteristica del rigore intimidatorio e repressivo.

Per i redattori del codice, i diritti dell’uomo sono subordinati alle esigenze di ordine pubblico: le

pene esemplari (e perciò sproporzionate) sono concepite come irrinunciabili strumenti di controllo

sociale.

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Una volta che il progetto viene stampato e fatto circolare tra gli addetti ai lavori, molti plaudono il

principio della difesa sociale realizzato attraverso il ricorso all’esemplarità della sanzione.

b) La redazione del code pénal

Il progetto di code criminel, non si limita a disciplinare la parte sostanziale del diritto penale, ma

disciplina anche quella procedurale: è così che, fino a quando non vengono separate le due parti, il

processo di codificazione rimane su un binario morto.

Si è pronti a ripartire quando, nel 1808, alcune asprezze del progetto originario vengono mitigate:

questo avviene perché, nel 1808, la Francia è ormai una società pacificata.

Per ciò che riguarda l’architettura del codice, esso si struttura

in 5 disposizioni preliminari,

a cui seguono 4 libri

Nell’ambito delle disposizioni preliminari…

 ritroviamo il divieto di retroattività: di fatto questo principio, però, venne disatteso. Napoleone

introduce delle nuove bastiglie in cui vengono rinchiusi, in via amministrativa, gli avversari politici,

i soggetti pericolosi assolti per insufficienza di prove e tutta una popolazione considerata vicina alla

delinquenza: prostitute, imbroglioni ecc ecc..

 viene mantenuta la norma sul tentativo: il tentativo viene punito con la stessa pena applicata al

reato consumato.

Per quanto riguarda il sistema delle pene…

…queste vengono distinte a seconda che il reato commesso sia un crimine, un delitto, o una

contravvenzione.

Per coloro che si sono macchiati di…

 un crimine, possono essere irrogate come sanzioni… -la morte

-i lavori forzati a vita

-i lavori forzati a tempo

-la deportazione

-la reclusione

-la berlina

-il bando

-la degradazione civica

-l’ammenda

-la confisca speciale.

Le due prime sanzioni (morte e lavori forzati a vita), possono essere accompagnate da due pene

accessorie: il marchio o la confisca generale dei beni.

 un delitto, sono comminati -la prigione

-l’interdizione a tempo da diritti civici, civili o di famiglia

-la sorveglianza dell’alta polizia

-l’ammenda

-la confisca speciale

 una contravvenzione, viene prevista -la prigione

-l’ammenda

-la confisca speciale

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Se confrontiamo questo sistema sanzionatoria, con quello predisposto da legislatore del 1791, ci

accorgeremo che

il principio di temporaneità delle pene viene abbandonato

riappaiono le pene corporali e la confisca generale dei beni del condannato.

inoltre, viene ripudiato il sistema delle pene fisse, e viene introdotto un minimo ed un massimo

edittali (es. da 5 a 20 anni)

Per ciò che riguarda, invece, la parte speciale,

occorre sottolineare il fatto che il diritto penale viene concepito come uno strumento di difesa del

già consolidato assetto politico, tanto che le norme relative ai reati contro lo stato vengono ritenute

la parte più importante del codice.

Quanto alle tecnica normativa impiegata dal legislatore napoleonico, il codice penale francese,

rispetto a quello austriaco, si caratterizza per l’estrema concisione dei precetti e per lo stile

imperativo delle sue disposizioni.

IL CODICE DI PROCEDURA PENALE (1808)

a) La formazione del codice e il problema della giuria

L’esigenza di garantire una rapida stabilità dell’ordine sociale spinge il legislatore napoleonico a

procedere, oltre alla riforma del codice penale, anche a una revisione della procedura criminale.

Questo aggiornamento si caratterizza per il recupero di alcuni elementi propri del rito criminale

d’ancien regime.

Con il codice penale del 1810, il codice di procedura ha in comune

-l’origine

-gli artefici

-ed un lungo periodo di incubazione: iniziato nel 1802, esso viene definitivamente promulgato solo

nel 1808. Le vicende della sua approvazione, tuttavia, sono travagliatissime:

il principale terreno di scontro concerne la giuria popolare: la contrapposizione, infatti, si ha

-tra chi intende rimettere in auge le regole del processo criminale pre-rivoluzionario

-e chi, al contrario, ritiene che occorra salvaguardare le innovazioni introdotte dal droit

intermediarie.

Fin dalla sua introduzione, infatti, la giuria non aveva dato gran prova di sé, rivelandosi un

elemento del sistema repressivo poco funzionante.

Dopo una battaglia che dura anni, la soluzione risulta inevitabilmente compromissoria:

ad essere mantenuta, infatti, è soltanto la giuria di giudizio, mentre le funzioni in precedenza svolte

dalla giuria d’accusa vengono assunte dalle camere di consiglio, istituite presso ciascuna corte

d’appello, e composte da tre magistrati togati.

b) I caratteri della procedura penale napoleonica

Il delicato problema della sopravvivenza della giuria, si chiude con un accomodamento: l’intera

vicenda fa nascere l’opinione che il processo penale napoleonico sia frutto di un compromesso.

Del resto, questa inconfondibile caratteristica del processo penale napoleonico può essere colta

ancor meglio se si osserva la struttura complessiva del codice, un codice in cui…

-alla fase istruttoria, ispirata ai canoni del processo inquisitorio

-fa da contraccolpo la fase dibattimentale, caratterizzata, invece, dai canoni della procedura

accusatoria.

La fase istruttoria, segna il ritorno ai modelli normativi dell’antico regime, e cioè il recupero del

modello inquisitorio:

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1- L’istruzione preparatoria è segreta e senza contraddittorio. Il giudice istruttore ha la facoltà, ma

non l’obbligo, di interrogare l’imputato, ma non è tenuto a comunicargli l’esito delle attività svolte,

e può tenergli nascosti i fatti di cui è accusato.

2- Questo velo di segretezza impenetrabile, è destinato a squarciarsi solo nella prima udienza

dibattimentale, in cui l’imputato può ottenere una copia della intera documentazione istruttoria.

Questa fase è dominata dal principio della scrittura: il codice dispone l’obbligatoria verbalizzazione

degli interrogatori dei testimoni.

3- La prima parte della procedura, è caratterizzata, infine, dall’assenza del difensore: il suo

intervento, infatti, è previsto solo nella fase dibattimentale.

Nella fase del dibattimento, invece, tornano alla luce i caratteri del procedimento accusatorio:

1- Tutto si svolge all’insegna dell’oralità: al principio istruttorio della scrittura, subentra l’audizione

dei testi e la discussione delle parti.

2- Si ha la difesa tecnica ed il contraddittorio: l’imputato ha un difensore, che può

-controinterrogare i testi

-e replicare alle conclusioni dell’accusa.

3- Infine, i giurati decidono inappellabilmente sul fatto, secondo il principio del libero

convincimento.

Il dibattimento, dunque, è concepito come quella fase in cui si bada a tutelare i diritti dell’imputato.

In realtà, tuttavia, il tentativo del legislatore di contemperare le esigenze di difesa sociale con il

rispetto delle garanzie individuali non si risolve in modo neutrale, almeno sotto due profili:

la distinzione tra le due fasi del processo è meno netta di quanto possa sembrare a prima vista: in

esso, infatti, prevale l’utilizzo della procedura scritta, con la conseguenza che l’esito del processo è,

il più delle volte, pregiudicato dall’opera del giudice istruttore.

c’è un generale indebolimento delle garanzie processuali.

IL CODICE DI PROCEDURA CIVILE (1806)

Tra tutti i codici napoleonici, secondo la storiografia successiva, quello di procedura civile risultò

essere un codice redatto troppo in fretta.

Nel 1802, la commissione incaricata di redigere il codice viene istituita.

A partire dal 1805 il progetto della commissione, pubblicato e trasmesso ai singoli organi giudiziari,

viene discusso in consiglio di stato; esso, infine, entra in vigore nel 1807.

Il testo si articola in due parti:

la prima, disciplina la procedura davanti ai tribunali

la seconda, regolamenta le procedure diverse (che, oggi, prenderebbero il nome di procedimenti

speciali,

il tutto caratterizzato dal consueto stile imperativo, apodittico.

Quanto al contenuto, il codice prevede tre tipi di procedimento:

• procedimento di fronte ai giudici di pace

• procedimento dinanzi ai giudici di primo grado

• procedimenti diversi

I giuristi napoleonici compiono degli innesti tratti dalla legislazione rivoluzionaria e dalle procedure

d’ancien regime: è proprio l’aderenza a questo archetipo la critica

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IL CODICE DI COMMERCIO (1807)

Nel momento in cui viene promulgato il codice di commercio napoleonico, la Francia era l’unico

stato, in Europa, che da più di un secolo aveva una legislazione commerciale.

 Le due ordonnances di Colbert, una sul commercio e una sulla marina, infatti, avevano

trasposto le consuetudini giuridiche commerciali e marittime in un testo legislativo: anche se il loro

contenuto non era particolarmente innovativo, il fatto importante da sottolineare era la

rivendicazione, da parte della monarchia di Luigi 14, della competenza a fissare le regole

commerciali tramite la legge dello stato.

Sebbene dunque sia errato qualificare come “codici” i testi di Colbert, non si può negare che la

statualizzazione del diritto commerciale abbia avuto inizio con questi due celebri testi.

 Le richieste di riforma del diritto commerciale alla vigilia della Rivoluzione apparvero in modo

chiaro in numerosi cahiers des doleances,

 Tuttavia, è soltanto sotto Napoleone che l’idea della codificazione commerciale prende

forma concreta:

dopo aver lavorato per quasi un anno, una commissione presentò un primo progetto che

riformava profondamente la legislazione colbertina: lo scopo del progetto non consisteva

tanto nel proteggere i commercianti, quanto nel favorire il commercio con l’ausilio di una

normativa uniforme per tutta la Francia.

il testo del progetto venne inviato alle corti di giustizia, ai tribunali di commercio, e ai

consigli di commercio: le osservazioni fatte da costoro portarono ad una seconda versione del

progetto:

spettava ora al consiglio di stato intervenire.

L’esame degli articoli fu minuzioso, e la discussione durò fino al 1807.

P:150

150

ADRIANO CAVANNA

Parte speciale

GennaroAcquario1980

([email protected])

L’anno 476 d.C. segna il “tramonto del Sacro Romano Impero d’Occidente” dovuto alla formazione di una

moltitudine di regni di diversa grandezza (cd: romano-barbarici).

*Barbaro : Termine greco che indica tutti coloro che non appartenevano alla loro civiltà e che non parlavano la loro

lingua, evidenziandone la rozzezza/arretratezza (Germania-Polonia-Ungheria).

Nella sua opera “Germania” lo storico romano Tacito, affermò che questa era una società compatta/bellicosa, in cui i

delitti più gravi (tradimento) erano puniti con la pena capitale.

1) VISIGOTI.

Primo ordinamento giuridico barbaro che, guidati dal re Alarico I invasero l’Italia saccheggiando Roma, per poi

stanziarsi in Francia (ove furono sconfitti dai Franchi di Clodoveo) e in Spagna (dagli arabi).

Furono artifici una importantissima norma : LEX ROMANA VISIGOTHORUM (o Breviarum Alarici) costituita da

Leges (costituzioni imperiali) e Iura (frammenti della dottrina dei giuristi classici), avente come scopo quello di

dimostrare il rifiuto di ogni supremazia del diritto romano sui popoli barbari.

2) OSTROTI.

Secondo ordinamento giuridico barbaro che, grazie a Teodorico , succedono ai Goti (autori della caduta dell’Impero

Romano d’Occidente).

Popolo molto più civile del primo, essi non realizzarono una totale integrazione con i Romani tale che per lungo tempo

regnò il “principio della personalità del diritto” (ognuno applicava il diritto del suo popolo).

Importante fu L’EDITTO DI TEODORICO (di Teodorico II) che disciplinava i rapporti tra Ostrogoti e Romani.

3) BIZANTINI.

1) Giustiniano salì al trono di Costantinopoli divenendo imperatore del Impero Romano d’Oriente. Sconfitto gli

Ostrogoti (dopo una sanguinosa guerra durata quasi 20 anni) l’Italia entrò a far parte di tale Impero conservando così il

diritto romano fino ai giorni nostri.

2) L’insieme delle opere di Giustiniano prende il nome di Corpus Iuris Civilis (libri legales), essi sono:

• CODEX IUSTINIANUS : Opera di Giustiniano con l’obiettivo di riordinare tutte le costituzioni (che i precedenti

imperatori emanavano) sulla base dei codici Gregoriano-Ermogenano-Teodosiano.

(Perfezionato poi dopo con il Codex Repetitae Praelectionis ).

• Digesto : Opera in latino-greco (50 libri divisi in titoli e frammenti) contenente le Iura (frammenti della dottrina dei

giuristi classici).

• Institutiones : Opera (4 libri di Gaio) ripresa poi da Giustiniano che preparava gli studenti allo studio delle

leges/iura, del Digesto (privato 2°anno) e al Codex (civile 5°anno).

3) Giurisprudenza (Iurisprudentia) : Termine latino che indica colui che non soltanto possiede un sapere ma è anche in

grado di applicarlo.

4) LONGOBARDI.

1) Popolo molto più violento/arretrato, invadono l’Italia e la dividono in Longobardia Maior (Nord) e Longobardia

Minor (Sud)..cercando poi di sostituire il potere dei Duchi (comandanti con poteri civili-militari affiancati da famiglie

potenti) con i Gastalli (funzionari del re).

2) Fu emanato l’ EDITTO DI ROTARI (dal re Rotari) con l’intenzione di mettere per iscritto le antiche leggi dei

padri, introducendo:

• norma contro l’attentato alla vita del re (Faida).

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• creazione di un soggetto giuridico addetto alle entrate/spese (Fisco).

• norme contro il delitto tentato.

• successione legittima (per legge).

• norma sulla posizione giuridica della donna (era proprietà del marito e come tale ad esso sottomesso: Mundio).

5) FRANCHI.

1) Popolo proveniente dalla Germania si stabiliscono definitivamente in Francia. Il figlio del re, Carlo venne incaricato

dal papa Adriano I di venire in soccorso della Chiesa (minacciata da Desiderio, re Longobardo) così arrivato in Italia

nella notte dell’800 Carlo diviene Carlo Magno e incoronato Imperatore del Sacro Romano Impero.

2) RENOVATIO, ovvero:

• Romano Impero : L’imperatore romano è una figura unitaria che governa tutto l’impero.

• Sacro Romano Impero : Carlo Magno, essendo imperatore, mantiene distinta la corona dei Franchi - re d’Italia!

3) Conti : aristocratici che godono della fiducia dell’imperatore.

Contea : il loro territorio.

Bannum : disciplina civile-militare che si esercita all’interno del territorio.

Missi Dominici : ambasciatori del re (vescovi) che amministravano la giustizia/tasse in concorrenza ai Conti.

4) Capitularia : corpo di leggi, suddivise in:

• Cap. Ecclesiastica : miscuglio di norme canoniche/secolari.

• Cap. Mundiana : riguarda situazioni civili.

• Cap. Per sé Scrivenda : materie nuove.

• Cap. Legibus Addenda : norme che si aggiungono alle precedenti integrandole/modificandole/abrogandole.

5) Franchi furono artefici di una figura importante: FEUDO (legame personale tra il signore e il vassallo) costituito da:

*Elem.Personale (fedeltà nel prestare servizio in guerra e che si scioglie con la morte/tradimento).

*Elem.Locale (consiglio in caso di bisogno).

*Elem.Reale (concessione di terra in cambio di una tassa annuale).

6) Il vassallo titolare del Beneficium (concessione di terra) godeva dell’Immunitas (la non sottoponibilità ai doveri

pubblici/misure finanziarie).

7) Alla morte del vassallo il dominio diretto (titolarità) resta ad esso, mentre il dominio utile (sfruttamento) va agli

eredi, ma con l’Editto di Milano (legge Salica) : Prevede che il feudo potesse trasmettersi/vendersi ai figli-fratelli (non

le donne, inutili in caso di guerra), ma se il nuovo vassallo non era gradito al signore, qsti poteva applicare il diritto di

retratto/prelazione.

8) Arti del Trivio : attenevano al discorso cioè il modo corretto di esprimersi/discutere.

• Grammatica: arte dell’esprimersi in maniera corretta.

• Dialettica: arte del ragionamento.

• Retorica: arte del persuadere, cui max esponente era cicerone.

Arti del Quadrivium (artes reales) : riguardavano fatti reali, e sono: Aritmetica/Geometria – Musica –

Astrologia/Astronomia.

GennaroAcquario1980

([email protected])

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